Interpretare per cambiare il mondo
Gianni Vattimo
Articoli collegati:
L'ultimo incontro pochi giorni fa
Per saperne di più
Il pensiero, conversazione senza
fine
Interpretare per cambiare il mondo
Questo articolo, tratto da un saggio di
Rorty pubblicato integralmente dalla rivista "Iride. Filosofia
e discussione pubblica", è apparso sul numero
59 di Reset , che festeggiava i cent'anni di Gadamer.
Heidelberg, 11 e 12 febbraio 2000
Finora i filosofi hanno creduto soltanto di interpretare il mondo,
ma in verità lo cambiavano. Cosi' si potrebbe riscrivere la famosa
frase di Marx nelle Tesi su Feuerbach, dal punto di vista della
filosofia come si è configurata sotto l’influsso di Gadamer.
Proprio nella identificazione tra interpretare e cambiare (operando
storicamente) il mondo, e anzitutto se stessi in questa operazione,
risiede probabilmente uno dei noccioli, o il nocciolo più
significativo della ermeneutica gadameriana. Essenzialmente per
opera di Gadamer, se è vero,come a me pare, che l'ermeneutica è
stata, ed è tuttora, la koiné culturale dell'Occidente alla fine
del ventesimo secolo.
Intorno a questa identificazione si possono raccogliere una gran
parte dei fili conduttori del rinnovamento della filosofia tra Otto
e Novecento: a cominciare dal nuovo rapporto che proprio Marx voleva
stabilire fra teoria e prassi; naturalmente, dall'idea di storia
come storia dello spirito che ha caratterizzato la filosofia
classica tedesca. Ma anche, com'è ovvio, l'epistemologia
post-positivistica, lo spirito delle avanguardie artistiche di
inizio secolo e dell'esistenzialismo che lo ha espresso sul piano
filosofico, fino al ripresentarsi, spesso implicito, in tante
filosofie odierne, del motto evangelico veritatem facientes
(l'aristotelico aletheuein) in caritate (nel dialogo sociale,
nell'attenzione levinassiana all'altro, nella sempre più generale
sostituzione dell'etica alla metafisica..).
Sempre più, con il passare degli anni e il maturare della Wirkung(sgeschichte)
di Wahrheit und Methode, è in questo senso - dell'identificazione
tra interpretare e cambiare il mondo - che si chiarisce il
significato di quella ultima sezione del libro in cui si parla di
una "Ontologische Wendung" dell'ermeneutica . L
Philosophische Hermeneutik a cui allude il sottotitolo dell'opera si
svela sempre più, anche al di là delle intenzioni dell'autore,
come una Ontologische Hermeneutik o anzi, e più ancora, una
Hermeneutische Ontologie. Ciò che scrive Richard Bernstein, che
"se prendiamo Gadamer sul serio, e accentuiamo (press) le sue
affermazioni, esse ci conducono oltre l'ermeneutica filosofica"
(Beyond, p.150), credo vada letto anche in questo senso. Non solo
per una preferenza di qualche interprete per l'ontologia. Anzitutto,
perché proprio in questa direzione spingono le discussioni e le
obiezioni critiche che la filosofia di Gadamer ha suscitato nei
decenni che ci separano dalla pubblicazione del suo testo
inaugurale.
Recezione positiva e rifiuto critica dell'ermeneutica di Gadamer
sembrano oggi prevalentemente segnate da uno stesso fraintendimento
di base: l'idea che essa si riassuma in una teoria della finitezza e
storicità insuperabile della comprensione. Da questo, punto, poi,
le letture pragmatiste ricavano le basi per combattere le pretese
egemoniche dello scientismo e del tecnicismo, in favore di una
sacrosanta visione democratica di un'etica della coscienza comune, o
della Lebenswelt; e d'altro lato, i critici trovano qui le ragioni
per rimproverare a Gadamer una filosofia che sbocca finalmente nel
relativismo storicistico o in un vago tradizionalismo. Ora, questo
fraintendimento si dissolve solo "spingendo", come diceva
Bernstein, il pensiero di Gadamer oltre i limiti che la vulgata gli
assegna; e precisamente nella direzione di quella Wendung ontologica
annunciata dalla terza sezione di Wahrheit und Methode.
