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Le radici della malapianta



Carlo Violo



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Sappiamo che in natura non esiste pianta senza radici, le quali possono essere più o meno profonde, più o meno ramificate. Persino l’insalata possiede radici molto consistenti, tanto che spesso mangiamo la radice piuttosto che la pianta. Grazie tante, direte, abbiamo scoperto l’acqua calda. Ora, a parte che a volte l’acqua calda risulta tanto bollente da provocare ustioni, è straordinario che ciò che sembra tanto ovvio sia completamente trascurato nel dibattito sugli avvenimenti del mondo.

Proviamo a stare in silenzio un minuto vedendo se ci viene in mente qualcosa che su questo pianeta viva senza radici. Fatto? Esiste? Naturalmente la nozione di radice non riguarda solamente il mondo vegetale perché non c’è dubbio che le radici dell’orso bianco siano al Polo Nord e quelle delle balene nell’oceano. La radice è ciò che connette in senso generale a tutto ciò che nutre e sostiene una determinata creatura o un determinato fenomeno.

Ma la guerra è un fenomeno naturale? A giudicare dalla storia conosciuta si direbbe di sì e credo sia meglio considerarla realisticamente parte della vita dell’umanità. Le origini della guerra sono facilmente attribuite a fattori contingenti, folli, a schegge impazzite. Veramente un fenomeno così vasto, diffuso e importante, può avere radici così poco profonde? Se anche la guerra, come tutti i fenomeni terrestri, per esistere deve nutrirsi, sorge spontanea la domanda: nutrirsi di che?

E qui viene il bello. O il brutto.

Penso che anche voi viviate in un contesto sociale, che sia il condominio di casa, il quartiere di una città, una nazione con un suo carattere e una sua cultura. Bene. Vi è mai capitato di evitare all’ultimo momento un motorino che, imperturbabile rispetto ai segnali stradali, rischia di investirvi passando con il rosso? O in una riunione di condominio essere costretti ad imbarcarvi in qualche interminabile discussione con qualcuno che contraddice per principio tutto ciò che dite, indipendentemente dal grado di buon senso dei vostri argomenti?

O di ascoltare i discorsi di qualche uomo politico, ricco e illustre, che cerca di convincervi che licenziarvi senza giusta causa fa bene alla vostra salute? O, ancora, di dovere soccombere a qualche prepotenza solo perché il prepotente può pagare avvocati migliori? O, per caso, qualcuno, operaio in una fabbrica, ha mai trovato la fabbrica chiusa e trasferita dopo che aveva chiesto, insieme ai colleghi, un aumento legittimo di salario? E poi, per caso qualcuno di voi ha qualche tipo di conflitto nella propria famiglia? O per caso ha qualche vaga esperienza di qualche separazione conflittuale e traumatica? O ha un datore di lavoro che non gli paga gli straordinari? Eccetera, eccetera.

Tutto ciò è scontro e disarmonia, è qualcosa che contraddice le leggi della cooperazione, i più banali canoni del rispetto reciproco. Ma lo scontro e la disarmonia non possono che produrre altri scontri e disarmonie, o, quantomeno, rancori e acredini. Se a tutto ciò sommate altri ingredienti piuttosto negativi come la paura, l’incertezza per il futuro, le frustrazioni e le delusioni avete formato il cocktail della guerra.

Questa bevanda ha una strana caratteristica: oltre ad eccitare gli animi e predisporre allo scontro e alla violenza, fisica o psicologica, ha la capacità di trasmettere al bevitore l’assoluta convinzione che le proprie ragioni siano migliori di quelle di chiunque altro, che i propri diritti siano assoluti e prevalenti, le proprie azioni ben giustificate anche di fronte alle più atroci efferatezze.

Quando questo liquore raggiunge le viscere dell’uomo fa nascere con incredibile rapidità una pianta che presto invade tutti i gangli nervosi: la pianta della guerra.

Naturalmente il processo di costituzione del cocktail non è dovuto agli ‘altri’, così come sommariamente si deduce da quanto sopra. Anzi, il fatto stesso che il primo impulso che si prova riflettendo sui difetti dell’umanità sia quello di attribuirli a qualcosa che non ci riguarda, è esso stesso un altro aspetto della malapianta o, per restare in tema, della malaradice. Infatti senza riuscire ad osservare il proprio specifico contributo al sottile rigagnolo di sopraffazione che, unendosi agli altri milioni di rigagnoli, produce il fiume tempestoso delle guerre, non credo ci siano molte speranze per la pace.

Perché la pace, come altri grandi archetipi dell’umanità come l’amore, è prima di tutto un processo e un progresso interiore. Come ha detto recentemente il Papa: non c’è pace senza perdono. Ma come si fa a perdonare o a perdonarsi se non si prende coscienza anche delle proprie responsabilità nel meccanismo generale della violenza? Responsabilità piccole o grandi.

Ma allora se le radici della guerra, in quanto archetipo del comportamento umano, stanno dentro ciascuno di noi come si potrebbe sperare che la pace sia solo un compito di polizia, nazionale o internazionale?

Questo è uno di quei quesiti che potrebbe riempire anni e anni di Porta a Porta, senza approdare a nulla. E’ uno di quei grandi quesiti la cui risposta è responsabilità di ciascuno trovare, proprio perché responsabilità di ciascuno è la ragione interiore della guerra. Siccome anch’io sto cercando di darmi delle risposte quella che al momento ho trovato è la seguente: la speranza è osservare se stessi con un lungo e paziente lavoro di presa di coscienza dei propri limiti e delle proprie virtù. Credo che questo atteggiamento accresca il proprio patrimonio di umanità creando un rigagnolo di tolleranza che, unito agli altri milioni di rigagnoli, produce un fiume per nutrire la buonapianta. Infatti ciascuna pianta, ciascuna radice, ha il suo proprio nutrimento.

Certo, sembra più una risposta da prete che da poliziotto. Però, a parte che non sono un prete, non mi sembra che i metodi esteriori e istituzionali provati finora abbiano mai funzionato. Chissà se le organizzazioni degli uomini potrebbero funzionare meglio e più efficacemente per la pace se formate da uomini a maggiore contenuto di umanità?



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