Le regole del gioco
Niccolò Nisivoccia
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In tutti gli sport, prima di iniziare a giocare gli avversari si
stringono la mano (negli sport collettivi a farlo sono i capitani
delle rispettive squadre); e la stessa cosa accade quando la partita
è terminata (anzi, talvolta gli avversari giungono a farsi
reciprocamente i complimenti, ad abbracciarsi, a scambiarsi le
casacche).
È questa una regola molto importante, e molto simbolica: in una
stretta di mano gli avversari trovano e si garantiscono reciproco
riconoscimento, trovano e si garantiscono la certezza che anche per
questo motivo la partita sarà leale, trovano e si garantiscono la
promessa che sapranno rispettivamente accettare e gestire l’esito
della partita qualunque sarà, trovano e si garantiscono l’impegno
a continuare a riconoscersi come legittimi e leali avversari anche
quando la partita sarà terminata; in una stretta di mano gli
avversari sanciscono un patto di grande civiltà, e niente più di
una stretta di mano potrebbe vincolarli a questo patto - non la
firma di un contratto, non la garanzia di un terzo -, proprio
perché niente più del simbolo è capace di obbligare l’animo
degli uomini quando essi sono chiamati a confrontarsi con grandi
imprese. Diceva infatti Pessoa che nella vita tutto è simbolo,
tutto è analogia; e niente più del simbolo è idoneo a conferire
significato ad un patto di civiltà: i patti di civiltà hanno
bisogno di simboli, e la stretta di mano fra gli avversari prima e
dopo la partita è veramente una di quelle ipotesi in cui si può
dire che la forma diventa contenuto.

Soprattutto, è molto importante e molto simbolico
che la stretta di mano fra gli avversari abbia luogo prima e dopo la
partita; all’interno di questo prima e di questo dopo sarà
giocata la partita, e potrà essere una partita senza esclusione di
colpi, violenta: ma la violenza non potrà essere esercitata né
prima né dopo il tempo e lo spazio che le strette di mano saranno
valse a delimitare, a garantire. Proprio in questo tempo e questo
spazio è il contenuto di civiltà che nella stretta di mano fra gli
avversari trova simbolicamente espressione: in questa reciproca
accettazione di precise regole entro le quali la violenza potrà
essere esercitata.
A questo proposito, Norbert Elias ha affermato che la civilizzazione
delle società non deve essere misurata secondo che più o meno alta
sia la soglia di violenza che questa o quella società è disposta a
tollerare, ma semplicemente secondo che questa violenza - quand’anche
tollerata fino alle più alte soglie, come nei giochi dell’antica
Grecia - sia o non sia esercitata entro i limiti che l’etos
consente, e dunque entro i confini di regole condivise. In altre
parole, non è l’assenza della violenza a fare di una società una
società civile (o civilizzata, come Elias si esprime), ma la
presenza di regole al cui rispetto anche chi eserciti la violenza -
perché per ipotesi gli sia concesso - si senta vincolato.

In un simile contesto, il rispetto dell’altro
diventa la prima delle regole; e poiché nessun rispetto può
prescindere dal reciproco riconoscimento, ecco che il riconoscimento
dell’altro diventa a propria volta il presupposto di ogni contesa:
il presupposto perché una contesa possa essere definita tale, e non
dissidio fine a se stesso. Cioè, ecco ancor più chiaramente il
senso del simbolo della stretta di mano prima della partita: il
riconoscimento del contendente come avversario - nonostante la
contesa, e proprio in virtù della contesa -, e non come nemico -
come straniero la cui identità deve essere negata, secondo il
pensiero di Carl Schmitt -; ed ecco ancor più chiaramente il
contenuto del simbolo della stretta di mano dopo la partita: l’accettazione
della sconfitta, l’elaborazione della vittoria, l’ulteriore
riconoscimento che - nonostante la sconfitta, nonostante la vittoria
- l’avversario rimane tale e come tale deve continuare ad essere
rispettato.
Soltanto così qualunque contesa può aspirare a svolgersi dentro i
confini di una convivenza civile; altrimenti essa non è più
contesa, ma atomistico dissidio senza posto, dissidio irriducibile
ad essere sanato - dove la differenza è tutta nelle etimologie, è
tutta nel “cum” dello stare insieme e del confrontarsi
(dentro un contesto di regole condivise e reciprocamente accettate)
e nel “dis” del dissidio, della dispersione, dell’essere
irrimediabilmente l’uno contro l’altro, l’uno all’altro
straniero.
Purtroppo, la politica è troppo spesso insensibile e sorda a questi
precetti di convivenza civile, a questi insegnamenti che essa
potrebbe trarre dal gioco e dallo sport: la campagna elettorale
della scorsa primavera si era svolta per molti aspetti all’insegna
del “dis”, agli elettori non era stato concesso di
assistere ad alcuna stretta di mano fra i contendenti della destra e
della sinistra, a nessun diretto confronto fra i capitani delle due
squadre; nessun simbolo sembrava preludere a niente, e ciò che ha
fatto seguito alle elezioni - ad ormai un anno di distanza da esse -
non ha fatto che confermare i più foschi presentimenti. Le parti in
gioco continuano a negarsi reciproco riconoscimento, nessuno sembra
disposto a riconoscere all’altro il ruolo di avversario; l’immagine
dell’Evgenij Onegin di Pu_kin, dei duellanti come “avversari”
che “si stan davanti secondo il vecchio rituale”, è e
sembra poter rimanere soltanto letteraria.
Per questa via, la conclusione si riduce alla solita, multiforme
domanda del “cosa assomiglia a che cosa”: è l’arte ad imitare
la vita, o è la vita a dover inseguire gli universali valori dell’arte?
Esiste un’etica della letteratura, o la letteratura non ha niente
a che vedere con la moralità cui il comportamento degli uomini
dovrebbe informarsi? Infine, e soprattutto, la politica deve essere
superiore interprete delle pulsioni dei consociati, o deve farsene
mera esecutrice? La politica non è un gioco, è una cosa molto
seria; ma talvolta il gioco e lo sport sanno essere altrettanto
democratici, e sarebbe bello che la politica cercasse di prenderne
esempio.
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