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L'ultimo incontro pochi giorni fa
per parlare di Popper e Platone



Di Giancarlo Bosetti e Nina Fürstenberg




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Poche settimane fa, era il 16 febbraio, siamo venuti a trovare il vecchio Gadamer nella sua casetta sulle colline di Ziegelhausen, sopra la Neckar, a dieci minuti di taxi da Heidelberg. Era appena passato il suo centoduesimo compleanno. Ci chiedevamo quanto ancora funzionasse la sua memoria, perché volevamo interrogarlo su un suo defunto quasi-coetaneo Karl Popper, nato due anni (nel 1902) dopo di lui e morto ben otto anni fa, eppur longevo. Dall’ultimo incontro era molto smagrito e si era incurvato perdendo quella imponenza che era ancora notevole, nonostante i due bastoni ortopedici, al momento dei festeggiamenti solenni per i cento anni. Ma la memoria delle cose filosofiche dopo pochi minuti veniva fuori, se pur con un po’ di fatica. Gadamer chiedeva tempo e pazienza a noi che l’ascoltavamo e preferiva rinunciare a quel suo sonante italiano dantesco con il quale faceva un tempo rimbombare il suo minuscolo studiolo, straboccante di libri che ad ogni momento sembravano venir giù dagli incerti scaffali: da qualche anno solo tedesco e una voce debole e trascinata. Sapevamo che parlare di Popper, ebreo, emigrato da Vienna in Nuova Zelanda durante il Terzo Reich, per Gadamer voleva dire tornare per l’ennesima volta sul tasto dolente di Heidegger e della sua compromissione con il nazismo, ma sapevamo anche che dal 1980 fino alla morte di Popper, tra l’autore di Verità e metodo e quello della Società aperta era cominciata una fitta corrispondenza. Che però, sopresa, non riguardava Heidegger, ma Platone. Ecco il contenuto della conversazione.


Vi siete incontrati, e dove, lei e Popper?

Qui, a Heidelberg, una volta, ma anche a Londra. Eravamo già molto vecchi, ma i nostri dialoghi promettevano buoni sviluppi.

Ma il suo rapporto con Heidegger non rappresentava una difficoltà nei vostri rapporti?

No, vede, il fatto è che io e Popper, e dico purtroppo, abbiamo avuto rapporti e scambi di lettere solo nell'ultima parte della nostra vita. Ma non parlavamo di Heidegger, in questi anni più recenti. C'era tra noi una controversia sulla filosofia platonica. Io non ho mai accettato la critica popperiana di Platone, al suo “utopismo” e “perfettismo”. Ma certo so bene quanto pesava per Popper il problema della adesione al nazismo di Heidegger e del mio rapporto con lui. Ma io non ero mica Heidegger. E che cosa io pensi della sua scelta l'ho già detto molte volte.

Vuole ripeterlo in sintesi?

La scelta di Heidegger è stata per me qualcosa di incomprensibile. Come potè fare una cosa simile? Bisogna considerare che era un uomo di origini modeste, che veniva da un piccolo villaggio di campagna e che per i casi della vita improvvisamente si trovò innalzato ai vertici del mondo accademico. E questo non gli ha fatto bene. Un giorno sua moglie mi raccontò che tornò a casa dicendo: “Ho accettato”. E lei gli rispose: “Ma non puoi, Martin, sei pazzo”. Quella donna aveva qualcosa di più, a suo favore, una educazione migliore di quella del marito. Lui era stato meno educato anche se, come ho saputo più tardi, dalle conversazioni col padre aveva imparato molta filosofia.

Ci parli dei suoi incontri con Popper. Ci sono tracce scritte?

Ci sono delle lettere, ma non le ho raccolte, almeno non quelle ricevute da Popper, che erano molto brevi. All’epoca, negli anni Ottanta, ero stupito che ci fossimo trovati non poi così male.

Che cosa riguardavano le lettere e i vostri discorsi?

