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Di cosa parliamo quando parliamo di democrazia



Corrado Ocone



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La proposta del politologo americano James S. Fishkin nota con il nome di deliberative polling (“sondaggio deliberativo”) non è una semplice risposta alla crisi della democrazia rappresentativa. E’ qualcosa di più perché ha il merito di porre la domanda cruciale sul “che cosa è” della stessa democrazia, su qual è il punto in cui i vari fili dei discorsi connessi a questa forma di governo convergono (siano essi politici, istituzionali, economici, culturali).

Bene, per individuare e circoscrivere questo centro ideale bisogna probabilmente andare indietro nei secoli, far riferimento al momento in cui ciò che intendiamo come democrazia e lo stesso nome vennero per la prima volta alla luce. L’operazione non è complicata perché c’è un luogo preciso ove ciò accadde, ed è Atene. C’è un periodo storico, anch’esso ben definito: il VI e il V secolo avanti Cristo. E ci sono soprattutto storici e cronisti che segnalano con puntualità l’evento. I filosofi, dal canto loro, ci ragionano subito su e da subito circoscrivono l’essenza della cosa.

La grande riforma politica di Atene è del 508 ed è legata al nome di Clistene. Il quale si propone di affrontare e dare una risposta al problema che anche in seguito avranno sempre i riformatori democratici: quello di stabilire i modi e i termini dell’uguaglianza politica degli individui, di farne dei cittadini, di includere tutti allo steso modo e con eguale dignità nello Stato conferendo loro una piena e attiva cittadinanza. Nella fattispecie, per Clistene ciò significava due cose: sottrarre potere alle cricche aristocratiche in tutti i distretti o dèmoi in cui era diviso lo spazio cittadino; dare uguale peso ad ogni distretto, fosse esso di città o di campagna., del centro o della periferia.

Fare di ognuno un cittadino significava a sua volta qualcosa di ben preciso: il concetto di cittadinanza non aveva in Atene un valore meramente formale, ma indicava una forma di attività, di partecipazione, di gestione diretta e consapevole del potere. Significava che chi ne era investito aveva parte al potere, aveva potere. Un potere che si sarebbe snodato attraverso il logos comune e il dia-logo, attraverso l’esame razionale e la discussione, attraverso quell’arte della civile conversazione di cui Socrate sarebbe stato, di lì a poco e in quel posto, indiscusso maestro. Democrazia può perciò essere detta, secondo l’originaria accezione greca, quella forma di “potere esercitato dal popolo che agisce congiuntamente”. Esercitato si badi bene, non derivato: democrazia diretta, non delegata.

La forza della proposta di Fishkin è forse proprio questa, di segnare un ritorno a questo nocciolo duro, forte, essenziale della democrazia. Un nocciolo che, nella storia del pensiero e della prassi occidentali, si sarebbe di necessità contaminato, nei secoli a seguire, con tecniche, procedure, spinte propulsive diverse e di diversa origine. Forse solo Hannah Arendt ha, nel secolo scorso, ripensato in profondità il concetto di democrazia nel senso originario, “puro” e ateniese del termine.

Ma un conto è pensare, un conto è fare. Fishkin, e anche Bruce Ackerman, fanno invece proposte concrete, fattive, pratiche. E non solo propongono, ma hanno già fatto, realizzato: sono diciotto gli esperimenti, di vario tipo e in varie nazioni, già portati a termine. E il tutto all’insegna di ciò che ben indica il termine inglese “deliberation”: decidere ragionando, ragionare per prendere decisioni (era a tale significato inglese che pensava Luigi Einaudi quando suggeriva che era necessario “conoscere per deliberare”?).

E qui tocchiamo il punto dolente. Nei 2500 anni che ci separano da Clistene e da Pericle abbiamo forse gradualmente perso la capacità di ragionare insieme, di conversare per decidere, di “deliberare”. Oggi, all’inizio del terzo millennio, ci ritroviamo addosso una strana antropologia. Siamo individui in preda alle passioni, che non temperiamo. Suggestionabili, emotivi. Ci piacciono gli slogans e ci stancano i ragionamenti. Siamo vanitosi e egoisti. Intraprendiamo una discussione perché vogliamo avere ragione, non per capire. Se gli argomenti non ci sorreggono, cominciamo a urlare e ad alzare la voce.

In una parola: dobbiamo forse rieducarci, apprendere a essere di nuovo uomini non nel senso biologico del termine, ma in quello a tutto tondo a cui facevano riferimento gli antichi Greci e che è stato ripreso ogni tanto dal filone umanistico che ha attraversato la storia occidentale. Questo problema a me sembra chiaro nella proposta di Fishkin: il lasso temporale che passa dalla rilevazione iniziale a quella finale è anche uno spazio ideale, quello che passa da un cittadino disinformato a uno mediamente informato. E la democrazia ha bisogno di ciò: non di individui onniscienti o competenti su tutto, ma mediamente edotti sulle cose, capaci di interpretarne il senso, disposti a trovare le soluzioni migliori. Lo stesso ruolo degli esperti è importante e circoscritto nella conversazione civile, come ha ben chiaro Fishkin che li fa intervenire solo in un determinato momento dell’esperimento. Essi devono fornirci elementi, ma non deresponsabilizzarci. La decisione, alla fine, è solo nostra.

Se il liberalismo prima che un’idea sul da farsi è un modo di essere e di comportarsi, il sondaggio deliberativo è sicuramente anche una proposta genuinamente liberale. Certo, potrebbe stonare il fatto che i partecipanti ai sondaggi deliberativi debbano essere ricompensati in denaro per la loro partecipazione: esercitare le proprie prerogative di cittadini e partecipare alla vita democratica non dovrebbe rientrare nella logica delle transazioni economiche. Potremmo però considerare, questa parte della proposta di Fishkin, come meramente finalizzata allo scopo: una condizione di necessità strumentale per mettere in moto il meccanismo. E anche una misura provvisoria. La speranza deve essere che in futuro la volontà di ragionare e argomentare attorno agli elementi che interessano la nostra vita associata sia del tutto spontanea, qualcosa di intrinsecamente connesso alla nostra natura e di cui non possiamo fare a meno: una sorta, per così dire, di “necessità biologica”.

Sulle idee di Fishkin e di Ackerman si potrebbero sviluppare tante altre considerazioni. Per il momento però basta. E’ forse giusto passare alla fase operativa e pratica. Che può avvenire a due livelli: uno di realizzazione pratica di specifici sondaggi deliberativi, nell’ottica delle esperienze passate e dei suggerimenti presenti nella proposta di Fishkin (investendo quindi sponsor, televisioni, esperti della questione); l’altro, non meno importante, di consapevolezza diffusa e di persuasione ragionata. Sul primo livello “Reset” e “Caffè Europa” stanno già attivandosi ed hanno già coinvolto opinion leaders e esperti di diverso genere. Il secondo livello, invece, io lo vedo così: dobbiamo cercare di immettere dosi di democrazia e di razionalità argomentativa nei nostri ambienti, nelle sfere in cui operiamo. Casomai a piccole dosi, ma dobbiamo farlo. Ristabilire le regole e la prassi di una buona “civiltà della conversazione” è forse poco, ma è un modo semplice per fare del bene, senza troppa retorica, sia a noi stessi sia alla democrazia.

 

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