La mano dell’artista
Sergio Garufi
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Grande importanza ha ricoperto nella storia dell'arte il gesto con
il quale due mani si uniscono a ratificare un patto prestabilito, o
un vincolo futuro. Fra le strette di mano ricordiamo quella sfarzosa
e solenne dipinta dal Pinturicchio alla Libreria Piccolomini di
Siena, in occasione dell’incontro tra Federico III ed Eleonora di
Portogallo, che sanciva la loro promessa di matrimonio; ricalcando
in questa l’antica usanza romana della dextrarum junctio.

Stesso valore nuziale ha il gesto dell’unione
delle mani dei Coniugi Arnolfini, capolavoro di Jan van Eyck
oggi esposto alla National Gallery di Londra, intorno al quale sono
fiorite innumerevoli e autorevolissime interpretazioni iconologiche.
C’è chi, come l’americano Edwin Hall, vi ha visto un
fidanzamento solenne; e chi, come Erwin Panofsky, vi ha scorto il
rito affrettato di un matrimonio riparatore.
Siano quelle di fidanzati o di sposi, le mani unite dei lucchesi
Giovanna Cenami e Giovanni Arnolfini occupano precisamente il centro
del dipinto, e invitano lo spettatore alla contemplazione di un atto
privato reso eterno ed esemplare nella sua mirabile fissità. Nel
silenzio metafisico (verrebbe da dire hopperiano) di quella stanza,
la promessa d’amore di un uomo e una donna assume così un valore
universale, trascende il qui e il quando; e ben ha
fatto Fernando Acitelli, nel suo esile ma denso volume di poesie (Il
bacio dei coniugi Arnolfini, editore ES), a immaginarsi i loro
destini indissolubilmente legati, come amanti chagalliani che si
librano nell’aria tenendosi per mano.
Ma la raffigurazione delle mani nella storia dell'arte non è
limitata alla sola unione simbolica, né il loro significato è solo
quello di sanzione di un'intesa raggiunta. “Dio è nei dettagli”,
amava ripetere Ludwig Mies van der Rohe. A questo stesso principio
si ispirò - ben prima dell’architetto tedesco - Giovanni Morelli,
il padre dell'attribuzionismo nella critica d’arte, cioè
l'inventore del metodo che permetteva di identificare l'autografia
di un dipinto privo di firma o documenti che ne attestassero l’indubbia
paternità. In sintesi, il geniale autodidatta bergamasco sosteneva
che occorresse esaminarne i dettagli anatomici apparentemente più
trascurabili e insignificanti (come i lobi delle orecchie, le
sopracciglia, le mani), che l’artista sarebbe portato a replicare
meccanicamente in ogni personaggio ritratto. Questo perché la
personalità va rintracciata “là dove lo sforzo è meno
intenso”, e l’espressione risulta più spontanea.
Questa sorta di “chirologia estetica” - che Carlo
Ginzburg, prendendo spunto dalla semeiotica medica, definì “il
paradigma indiziario” (in Miti, emblemi, spie, Einaudi),
tracciando così un parallelo fra il metodo induttivo morelliano,
quello psicanalitico di Freud e quello ipotetico-congetturale di
Sherlock Holmes (difatti Morelli, Freud e Conan Doyle studiarono
tutti medicina) - rivoluzionò, alla fine del XIX sec., gli studi di
storia dell’arte.

Un caso eclatante di come le mani siano uno dei
sintomi (per usare una terminologia medica) più evidenti della
personalità di un artista, è senza dubbio quello della grande
tavola di Piero della Francesca custodita alla Pinacoteca di Brera.
Il pittore di San Sepolcro non completò l’opera - inizialmente a
causa del fatto che la costruzione della chiesa per la quale era
stata destinata non era ancora terminata, e in seguito per la
sopraggiunta cecità cui accenna pure il Vasari nella sua biografia
- lasciando incompleti alcuni dettagli come le mani del committente,
il duca Federico da Montefeltro.
Queste vennero eseguite da un altro artista (con ogni probabilità
Giusto di Gand), e la differenza con le mani degli altri personaggi
presenti nella composizione è evidente perfino a un profano. Quanto
sono diafane e immateriali quelle del toscano, tanto sono carnose e
precise (nella definizione delle nocche e delle unghie lucide)
quelle del fiammingo.
Ma gli esempi in questo senso sarebbero infiniti. Si pensi al veneto
Carlo Crivelli, che tratteggiava le mani dei suoi personaggi come
fossero sbalzate nel metallo, lasciando così intuire l’influenza
donatellesca del suo soggiorno patavino durante l’apprendistato
nella bottega dello Squarcione. E quelle grifagne, rapaci e surreali
del ferrarese Cosmè Tura, che deliziarono la corte estense, non a
caso punto d’incontro fra la visione spaziale italiana e la
meticolosità miniaturistica degli artisti fiamminghi che vi
soggiornarono (Rogier van der Weyden, per dirne uno).

E le manine pudiche e provinciali del Lotto (ne l’Annunciazione
di Recanati, per esempio), che rimandano agli splendidi versi di
E.E. Cummings (“nobody, not even the rain, has such small hands”)
citati da Woody Allen in Hanna e le sue sorelle; quelle
perlacee e aristocratiche del Bronzino, che celebrano i fasti della
corte medicea; quelle ossute e stanche del Verrocchio, che sembrano
presagire il prepensionamento causato dall’arrivo del giovane
Leonardo; quelle affusolate e oblunghe del Parmigianino, che
ispirano i versi di John Ashbery (Autoritratto in uno specchio
convesso, Garzanti); e ancora quelle di Caravaggio, così
spudoratamente proletarie e pasoliniane nei calli osceni e nello
sporco delle unghie, che avrebbero fatto inorridire quello snob di
San Luigi Gonzaga.
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