Bava, Fulci e l'horror all'italiana 
             
             
             
            Marco Cruciani 
             
             
             
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            Siamo in Italia, negli anni Sessanta. Il torpore che aleggia sui
            ricordi e sui disastri della guerra sfuma nei titoli di coda di un’altra
            pellicola neorealista mentre il boom smista calore, vivacità e
            ricchezze. Le automobili irretiscono le morfologie territoriali
            disegnando nuovi percorsi fisici e immaginativi lungo strade
            perdute, transitate da personaggi lynchiani in cerca di migliori
            guadagni e altre chimere.
             
              
            
            L’urbanizzazione geometrizza verdeggianti fantasie rurali con
            rette di cemento e inquetudine mentre la televisione omogeneizza il
            quotidiano, il superfluo, l’essenza e l’apparenza del mondo su
            misura per una società che si sta proiettando verso allettanti
            confini di benessere; niente più miserie, macerie e vecchie storie
            quindi, ma nuove illusioni, pacate distrazioni e sottili sensazioni. 
             
            Il cinema di genere si presenta in questi anni al pubblico italiano
            come il collettore e il diffusore di una tradizione culturale rurale
            che spaziava dalle filodrammatiche ai teatrini erranti di paese,
            dall’avanspettacolo al circo, al teatro dei burattini, alle
            leggende, alle storie di streghe e ai romanzi d’appendice;
            ristrutturandone i contenuti, li adatta ai rinnovati valori che l’imprevedibile
            accellerata dello sviluppo industriale va incoraggiando.
             
              
            
            Supereroi e Maciste di ogni tipo, astronauti un po’ goffi e fuori
            serie, minacciosi crudeli e silenziosi pistoleri oltre a comici e
            giullari di tutte le specie, personaggi fantastici e stilizzati che
            abitano spazi mitologici o irreali incarnano un campionario di
            archetipi fino ad allora preroragativa delle fiabe per l’infanzia,
            con il preciso scopo di offrire al pubblico chiavi di
            interpretazione dei fenomeni e delle sfuggevoli dinamiche dell’esperienza
            quotidiana. 
             
            La lotta fra il bene e il male, la fuga, il distacco, il ritorno e
            la riconciliazione che sottendono ad ogni percorso di maturazione
            individuale, il braccio di ferro fra tentazione e rinuncia o fra
            astuzia e innocenza, i pegni della curiosità e l’ineluttabilità
            del destino, sono solo una piccola parte dei suggerimenti di
            condotta nascosti fra le righe delle favole e sotto le maschere di
            quei personaggi. 
             
            Uno dei generi trainanti della nostra fabbrica dei sogni è stato
            proprio quello del fantastico e dell’orrore, inaugurato dall’eclettico
            regista Riccardo Freda che, in seguito ad una leggendaria scommessa,
            nel 1957 realizza I Vampiri. Realizzare un film in due
            settimane era la sfida lanciata dall’artista ai produttori, una
            promessa ma anche un pegno da pagare perché una lunga tradizione
            letteraria come quella dei romanzi e dei racconti gotici potesse
            venire materializzata nell’immaginario di una nazione abituata a
            guardare i propri difetti dallo spioncino della commedia piuttosto
            che a vederne il riflesso sullo specchio senza fondo della paura.
             
              
            
            Fin da subito però la critica nostrana, formatasi su basi
            umanistiche, ha assunto un atteggiamento snobistico e talvolta
            sprezzante verso tali produzioni, accusate da un lato di essere
            esteticamente inesistenti e dall’altro di essere solo scaltri
            ricalchi delle pellicole anglosassoni sfornate dalla Hammer, una
            casa di produzione inglese che stava conquistando in quegli anni le
            platee di tutto il mondo (vedi articoli collegati). 
             
            Ma al contrario di questi film che affidano il compito di
            terrorizzare a mostri professionisti come Dracula, Frankenstein e l’Uomo
            Lupo, in Italia si sviluppa un’idea della paura più concreta e
            reale, meno burlona, silenziosamente legata all’angoscia di ciò
            che non si vede e di ciò che si nasconde nel buio di castelli e di
            anime abitate dall’ombra. 
             
            I nostri vampiri non volano come pipistrelli e non mordono sul
            collo, ma annientano le proprie vittime prosciugandole della loro
            vitalità; non sono nemmeno esseri soprannaturali coperti da un
            mantello, ma comuni mortali assetati di vita eterna che nascondono
            sotto vernici d’apparenza una natura perversa e demoniaca. 
             
