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Una cultura di poesia e di fratellanza



Younis Tawfik con Tina Cosmai



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Younis Tawfik è nato a Ninive in Iraq e vive da vent’anni a Torino, dove svolge attività di giornalista collaborando con alcune testate mediorientali e insegnando lingua e letteratura araba presso l’Università popolare di Torino. Si dedica molto alla divulgazione della cultura araba, specie nei suoi scritti, tra i più recenti il suo romanzo La Straniera (Bompiani ) e la raccolta di poesia Nella mani la luna (Ananke Edizioni).

Lo spirito artistico di Tawfik è fedeltà alle sue radici, alla sua cultura evocata in tutta la sua pienezza creativa e religiosa. Il mondo arabo accompagna la lunga esperienza occidentale nella rielaborazione delle proprie simbologie, della propria fede, anche e soprattutto attraverso percorsi difficili, segnati dalla solitudine, dalla nostalgia, dall’indifferenza. Aspetti, questi ultimi, che hanno rafforzato, come in un processo dialettico, la passionalità di culto e di storia che è fulcro dell’attività artistica e sociale di Tawfik.

Cosa significa per lei e per la sua cultura, la poesia?

La poesia è la forma artistica più immediata, più sintetica e al contempo più profonda per esternare i miei sentimenti, le mie sensazioni, il mio parere sul mondo. La poesia mi dà la possibilità di poter esprimere sensazioni sottili e talmente minute che la prosa non riesce a manifestare. Io vedo il mondo attraverso la poesia e in questo sono profondamente arabo, perché la cultura araba usa la poesia anche, semplicemente, come forma d’espressione orale. Il Corano stesso è stato rivelato in prosa rimata proprio perché possa essere ripetuto e recitato.

Per noi arabi la poesia è stata l’unica arte che ci ha permesso di costruire la nostra storia e di tramandarla. I beduini, essendo un popolo nomade, non potevano costruire monumenti o fare murales o bassorilievi, allora declamavano poesie, parlavano in versi. Quindi la poesia è per noi storia e comunicazione della storia. Inoltre è un piacere, un approfondimento e un rapporto che ho con la mia cultura d’origine e che vivo come un continuo ritorno alla mia identità.

Ci spieghi meglio questo rapporto con le sue radici, che sopravvive tenacemente da vent’anni, il tempo della sua lontananza dall’Iraq e della sua permanenza in Occidente.

Come dicevo, è sempre attraverso la poesia che entro in contatto con le mie radici, attraverso una catena della ritmica che mi riporta là da dove sono venuto. Quindi le poesie sono la mia profondità culturale, il contatto con la mia terra; i momenti che ho vissuto nel mio paese, li posso vivere ora, approfondendoli, scrivendo poesie che mi aiutano anche ad esorcizzare la nostalgia, la solitudine.

La nostalgia per una terra che è anche donna. Nelle sue poesie è frequente identificazione della terra nella figura femminile…

Nella nostra cultura c’è un rapporto molto forte, molto sentito tra la terra e la donna, che ancora oggi è simbolo di fertilità, di generosità, è la Terra Madre, quella che abbraccia i suoi figli e che li rimpiange quando sono lontani e colui che è lontano raccomanda, in caso di morte, di essere sepolto nella sua terra. E’ un rapporto d’amore, come quello tra uomo e donna, che ho descritto anche nel mio romanzo, La straniera, dove protagonista è una donna/prostituta che è il simbolo della terra traditrice, che ha abbandonato i suoi figli e che li ha quasi costretti ad abbandonarla, emigrando in un’altra terra. E’ il tradimento della propria cultura, delle proprie radici.

Ma la donna, che è molto presente nelle mie poesie, rappresenta anche l’aspetto estetico e della spiritualità, per cui diventa la divinità o il rapporto con la divinità. La donna è la luna, in rapporto con la terra perché ne riflette la luce: quindi, la bellezza femminile illumina il mondo.

Ma nelle sue liriche scrive anche e spesso di sé, guardandosi come altro da sé, un uomo che erra per le strade di Torino come sconosciuto a se stesso. Come mai usa questo escamotage letterario?

Amo usare la voce fuori campo come se fossi un narratore, un osservatore, colui che guarda e giudica dal di fuori, perché credo che scrivere in prima persona ponga una distanza tra l’autore e il lettore. Uso la voce di un narratore fuori campo per coinvolgere di più il lettore, per evitare di porlo nella condizione isolata di chi deve ascoltare il canto dell’altro, dell’autore in questo caso.

