Non siamo "carne da
sondaggio"
Stefano Rodotà
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sondaggio"
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Questo articolo appare sul numero 71 di Reset
attualmente in edicola. Sui precedenti numeri di Caffè Europa
troverete altri articoli provenienti dallo stesso dossier.
La tecnologia è prodiga di promesse. Alla democrazia offre
strumenti per combattere líefficienza declinante, e arriva a
proporre addirittura una rigenerazione. Si sperimenta sempre più
largamente il voto elettronico, non solo per semplificare le
operazioni elettorali, ma nella speranza che la facilitazione del
voto possa contribuire a ridurre l'astensionismo. La prospettiva dei
referendum elettronici, o di una immensa electronic town hall
corrispondente ad un'intera nazione, ha fatto da tempo riproporre
l'immagine di una democrazia che, riguadagnando il suo popolo, torna
ad abbeverarsi alle antiche sorgenti, alla democrazia diretta
ateniese. E tra questi due estremi si colloca un'infinitàd'ipotesi
e di varianti, diversamente volte a prospettare una partecipazione
sempre più larga ai processi di decisione. La democrazia
deliberativa imbocca le vie della tecnopolitica.

Di tutto questo si discute ormai senza più essere prigionieri
d'ingenui stupori, o di ripulse altrettanto ingenue. Si adoperano
strumenti analitici sempre più affilati, si dispone di dati reali
dai quali è impossibile prescindere. Così il voto elettronico si
colloca in una dimensione che, pur importante anche dal punto di
vista qualitativo, appartiene piuttosto al progressivo affinarsi dei
mezzi che rendono più agevole l'accesso al voto, come l'iscrizione
automatica nelle liste elettorali o la diffusione capillare dei
seggi. Per intenderci: l'enfasi sul voto elettronico non riscatta un
sistema dai vincoli imposti, ad esempio, dall'obbligo preventivo di
registrarsi come elettore.
Peraltro, spostare lo sguardo unicamente verso il ricorso sempre
più massiccio a referendum elettronici, fino all'espropriazione
totale d'ogni assemblea rappresentativa, produce almeno due
distorsioni. La prima riguarda la natura stessa del processo
democratico, ridotto al solo momento della scelta finale, oscurando
soggetti e modalitàdi tutta la fase precedente, nella quale si
esercitano i veri poteri di decisione nel definire i contenuti della
deliberazione e i tempi in cui questa viene sottoposta al giudizio
dei cittadini. Verrebbe così straordinariamente rinvigorito
l'antico vizio plebiscitario, e ai cittadini rimarrebbe solo
l'illusione della sovranità. Se vuol essere davvero deliberativa,
la democrazia dev'essere estesa a tutto il processo di decisione e
deve concretarsi in possibilitàdi partecipazione critica, dunque in
diffusa ed effettiva conoscenza.
Gli effetti della tecnopolitica
La seconda distorsione può nascere dal fatto che, contemplando
l'orizzonte più lontano, si trascurano o si minimizzano gli effetti
che la tecnopolitica giàproduce nei sistemi politico-istituzionali.
I mali sono stati mille volte descritti. La riduzione della politica
a marketing politico. La riduzione dei programmi a sound bites, a
slogan, rattrappiti nei tempi della comunicazione televisiva. La
riduzione dei cittadini a "carne da sondaggio", a numbered
voices. Inoltre, la congiunzione tra estrema personalizzazione e uso
crescente delle tecnologie per una comunicazione diretta tra leader
e cittadini stanno configurando una forma politica congeniale al
populismo del nostro tempo.
Si può certo obiettare che si registrano esperienze e tendenze di
segno diverso, da quelle simboleggiate da Seattle, e casi analoghi,
alle molte altre in corso nei luoghi più vari. Sperimentazioni che
muovono piuttosto dal basso, integrano tecnologie e modalità
d'azione differenziate, e sollecitano più la partecipazione che il
puro fatto della decisione. In questa prospettiva, la piazza reale
non è separata dai luoghi virtuali, le manifestazioni non si
esauriscono in quello spazio, sono amplificate dal sistema
informativo. La manifestazione capostipite, nelle piazze e vie di
Seattle, non sarebbe stata possibile senza una preparazione su
Internet, e non avrebbe avuto effetti così grandi se le immagini di
quelle giornate, trasmesse dalla televisione, non avessero raggiunto
tutto il mondo. Questo è ormai un modello, che vede l'integrazione
di luoghi e mezzi diversi, e non la cancellazione dei vecchi media
ad opera dei nuovi o l'assoluta prevalenza del cyberspazio.
