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Il pensiero, conversazione senza fine



Richard Rorty



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Questo articolo, tratto da un saggio di Rorty pubblicato integralmente dalla rivista "Iride. Filosofia e discussione pubblica", è apparso sul numero 59 di Reset , che festeggiava i cent'anni di Gadamer.


Hans Georg Gadamer è stato spesso accusato di inventare una variante linguistica dell’idealismo. Ma dovremmo invece giudicarlo come chi cerca di conservare l’oro che c’è nell’idealismo e di gettare le scorie metafisiche. L’idealismo ha acquistato una pessima nomea perché è stato troppo lento ad abbandonare la distinzione apparenza-realtà. Una volta messa da parte tale distinzione, idealismo e nominalismo diventano due nomi per la stessa posizione filosofica. Gli effetti negativi di quella distinzione si possono vedere in Berkeley. Dopo aver detto che «nulla può essere come un’idea se non un’idea», Berkeley proseguiva inferendo che soltanto le idee e le menti sono reali. Avrebbe invece dovuto dire che soltanto una frase può essere rilevante per la verità di un’altra frase, una affermazione nominalista totalmente scevra di implicazioni metafisiche.

La metafisica di Berkeley è il tipico risultato dell’idea che i pensieri o le frasi stiano da una parte dell’abisso, e siano veri soltanto se si collegano a qualcosa che sta dall’altra parte dell’abisso. Questa immagine tenne Berkeley prigioniero fino a portarlo a concludere che quel che stava dall’altra parte era omogeneo a ciò che stava dalla nostra parte - che la realtà era in qualche modo di natura mentale o spirituale. Gli idealisti più tardi, come Hegel e Royce, ripeterono il suo errore, in quanto definirono la realtà come perfetta conoscenza o perfetta autocoscienza. Anche questo era un tentativo di rendere valicabile l’abisso, eliminando ogni soluzione di continuità tra la nostra situazione epistemica attuale e la situazione epistemica ideale - eliminando ogni soluzione di continuità tra la nostra rete di stati mentali e quella di Dio. Ma questa sorta di speculazione panteistica rendeva l’idealismo vulnerabile allo scientismo - al giustificato disprezzo di quanti sentivano che l’affermazione secondo cui soltanto il mentale è reale è una reductio ad absurdum della metafisica. Ed è così, ma non più di quanto lo sia l’affermazione secondo cui soltanto il materiale è reale. Andare oltre la metafisica significherebbe smettere di porsi la domanda su ciò che è o non è reale.

La nostra capacità di sbarazzarci di questa domanda è aumentata quando abbiamo intrapreso quella che Gustav Bergman ha definito la «svolta linguistica» - una svolta adottata quasi simultaneamente da Frege e da Peirce. Tale svolta ha infatti reso possibile ai positivisti logici come Ayer di de-metafisicizzare una teoria della verità coerente. Costoro ci hanno esortato a smettere di parlare di come traversare l’abisso che separava il soggetto dall’oggetto, e a discutere invece di come le asserzioni delle proposizioni siano giustificate. I positivisti ritenevano che, una volta sostituiti «l’esperienza», o le «idee» o la «coscienza» con il linguaggio, non possiamo più concepire la pretesa di Locke secondo cui le idee delle qualità primarie hanno una sorta di relazione più stretta con la realtà rispetto alle idee delle qualità secondarie. Ma era proprio questa la pretesa fatta risorgere dalla rivolta kripkiana (dal filosofo della scienza Kripke e dalla sua scuola che attibuisce uno status ontologico agli oggetti delle scienze naturali, Ndr) contro Wittgenstein. Così facendo, i kripkiani affermavano che la svolta linguistica era stata una pessima idea idealista.

L’attuale querelle tra i kripkiani e i loro colleghi filosofi analitici è un modo per proseguire il vecchio dibattito su che cosa ci fosse di vero, ammesso che qualcosa ci fosse, nell’idealismo. Ma un modo più fruttuoso di accostarci a questa disputa potrebbe essere quello di raccogliere il suggerimento di Heidegger.
Heidegger concepiva i vari grandi metafisici da Platone a Nietzsche come gente estremamente bizzarra: persone convinte che il pensiero ci avrebbe consentito di raggiungere la materia. Da un punto di vista heideggeriano, le metafore fallocentriche metafisiche della profondità e della penetrazione sono espressione della volontà di prendere possesso dell’intima roccaforte dell’universo. L’idea di divenire tutt’uno con l’oggetto della conoscenza, così come quella di rappresentare la realtà come è in sé, sono espressione del desiderio di acquisire il potere dell’oggetto.