Riguardavano Platone, il tardo Platone e la sua interpretazione. C’erano punti dove in modo molto evidente non eravamo del tutto d’accordo. Tuttavia avevo la netta impressione di incontrare un uomo molto serio e rigoroso. Questo non mi era così chiaro prima di averlo conosciuto; in effetti molti nell’ambiente heideggeriano lo trattavano con spregio. Purtroppo la sua improvvisa malattia e la sua morte non hanno permesso di proseguire una relazione duratura.

Succede quando ci si conosce dopo gli ottant’anni.

E comunque è probabile che lui fino alla fine, mantenendo un grande interesse per il tema platonico, abbia continuato a pensare criticamente circa il mio lavoro. Lui amava la critica.

E qual’era la differenza nelle vostre interpretazioni, lui razionalista critico, lei fondatore dell’ermeneutica?

Lui sapeva di me, fondamentalmente, che ero un neokantiano. I miei lavori più tardi gli erano un po’ più vicini.

Le differenze riguardavano sia Platone che la teoria della conoscenza?

Certo. E poi naturalmente anche l’intera questione dei Pitagorici. Lui aveva pensato di trovare lì anche le sue idee, ma io non ci ho creduto. Peccato, perchè stavamo entrando in un serio rapporto quando si è ammalato.

Quindi da qualche parte avete scritto questi scambi di opinione?

Probabilmente ci sono le mie lettere tra i suoi documenti, se non si sono perdute. Nelle mie opere naturalmente ho affrontato la questione del Platone di Popper. Scrivevo più io di lui; non si impegnava molto nelle risposte, ma con il tempo stava diventando più gentile. Sono sorpreso io stesso che il mio occuparmi di Platone per decenni potesse ancora contenere qualcosa capace di illuminare una differenza significativa per una discussione di oggi. Per questo discutere con lui mi interessava e respingevo tutto quel beffardo sparlare di Popper che era stato tipico di Heidegger e dei suoi. Io a quel gioco inizialmente ci ero stato, come sempre si fa quando c’è qualcuno che è convinto di avere inventato qualcosa di molto speciale. Però poi ho messo un freno alla cosa, anche per merito del mio amico Jacob Klein, autore di un saggio sul pensiero matematico greco e le origini dell’algebra ancora in circolazione, un altro studioso ebreo che, come Popper aveva dovuto emigrare, lui in America, durante il Terzo Reich, e che mi parlava dell’autore della Società aperta e dei suoi studi sul pensiero greco. Klein, che io aiutai a mettersi in salvo dalla persecuzione nazista, ha rappresentato in più sensi una specie di ponte tra me e Popper. Insomma io da un certo punto in là mi sono messo a difendere Popper nonostante le opinioni contrarie di tanti miei amici. E Popper questo lo ha capito e si è interessato a me. Ha capito che non appartenevo alla schiera dei suoi detrattori.

Ma veniamo alla differenza di interpretazione su Platone. Qual è il punto? Che le più ardite utopie di Platone, come quella di togliere i bambini ai genitori o di mettere i filosofi al potere sono una specie di gioco e di satira del potere?

Certo, il senso ironico per me è chiaro e anche il grande effetto che le ironie di Platone potevano avere. Lui aveva avuto una parte importante nella vicenda politica di Siracusa. Noi forse non riusciamo oggi bene a immaginare quanto. In generale il fraintendimento di Platone non riguarda solo Popper ma tutti gli avversari del filosofo dei dialoghi, con cui il suo pensiero si trova continuamente alle prese. Da molti Platone non è stato letto correttamente. Tutta la sua costruzione politica, quella della Repubblica, è anche nello stesso tempo una beffa. Per noi tutto questo è chiaro. Non voglio dire che avrei convinto Popper delle mie tesi. E’ anche possibile che, se avessimo continuato a incontrarci, lui avrebbe potuto mostrarmi che ero io a sbagliare in qualche punto della mia interpretazione.

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