Altre esperienze spostano l'accento sul coinvolgimento dei soggetti
coinvolti nelle conseguenze di una deliberazione. Sono praticate
solo a livello locale, dov'è più agevole riunire i cittadini e
dove le questioni da affrontare sono percepite e valutate con
maggiore immediatezza. Ricorrono a metodologie diverse, nelle quali
l'uso delle tecnologie compare, ma non assume un significato
determinante. Perseguono una empowered deliberative democracy, che
può anche produrre effetti inattesi, com'è accaduto ad esempio in
Olanda dove alcuni tentativi di inserimento dei cittadini nei
circuiti deliberativi locali, motivati dalla volontàdi contrastare
l'astensionismo, non hanno provocato ripresa della partecipazione
elettorale, avendo i cittadini considerato la loro esperienza di
intervento diretto nella vita comunale come una sorta di conferma
del fatto che lì, e non nelle elezioni, si radica ormai un loro
potere reale.
Si potrebbe dire, osservando questo variegato panorama, che si cerca
anche di spezzare il circuito della crescente dipendenza della
politica dalla pura componente tecnologica, sperimentando nuove
tecniche democratiche che nascono piuttosto da una ibridazione tra
strumenti di diversa natura: risorse elettroniche (soprattutto nella
forma della comunicazione in rete), sondaggi ìrivisitatiî, metodi
attinti dal mercato (focus groups, consensus conferences),
allargamento della platea dei soggetti formalmente legittimati ad
intervenire nei circuiti pubblici di progettazione, discussione,
valutazione, deliberazione. Più precisamente, molte esperienze
mostrano che la componente tecnologica assume rilevanza più nella
fase informativa e comunicativa, che in quella puramente
deliberativa.
Cominciamo a sperimentare
In questa prospettiva si colloca il paziente lavoro avviato da James
Fishkin, ora ravvivato dalla forza immaginativa di uno studioso come
Bruce Ackerman. L'ipotesi originaria dei deliberative pollings, e
quella più radicale del Deliberation Day, non intendono soltanto
reagire agli effetti distorsivi degli attuali sondaggi o alla
degradazione della comunicazione politica a sound bites, che
scontano o incentivano la diffusa e finora non scalfita rational
ignorance. Affrontano almeno tre altri problemi: una informazione
del cittadino non dipendente dalla comunicazione verticale; la
ricostruzione di luoghi di discussione comune; l'individuazione di
nuove forme di rappresentanza.
L'obiettivo, dunque, non è quello di mettere, ad ogni costo, nelle
mani di tutti un ingannevole strumento elettronico che abilita solo
a dire un sì o un no a proposte altrui, arrivando nudi e
sprovveduti al momento del voto. E' quello, invece, di ricostruire
una condizione essenziale del processo democratico, senza forzature
paternalistiche o autoritarie: la partecipazione ad esso di
cittadini consapevoli che, uscendo dalla solitudine tecnologica,
ritrovano il momento del confronto diretto e che, quindi, potranno
così beneficiare davvero delle opportunitàdella democrazia
elettronica. Si tratta, in definitiva, di un contributo alla
ricostituzione dello spazio pubblico, senza il quale nessuna
democrazia può vivere, con effetti non lievi sulle
disparitàinformative, e dunque sulla stessa eguaglianza tra i
cittadini.
Ma si possono davvero riscattare i cittadini da un lungo servaggio,
da una pervasiva rational ignorance, ricorrendo soltanto alla
riunione di piccoli gruppi rappresentativi nel corso breve d'un fine
settimana? Lo stesso, corale Deliberation Day può supplire, a pochi
giorni dal voto, ad un deficit d'informazione e di discussione d'un
lungo periodo precedente? Dovremmo sapere tutti, e ce lo ha ben
ricordato Cass Sunstein indagando i destini di una Republic.com, che
si ha vita democratica solo in presenza di un diffuso e permanente
pluralismo informativo, di una costante esposizione di ciascuno ad
opinioni diverse dalle proprie.
Le esperienze condotte da Fishkin forniscono alcune risposte a
questi dubbi, mostrando, ad esempio, quanto possano variare le
opinioni di un gruppo tra l'inizio e la fine di un deliberative
pollings. E' possibile, inoltre, che questo nuovo tipo di
ìdeliberazioniî solleciti l'intera pubblica opinione, costituendo
per essa un inusuale punto di riferimento, più difficile da eludere
anche perchÈ proveniente da una elaborazione dei ìpariî, dei
cittadini stessi. E l'ipotesi del Deliberation Day potrebbe mutare
di significato all'intera campagna elettorale, sostituendo un
momento collettivo all'ormai consueto duello finale tra i due
leader. Comunque sia, cominciare a sperimentare i deliberative
pollings integrerebbe in maniera significativa, e non alternativa,
le esperienze in corso. In Italia, sfiderebbe pessime e diffusissime
abitudini ben più che in altri paesi. Certo, con difficoltàgrandi,
e rischi non lievi. Ma non si può trascurare nulla nella ricerca,
ormai ineludibile, di quel che può aiutarci ad impedire un
ulteriore impoverimento della democrazia dei cittadini.
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