Gli scienziati del XIX secolo si sono fatti beffe sia della religione sia della filosofia idealista perché la scienza naturale ha offerto loro una sorta di controllo che i loro rivali non avevano. Questo movimento vedeva la religione come un tentativo fallito di conquistare il controllo. Vedeva l’idealismo tedesco come un tentativo illusorio per sfuggire alla realtà, il tentativo di negare la necessità del controllo. La capacità della scienza naturale di predire i fenomeni e di approntare la tecnologia necessaria a produrre i fenomeni desiderati dimostrava che soltanto quel settore della cultura offriva una comprensione autentica, perché esso soltanto offriva un controllo efficace.

Il punto di forza di questa linea di pensiero scientista è che, sebbene la comprensione sia sempre di un oggetto mediante una descrizione, i poteri causali degli oggetti di ferirci o di aiutarci non sono influenzati dal modo in cui vengono descritti. Ci ammaliamo e moriamo indipendentemente da come descriviamo la malattia e la morte. Gli scientisti cristiani hanno, ahimè, torto. Il punto debole dello scientismo è l’inferenza, dal fatto che un certo vocabolario descrittivo ci consente di predire e utilizzare i poteri causali degli oggetti, della pretesa che tale vocabolario offra una comprensione di quegli oggetti migliore rispetto a qualunque altro. Questo non sequitur è tuttora sostenuto dai kripkiani. Che lo si consideri o meno come un non sequitur dipende dal fatto che si accetti o meno di ridescrivere la comprensione secondo la modalità suggerita da Gadamer.

Per riprendere e sviluppare la ridescrizione di Gadamer, dovremmo rinunciare all’idea di un confine naturale al processo della comprensione tanto della materia come della Messa, o dell’Iliade o di qualunque altra cosa - un livello a cui abbiamo scavato talmente in profondità che le nostre vanghe si sono rivolte all’indietro. Non esiste infatti limite all’immaginazione umana - alla nostra capacità di ridescrivere un oggetto, e quindi di ricontestualizzarlo. Un vocabolario descrittivo è un modo di mettere un oggetto in rapporto con altri oggetti - di inserirlo in un nuovo contesto. Non c’è limite al numero di rapporti che il linguaggio può cogliere, né al numero dei contesti che i vocabolari descrittivi possono creare. Laddove i metafisici si chiedono se i rapporti espressi in un nuovo vocabolario esistano veramente, i gadameriani si chiedono solo che possono intrecciarsi in modo utile con i rapporti colti dai precedenti vocabolari.

Non appena si ricorre al termine «utile», però, quanti credono nelle essenze reali e nella verità come corrispondenza si chiederanno: «utile in base a quale criterio?». Pensare che questa esigenza di criteri sia sempre pertinente significa immaginare che il linguaggio del futuro dovrebbe essere uno strumento nelle mani del linguaggio del presente. Significa diventare una persona bizzarra senza controllo - qualcuno che pensa di poter mandare in cortocircuito la storia trovando qualcosa che sta dietro ad essa. Significa credere che noi oggi, nel presente, possiamo costruire un sistema di classificazione che contiene una casella appropriata per qualsiasi cosa possa saltar fuori in futuro. Quelli che ancora sperano in un tale sistema di classificazione sceglieranno caratteristicamente qualche settore particolare della cultura - filosofia, scienza, religione, arte - e gli assegneranno il «primo posto nel regno della mente pensante». Ma quanti seguono Gadamer, come quanti seguono Habermas, lasceranno perdere questo progetto di classificazione. Lo sostituiranno con l’idea di una conversazione herrschaftsfrei (libera dal dominio, Ndr) che non potrà mai avere fine, e nella quale le barriere tra discipline accademiche sono permeabili quanto quelle tra le epoche storiche.

Queste persone sperano in una cultura nella quale le lotte per il potere tra vescovi e biologi, o tra poeti e filosofi, o tra fuzzies e techies (nel gergo americano, e specie californiano, le due parole indicano, rispettivamente, i sostenitori della cultura umanistico-letteraria e di qulla scientifica e tecnologica, Ndr) siano trattate semplicemente come lotte di potere. Senza dubbio, rivalità come queste esisteranno sempre, per il semplice motivo che Hegel aveva ragione nel dire che soltanto un agone dialettico produce novità intellettuali. Ma in una cultura che prende a cuore lo slogan di Gadamer tali rivalità non saranno intese come controversie su chi sia in contatto con la realtà e chi stia ancora sotto il velo della apparenza. Saranno lotte per catturare l’immaginazione, per portare altre persone ad adottare il loro vocabolario.