All’inizio, quando sono arrivato in Italia, girando per le strade di Torino, la mia compagna di strada era la solitudine. La città è abbastanza chiusa e dura nei confronti dell’immigrato e io cercavo di trovare un conforto, di vincere l’indifferenza, di sentirmi accettato, coinvolto. Camminavo come uno straniero che si sente in colpa, come un ladro che ha qualcosa da nascondere, perché mi sentivo un intruso in questa città. Poi sono riuscito a conquistare un mio spazio e ad ottenere la fiducia dei torinesi, ma ci sono voluti anni per arrivare a questo.

Tahar Ben Jelloun, nell’introduzione alla sua raccolta di poesie Nelle mani la luna, afferma che spesso le radici sono fatali; è d’accordo con quest’affermazione?

Le radici possono essere fatali quando diventano una persecuzione interiore, quando si vive la smania di riscoprirle. E’ ciò che accade nel mio romanzo La straniera. Il protagonista è un mediorientale che dopo venti anni di vita in Italia crede di essere perfettamente inserito, e poi incontra Amina, che è appena immigrata dal Marocco, con un bagaglio culturale prepotente, irruento. Quest’incontro lo scuote, lo fa precipitare nel passato, ritornare alla terra d’origine e trovarsi sommerso in una cultura che pensava di aver sorpassato o dimenticato. E tutto questo ha provocato in lui un conflitto culturale e d’identità. Non dimenticare le proprie radici significa riconoscerle anche nell’alterità, in ciò che è diverso.

Che cosa è cambiato in lei, nel suo rapporto con l’Islam, con l’Iraq, in tutti questi anni trascorsi in Occidente?

Vivere in Occidente mi ha insegnato ad avere un rapporto critico con la mia cultura, più razionale che emotivo e paradossalmente ha approfondito la mia conoscenza dell’Islam. Ho dovuto imparare bene la mia fede per poterla insegnare, per poterne discutere con gli occidentali, per poterne scrivere. E poi c’è questa smania di avere un contatto diretto con la mia cultura, attraverso il cibo, gli odori, gli aromi, per cui è una riscoperta continua della mia identità mediorientale.

E c’è da dire una cosa importante, l’Occidente mi ha offerto la possibilità di valutare bene e di scegliere gli aspetti più idonei della mia cultura, di analizzarla, di riproporla mediando tra le due culture; dunque una visione più creativa del mio spirito islamico.

Si parla molto di identità europea. Lei crede sia possibile la nascita di una cultura europea?

Credo che l’unione dell’Europa sia un’illusione e credo anche che presto avremo momenti di esaltazione con l’emergere delle culture locali. Proprio perché questo ampliamento culturale porterà a crisi d’identità che faranno precipitare le popolazioni in un labirinto di confusione. Ogni Paese vorrà riconoscere le proprie corrispondenze e origini che lo differenziano da ogni altro.

Una identità europea può esistere soltanto a livello militare o economico, neppure politico. Ma come identità culturale sarebbe la morte della cultura europea stessa, perché questa è un mosaico di varie culture che vanno conservate e aiutate a mantenere un loro posto distinto. Se ciò non accade si rischia una ribellione e le singole identità diventano assassine, violente, identità di kamikaze.

Dopo l’undici di settembre cosa è cambiato in lei e più in generale nell’anima islamica?

L'attacco alle Torri Gemelle ha creato una lacerazione nel mio spirito e nello spirito dell’Islam. Mi sono chiesto se questa è la mia fede, se questi sono veramente i musulmani e se l’Islam è la religione della violenza e del terrorismo. Io sono fortunato, perché essendo un uomo di cultura possiedo i mezzi per comprendere, ma molti musulmani non li hanno e per questo sono precipitati in una crisi profonda, che ha sconvolto le loro certezze, la forza della loro fede.

La nostra visione della vita, le nostre aspettative sono state colpite da quell’attentato che ha fatto di noi dei perseguitati dal senso di colpa e dall’indifferenza degli sguardi indagatori e sospettosi. E soltanto il fatto di sentirsi musulmani in una società che ti giudica sulla base della fede, ci mette in imbarazzo.

Signor Tawfik, qual è la vera identità islamica?

E’ quella della versatilità, dell’abbattimento di tutti i muri, di tutti i pregiudizi, della fratellanza a tutti i costi, perché l’Islam abbraccia più popoli, creando dei contatti di fratellanza all’interno della comunità. Per cui sono gli stessi valori dell’Islam a creare una fede di pace, di comprensione e di dialogo con l’altro. Ma tutto questo è stato messo in discussione da qualche fanatico che ha ridotto l’Islam a una religione di violenza.



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