            I veri protagonisti del nostro filone sono in realtà i sette
            peccati capitali e le loro infinite combinazioni; i teatri del mito
            e della fiaba si prestano come le scenografie più adatte per
            accogliere storie che traducono sentimenti repressi e sconosciuti in
            sagome dalle sembianze umane che vagano negli spazi surreali di un
            tempo remoto e astratto. I castelli decadenti, le cripte e i boschi
            spettrali non fanno altro che rispecchiare i torbidi stati d’animo
            dei personaggi che li abitano, creando un contesto all’apparenza
            carnevalesco ma in realtà adeguato a disegnare un universo in
            chiaroscuro governato da rumori sinistri e accenti passionali. 
             
            Purtroppo, la tendenza nazionale a pensarsi come paese del sole, la
            ritrosia a parlare con la stessa lingua di film d’autore e di film
            commerciali nonché un atteggiamento produttivo a volte offensivo
            che ha costretto i nostri registi a tempi e modi di lavorazione tutt’altro
            che hollywoodiani, hanno fatto sì che queste pellicole ricchissime
            di spunti letterari, citazioni pittoriche e interessi antropologici,
            fossero relegate nella serie B delle nostre produzioni e cestinate
            nel limbo dell’intrattenimento fugace dai nostri recensori
            distratti. 
             
            Al contrario, la critica d’oltralpe in un primo momento e registi
            d’alto rango in un secondo, hanno spianato la strada ad una più
            accurata valutazione di questo corpo di opere dimenticato e quasi
            assente nelle cineteche nazionali; emblematico è il caso dei soliti
            Cahiers du cinéma, rinomata rivista di critica
            cinematografica francese, che già nel 1961 tenta di attribuire
            caratteristiche autoriali a Mario Bava, il principale e più
            innovativo esponente dell’horror all’italiana, certificandone la
            perizia coreografica, il trattamento psicologico dei protagonisti e
            soprattutto lo stile originale che sottende la sua personale visione
            del mondo.
             
              
            
            “Le grotesque cotoye facilement le terrible dans les
            reprèsentations de l’èpouvante et peu de rèalisateur arrivent
            à y èchapper. Mario Bava nous prouve que la peur n’exclut pas la
            beautè.” Con queste parole, circa trentacinque anni prima di
            Alberto Pezzotta (critico italiano cui dobbiamo la prima analisi
            esauriente dell’opera baviana, alla quale ha dedicato un’edizione
            de Il Castoro nel 1995), il critico Fereydoun Hoveyda ha
            suggellato l’ingresso di Bava nell’olimpo dei grandi autori e
            giustificato l’ambientazione fantastica per storie altrettanto
            profonde di quelle d’impegno civile e politico. 
             
            “Le public se demand parfois où les hommes vont chercher ces
            fantasies irrèelles et à quoi elles riment. L’invention du
            merveilleux avec son cortège d’anges, de fèes, de paradis
            imaginaires, constitute un phénomèn artistique aussi universel que
            naturel, une espèce de compensation pour l’homme vouè à l’alienation
            sociale.” 
             
            A suffragio della salvifica analisi dei francesi, alcuni anni dopo
            è giunta la favorevole opinione di registi di fama internazionale
            come Martin Scorsese, Joe Dante, Quentin Tarantino e soprattutto Tim
            Burton che descrivendo le irresistibili emozioni provviste dai film
            del nostro genere, confessa di aver scoperto per mezzo della loro
            visione il magnetismo, il mistero e il potere del cinema. 
             
            La rappresentazione della paura cambia pelle e si adegua ai
            mutamenti sociali in corso; ma in realtà, avallando le parole del
            regista de Il mistero di Sleepy Hollow, è l’ipnosi
            a cui ci sottoponiamo il punto focale da cui partire per poter
            approdare nei territori misteriosi dell’ignoto verso cui il cinema
            insieme ai nostri misconosciuti registi hanno tentato di
            traghettarci. 
             
            Un’ipnosi che possa consentirci di ritornare fra le essenze del
            nostro animo, fra le sue tendenze latenti e manifeste, fra le sue
            pieghe, i suoi anfratti e i suoi riverberi; un’ipnosi che possa
            anche svincolarci dal bisogno di una narrazione realistica pur
            mantenendo saldo il nesso con il prisma della psiche e con la
            policromia di ogni sua faccia. 
             
            Che poi Lucio Fulci, un altro dei grandi inventori di situazioni
            mirabolanti, sia considerato un terrorista dei generi in
            Italia e un poeta del macabro in Francia può essere il
            semplice sintomo di radicate differenze culturali e interpretative
            che una volta assomate potranno fornire una lettura più minuziosa e
            dettagliata di una personalità e dell’opera da essa creata.
            Forse. Speriamo. 
             
             
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