E' infatti solo se si legge nel senso più radicale la famosa
sentenza gadameriana: Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache,
che si tolgono le basi sia per la "riduzione"
pragmatistica dell'ermeneutica a lezione di saggezza, sia per la
lettura di essa come relativismo storicistico e tradizionalismo
acritico. Entrambe queste letture riduttive suppongono infatti che
l'interpretazione, per tornare alla frase di Marx, non cambi il
mondo, si limiti a rispecchiarlo in modi più o meno imperfetti e
mutevoli, e dunque che abbia un limite "oggettivo" che,
finalmente, la filosofia dell'interpretazione ci avrebbe insegnato a
riconoscere, con la conseguenza di farci accettare che non si dà
verità della conoscenza e che, perciò, il solo imperativo etico è
quello della tolleranza che si addice a esseri storicamente finiti
come noi siamo.
Ma nel pensiero di Gadamer ci sono le basi per procedere ben oltre
questi persistenti pregiudizi metafisici. Se ci domandiamo in che
cosa consiste, per WuM, l'interpretazione buona, corretta, giusta,
non potremo certo rispondere con un richiamo alla verità come
corrispondenza. Ma questo non perché, come vogliono certe letture
frettolose, Gadamer sa che a noi esseri finiti non è dato conoscere
le cose come sono; bensì perché le cose sono quello che davvero
sono soltanto nell'interpretazione e nel linguaggio. In termini più
chiari, se l'ermeneutica ha senso, essa richiede una profonda
rivoluzione dell'ontologia, che prenda congedo dall'idea dell'essere
come oggettività data là fuori, a cui il pensiero dovrebbe cercare
di adeguarsi. Solo se si continua a pensare l'essere , il vero
essere, in questi termini, si può leggere l'ermeneutica come una
semplice predicazione di saggezza o come relativismo e
tradizionalismo.
Si tratta dunque di leggere nella maniera più radicale la tesi
secondo cui l'essere che può venir compreso è linguaggio.
Anzitutto: solo l'essere che può venir compreso? Ma se fosse così,
Gadamer limiterebbe drasticamente il proprio discorso all'ambito
delle scienze dello spirito, lasciando intatto, dunque,
l'oggettivismo e realismo metafisico che essa implica. Una
distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura
sussiste naturalmente ancora, in Gadamer; ma solo a livello
metodologico, nel senso che egli non pensa che si possa sostituire
alle procedure rigorose di verifica e falsifica di proposizioni
scientifico-sperimentali un metodo simile a quello
storico-comprensivo.
D'altro canto non ci sono nella sua opera ragioni per pensare che
l'esperienza della verità - comunque sia, metodicamente, raggiunta
- possa avere nelle scienze della natura un senso diverso da quello
che ha nelle scienze dello spirito, nelle quali è esperienza vera,
o esperienza di verità, ciò che è "vera esperienza",
cioè che cambia dialetticamente la situazione del soggetto e,
insieme, dell'oggetto conosciuto. In ogni caso, qualunque teoria che
voglia fissare come definmitiva e ultima la differenza tra scienze
della natura e scienze dello spirito dovrebbe presentarsi a propria
volta come una proposizione scientifico-naturale, dovrebbe cioè
invocare lo status di una descrizione "oggettiva" del
mondo. Non credo che si potrebbe conciliare una tale prospettiva
metafisica con l'ermeneutica gadameriana.
La difficoltà, nel prendere radicalmente sul serio
l'identificazione dell'essere con il linguaggio consiste però nel
rischio di arbitrarietà a cui in tal modo sembra si vada incontro.
Se non c'è essere fuori dal linguaggio, non si spiega lo sforzo di
cercare la parola giusta, uno sforzo su cui Gadamer ha spesso
insistito. Più in generale, sembra che divenga impossibile
qualunque distinzione tra vero e falso, tra opinione e scienza. Ora,
la novità ontologica dell'ermeneutica gadameriana diventa evidente
se ci si rende conto che il criterio per la ricerca della parola
giusta, sia la distinzione tra vero e falsa, interpretazione
riuscita e interpretazione errata, sono per Gadamer tutti interni al
linguaggio stesso. Ancora una volta, ricordiamo che il sospetto che
criteri di questo tipo siano insufficienti ad assicurarci contro
l'arbitrio e il relativismo dipende tutto dalla persistente
convinzione metafisica per cui l'essere è comunque il dato,
l'oggetto.