Una cultura di questo genere apparirà agli occhi del metafisici materialisti come una cultura in cui hanno vinto i fuzzies - una cultura in cui poesia e immaginazione hanno finalmente riportato la vittoria sulla filosofia e la ragione. Così il piccolo sermone su di un testo gadameriano che vi propongo sembrerà loro probabilmente solo un altro esercizio di pubbliche relazioni in favore delle Geisteswissenschaften (scienze dello spito, Ndr). Concluderò spiegando perché non è questo il modo giusto di affrontare la questione.

In primo luogo, in una cultura gadameriana non sono di alcuna utilità facoltà chiamate «ragione» o «immaginazione» - facoltà concepite come aventi un rapporto particolare con la verità o con la realtà. Quando parlo di «catturare l’immaginazione» non intendo nulla più che «essere presi e usati». In secondo luogo, una cultura gadameriana riconoscerebbe che il sistema di catalogazione di ciascuno dovrà avere le caselle giuste in cui inserire il sistema di tutti gli altri. Ogni settore della cultura dovrà avere la sua propria descrizione parrocchiale di tutti gli altri settori della cultura, ma nessuno chiederà quale di tali descrizioni dà ragione a quel settore. La cosa importante è che sarà herrschaftsfrei; non ci sarà alcun sistema di catalogazione prevalente sugli altri, nel quale ci si aspetta che tutti si adattino.

Il mio sermone sul testo «L’essere che può essere compreso è il linguaggio» non è ovviamente stato proposto come un resoconto dell’autentica essenza del pensiero di Gadamer. È proposto invece come un suggerimento su come si potrebbero fondere alcuni ulteriori orizzonti. Ho cercato di ipotizzare in che modo la descrizione di Gadamer del movimento del recente pensiero filosofico possa integrarsi con alcune descrizioni alternative attualmente in via di adozione da parte dei filosofi analitici.

Sospetto e spero, comunque, che una volta trascorso un altro secolo, la distinzione di cui mi sono appena servito - tra filosofia analitica e non-analitica - sarà ritenuta di nessuna importanza dagli storici del pensiero. I filosofi dell’anno 2100, sospetto, leggeranno Gadamer e Putnam, Kuhn e Heidegger, Davidson e Derrida, Habermas e Vattimo uno accanto all’altro. Se lo faranno, sarà perché avranno finalmente abbandonato il modello scientista, risolutivo dei problemi, dell’attività filosofica con cui Kant ha gravato la nostra disciplina. Vi avranno sostituito un modello conversazionale, in cui il successo filosofico sia misurato in termini di orizzonti fusi anziché di problemi risolti, o anche di problemi dissolti. In questa utopia filosofica, lo storico della filosofia non sceglierà il suo vocabolario descrittivo con un occhio alla necessità di dinguere i problemi reali e permanenti della filosofia dagli Scheinprobleme (problemi apparenti) transitori. Sceglierà invece il vocabolario che gli consente di descrivere il maggior numero di figure del passato come se prendessero parte a un’unica, coerente conversazione.

(…) Sostituire la distinzione apparenza-realtà con la distinzione tra una gamma limitata e una più completa di descrizioni significherebbe abbandonare l’idea della Sache (cosa) come qualcosa di separato da noi dall’abisso che separa il linguaggio dal non-linguaggio. Questa idea sarebbe sostituita da una concezione gadameriana della Sache come qualcosa sempre pronto ad essere afferrato, sempre passibile di essere reimmaginato o ridescritto nel corso di una Gespraech (conversazione). Questa sostituzione significherebbe la fine di quella ricerca del potere definita da Heidegger la «tradizione onto-teologica».

Tale tradizione fu dominata dall’idea che vi sia qualcosa di non-umano a cui gli esseri umani dovrebbero cercare di adeguarsi per esserne all’altezza - un pensiero che trova oggi la sua espressione più plausibile nella concezione scientista della cultura. In una futura cultura gadameriana gli esseri umani desidererebbero soltanto di essere all’altezza gli uni degli altri, nel senso in cui Galileo fu all’altezza di Aristotele, Blake all’altezza di Milton, Dalton all’altezza di Lucrezio e Nietzsche all’altezza di Socrate. Il rapporto tra predecessori e successori sarebbe concepito, come sottolineato da Gianni Vattimo, non come i rapporti di Ueberwindung (superamento nel senso di competizione e dominio o accantonamento, ndr) improntati al potere, ma come rapporti più cortesi di Verwindung (superamento nel senso di elaborazione, ndr). In una cultura di questo tipo, Gadamer sarebbe considerato una delle figure che hanno contribuito a conferire un senso nuovo e più letterale al verso di Hölderlin, «Dal momento che noi siamo un dialogo…».

29 dicembre 1999

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