Le pagine di WuM dove Gadamer rivendica la
funzione positiva del pregiudizio, riprendendo la dottrina
heideggeriana della precomprensione, forniscono significative
indicazioni per questo problema. In quelle pagine, Gadamer richiama
il paragrafo 63 di Sein und Zeit, che concerne tra l'altro "der
methodische Charakter der existenzialen Analytik" e il Seinsinn
der Sorge (p.310). Qui Heidegger pone esplicitamente la domanda:
"Woher sollen aber die ontologischen Entwuerfe die Evidenz der
phaenomenalen Angemessemheit fuer ihre 'Befunde' nehmen?". E
riporta immediatamemnte la questione alla distyinzione tra esistenza
autentica e inautentica. Non, cioè, da un qualche confronto tra la
precomprensione e le cose in se stesse può scaturire l'evidenza
dell'adeguatezza del progetto, ma solo dal fatto che il progetto sia
più o meno autentico.
Qui l'orizzonte metodologico appare completamente sfondato; siamo
rimandati agli aspetti più radicali dell'analitica esistenziale,
giacché la possibilità dell'esistenza autentica è legata alla
anticipazione decisa della propria morte (termini di SUZ CERCA).
Nelle pagine di WuM che si richiamano a questo passo di SuZ, Gadamer
non riprende esplicitamente l'essere per la morte heideggeriano;
poco più avanti nel testo (274-75), sembra però tradurre la tesi
di Heidegger in questi termini: "Das Verstehen ist selber nicht
so sehr als eine Handlung der Subjektivitaet zu denken, sondern als
Einruecken in ein Ueberlieferungsgschehen in dem sich Vergangenheit
und Gegenwart bestaendig vermitteln".
Il legame tra l'anticipazione decisa della propria morte e lo
Einruecken nello Ueberlieferungsgeschehen si capisce chiaramente se
si riflette che ciò a cui entrambi gli autori pensano è
l'assunzione esplicita della propria storicità. Anzi, non possiamo
non riconoscere che proprio questa lettura ,apparentemente
"urbanizzata", che Gadamer dà dell'essere per la morte
heideggeriano ne chiarisce il senso in misura sconosciuta,
probabilmente, a Heidegger stesso. Che cosa voglia dire la decisione
anticipatrice della morte in Heidegger lo apprendiamo in modo più
chiaro, anche sul piano "esistentivo" (existenziell),
proprio da queste pagine di Gadamer.
In SuZ, come si sa, è la decisione autentica per la morte che rende
possibile comprendere il passato non come come vergangen ma come
gewesen, cioè come possibilità ancora aperta. Tradotto nei termini
che abbiamo appreso da Gadamer, questo atteggiamento autentico
significa che l'eredità a cui ci riferiamo per
"collaudare" le precomprensioni e riconoscere quelle
legittime e produttive consiste proprio nel non vederle come una
struttura eterna dell'essere metafisico, che dovremmo rispecchiare
fedelmente o a cui dovremmo adeguarci (e nemmeno come l'oggettività
"là fuori" degli "oggetti"), ma come puro
lascito storico di mortali ad altri mortali.
L'esito ontologico - non solo metodologico, dunque, né solo
relativo all'epistemologia delle scienze dello spirito - a cui
questa riflessione ci conduce è tutto contenuto in questa
fluidificazione dell'oggettività sulla quale si misura la validità
della precomprensione. Lo sforzo di trovare la parola giusta, la
difficoltà sempre rinnovata di quietarsi in una interpretazione, si
scontrano con qualcosa che non si riduce alla Handlung der
Subjektivitaet, e che ha una sua cogenza normativa. E che però non
è il mondo là fuori, bensì lo Ueberlieferungsgeschehen nel quale
la comprensione deve einruecken per trovare la sua validità. E'ciò
che, con un'espressione che Gadamer preferisce non usare, Heidegger
chiama la Seinsgeschichte (o il Seinsgeschick). Né il termine di
Gadamer né quello heideggeriano permettono comunque alcuna
identificazione con una storia necessaria che avrebbe più i tratti
della Tradition e del vergangen che non della Ueberlieferung e del
gewesen.
Ho detto sopra che la validità dell'ermeneutica gadameriana implica
la tesi che le cose sono quel che davvero sono solo
nell'interpretazione. Se guardiamo al fitto dialogo che WuM
stabilisce con SuZ nei passi decisivi a cui ora mi sono richiamato,
anche questa tesi si riempie di un significato preciso, che
chiarisce - forse anche, giustamente, urbanizza - tesi heideggeriane
che sono spesso apparse stravaganti e "poetiche" , come
quella sul darsi autentico della cosa solo nel Geviert di cielo e
terra, mortali e divini. Il fatto è che l'ermeneutica mostra in
modo convincente che l'oggettività assicurata degli oggetti, anche
e anzitutto di quelli delle scienze, si dà solo nel quadro
(paradigmatico, potremmo dire con Kuhn) di un orizzonte ereditato
nei confronti del quale l'interprete, o la comunità degli
interpreti come è più chiaramente il caso della ricerca
scientifico-sperimentale, non può non assumere uu'esplicita
responsabilità. Assumere responsabilmente la propria storicità,
però, come mostrava Heidegger già nella recensione a Jaspers del
1920 (?), significa non rispecchiare il passato ereditato , ma
interpretarlo; applicarlo, si direbbe con Gadamer (v.Applicatio), e
cioè includerlo attivamente in un progetto. La cogenza normativa
dello Ueberlieferungsgeschehen si dà soltanto se è accolta in un
progetto deciso, che essendo aperto al futuro cambia il mondo
proprio perché lo interpreta. Il cambiamento non nasce da zero,
risponde a un appello, il quale però risuona solo nella risposta.
Saltando alcuni passaggi, si può dire che l'ontologia ermeneutica
di Gadamer ha il suo nocciolo nell'identificare la realtà, la
Wirklichkeit, con la Wirkungsgeschichte.
Poiché la storicità è sempre anche progetto deciso di un
interprete, l'ermeneutica deve rispondere alla domanda circa la
teleologia che la regge e la legittima. Anzitutto come teoria
filosofica che si presenta in competizione con altre, essa non può
rivendicare la propria validità, o preferibilità, con argomenti
che si pretendano descrittivi (della struttura dell'essere). Che la
Wirklichkeit delle cose sia, in verità, Wirkungsgeschichte, non è
affermato in una proposizione descrittiva; è il senso del progetto,
o il senso dell'essere nel cui orizzonte l'ermeneutica interpreta
l'esperienza del mondo. Perciò non è azzardato pensare che la
frase "Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache" non
vada letta solo come un enunciato che "chiarisce"
lessicalmente il significato di Sein, o addirittura solo di quel
Sein che può essere compreso. Essa vale invece come una indicazione
teleologica - che credo di dovrebbe accostare a quella di Heidegger
in SuZ, là dove dice che "Sein, nicht Seiendes, 'gibt es' nur
sofern Wahrheit ist. Und sie IST nur, sofern und solange Dasein ist"
(p. 222).
Una coerente filosofia dell'interpretazione, letta come appello a
trasformare la realtà oggettiva delle cose "là fuori" in
verità, cioè in linguaggio e progetto, cambia davvero il mondo;
può cioè presentarsi legittimamente come quel pensiero che,
ereditando il meglio della filosofia classica tedesca, risponde
all'appello di una storia in cui scienza e tecnologia tendono sempre
più a consumare la realtà "naturale" in verità
intersoggettivamente vissuta. L’ermeneutica non è solo la koiné
della cultura umanistica e delle scienze dello spirito di fine
secolo; è anche, penso si possa dire, una vera e propria “ontologia
dell’attualità”, filosofia di quel mondo tardo-moderno dove il
mondo si dissolve effettivamente e sempre più completamente nel
gioco delle interpretazioni. In quanto si assume come responsabile
progetto storico, l'ermeneutica coglie attivamente al vocazione dell’essere
a darsi sempre più come veriutà del linguaggio umano, invece che
come cosa e dato bruto, Gegenstaendigkeit, e in questo filo
conduttore trova anche la base di scelte etiche, offrendosi come
vera e propria teoria critica. E’ in questo senso che essa
conferisce una nuova verità al detto di Hoelderlin: Voll Verdienst,
doch dischterisch wohnet der Mensch auf dieser Erde.
Articoli collegati:
L'ultimo incontro pochi giorni fa
Per saperne di più
Il pensiero, conversazione senza
fine
Interpretare per cambiare il mondo
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |