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Ridley Scott e la "funesta necessità" del conflitto



Umberto Curi



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La sentenza attribuita a Platone (“Solo i morti hanno visto la fine della guerra”), posta ad epigrafe del nuovo film di Ridley Scott, Black Hawk Down, può suggerire l’impressione di una citazione più o meno casuale, senza alcun particolare rigore “tecnico”. A molti, inoltre, sarà sembrata strana l’evocazione di un autore per lo più associato all’immagine del filosofo “idealista”, assorto nell’immaginazione di uno stato perfetto, incapace di misurarsi con le miserie del mondo “di quaggiù”, perché tutto proiettato a contemplare la purezza e la trascendenza delle idee. Esattamente al contrario, il film di Scott può essere interpretato come un modo per “argomentare” l’exergo di avvio, come un dialogo serrato e asciutto col pensiero di Platone, col severo, rigoroso, inflessibile “realismo” della sua filosofia politica.

Già in Omero, alla guerra si allude con l’espressione polemos kakos - un male è la guerra, ma altresì un male necessario. Il destino che sospinge gli eroi ad affrontarsi sotto le mura di Troia conduce sovente a stroncare giovani vite, a soffocare luminose speranze. Ma è al tempo stesso una moira , una “parte assegnata”, alla quale nessuno può sottrarsi. Nel vivo del combattimento, l’eroe trova il suo kleos, la sua fama imperitura, andando incontro alla “bella morte” - un ossimoro che solo la grandiosità epica dell’evento bellico può impedire che appaia come contraddizione.

Poiché, per l’uomo greco, esistere come individuo vuol dire riuscire a restare “memorabile”, e dunque sfuggire all’anonimato e alla scomparsa, la battaglia è il tramite attraverso il quale è possibile conquistare una propria specifica individualità, entrare in un dominio pubblico, sottrarsi all’oblio. Mediante il canto epico, che trasmette e rende immortali le gesta compiute, gli eroi vengono a rappresentare per il gruppo sociale il suo “passato”, formando così le radici sulle quali si impianta l’ethos di un intero popolo.

La grandezza della guerra - terribile, ma insieme apportatrice di gloria, funesta quanto inevitabile - è poi ribadita nei frammenti dell’Oscuro di Efeso. Per Eraclito, infatti, polemos, come Zeus, è “padre e re di tutte le cose” e, come il nume olimpico, distribuisce agli uomini le loro sorti, perché “gli uni rende liberi, gli altri schiavi”, “gli uni indica come uomini, gli altri come dei”. Polemos è dunque la legge del mondo, ciò che ad esso conferisce quella “armonia” che scaturisce dalle tensioni contrastanti, perché tutto accade secondo contesa e necessità.

Ma è proprio con Platone che si assiste alla formulazione di un discorso compiuto e articolato, tendente a far emergere il carattere “razionale”, e non meramente distruttivo, della guerra, e più ancora il nesso indissolubile che lega politica e guerra. Se, nel dialogo intitolato a Protagora , il polemos è esplicitamente definito come “parte” della politica - e per certi aspetti anche come suo inevitabile destino - nella Repubblica la guerra è il principio che è all’origine dello stato, in quanto spiega il passaggio dal primitivo “stato dei porci” allo “stato gonfio di lusso”, è fattore di organizzazione in classi della società, ed è infine il criterio a cui deve essere ispirata la stessa paideia, il modello di formazione culturale dei cittadini di uno stato che voglia essere “ben costituito”.

L’apice di questo percorso si colloca nel dialogo che presumibilmente suggella l’intero arco della ricerca platonica, là dove (nelle Leggi) si afferma che non solo “sempre c’è guerra per tutti gli stati contro tutti gli stati, continuamente, finchè duri il genere umano”, ma si giunge al punto da sostenere che “c’è guerra in ciascuno di noi contro se stesso”. In quanto contrappone e separa, il polemos agisce anche come principale fattore di costituzione dell’identità, di singoli e di comunità. Esso è dunque fattore intensivamente morfogenetico, creatore di forme, e non soltanto elemento distruttivo o agente di disgregazione. Davvero “re e padre” di tutte le cose è il polemos, in quanto razionale esecutore di trasformazioni radicali, formidabile strumento di costituzione di nuovi “ordini”o, per dirla come altri affermeranno alle soglie dell’età contemporanea, vera e propria “levatrice della storia”(per un più ampio sviluppo, cfr. U. CURI, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1998)..

Da questo compiuto disincanto, dalla constatazione della inesorabilità con la quale si ripropone la funesta necessità della guerra, muove il percorso sviluppato da Scott. Il riferimento a Platone - al realista Platone, al filosofo che per primo e con maggiore rigore si è interrogato sulla “funesta necessità” della guerra - non è dunque un omaggio estrinseco o accidentale, ma segnala la problematica crux, intorno alla quale lavora il film nel suo complesso. Se si possa ancora oggi, dopo due guerre mondiali sanguinose e catastrofiche, dopo i guasti indotti dalla guerra “fredda”, dopo la ristrutturazione planetaria conseguente alla deterrenza nucleare, dopo l’avvento di quella nuova e ancor più terribile “faccia” della guerra, che è il terrorismo internazionale, se si possa dopo tutto ciò, continuare a parlare della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” (von Clausewitz), o come l’ “essenza e il presupposto stesso della politica” (Carl Schmitt).

Se sia ancora rintracciabile in essa una razionalità, se si possa dire che essa ancora agisce come fattore capace di dare forma, oltre che di distruggere. Se, insomma, essa abbia conservato i caratteri del polemos eracliteo-platonico, ovvero se non si debba riconoscere che, fra i grandi mutamenti intervenuti nel passaggio del millennio, non si sia verificato anche un cambiamento profondo nella sostanza tecnica della guerra, e più ancora nel rapporto che essa intrattiene con la politica.

Black Hawk Down si inserisce precisamente in questo quadro problematico, rifuggendo da un lato da ogni compiacimento meramente e gratuitamente spettacolare (anche la guerra - soprattutto la guerra - può essere trattata come qualcosa che sia mirabile da guardare, come uno “spettacolo”), quale è quello che troviamo invece nel pressochè coevo - e pessimo - Saving Private Ryan di Spielberg, , e dall’altro rinunciando ad ogni sterile approccio moralistico o predicatorio. I protagonisti del film non sono né eroi né belve sanguinarie, ma semplicemente dei professionisti della guerra, appartenenti a corpi speciali americani accuratamente selezionati e meticolosamente preparati, i quali affrontano il combattimento senza alcuna improbabile libido pugnandi, ma solo perché è quello il loro mestiere.

Alleggerito da ogni istanza “pedagogica”, disimpegnato da condizionamenti ideologici o apologetici, il film si svolge con ammirevole essenzialità di dialoghi e di avvenimenti, come una sorta di ricerca filosofica sulla guerra, nella quale la tesi “realista”, che riconosce nella guerra il più potente ed efficace mezzo di trasformazione escogitato dall’uomo, viene passata al vaglio di una verifica serrata, scevra da qualsiasi pre-giudizio, ma anche aliena da ogni forma di edulcorazione strumentale.

La descrizione di un singolo episodio bellico, analizzato con grande cura per il dettaglio e con molta attenzione alla compatibilità “logica” fra le diverse fase narrate, diventa così un modo per sviluppare una sorta di esame anatomico, capace di far emergere la struttura complessa del combattimento, di metterne in luce l’impianto tecnico, razionale, in ogni senso premeditato. Rispetto ad ogni visione meramente “romantica” della guerra, quale è quella largamente prevalente nelle produzioni hollywoodiane contestuali al secondo conflitto mondiale, secondo la quale la guerra è solo un’occasione per sfornare battute fulminanti, intrecciare amori struggenti, esibire imprese altisonanti, o al “revisionismo” che caratterizza i molti film critici dell’intervento americano in Vietnam, nei quali, esattamente al contrario, la guerra è altrettanto indiscriminatamente condannata, mostrata nel suo aspetto ignobile e degradante, questa recente opera di Ridley Scott prende davvero “sul serio” il compito di “pensare la guerra”, a partire dalla lapidaria sentenza platonica.

Di qui la scelta di evitare scrupolosamente i deformanti luoghi comuni del cinema bellico tradizionale, a cominciare dalla distinzione manichea fra “buoni” e “cattivi”, o dall’esaltazione delle virtù agonistiche di questo o quel personaggio, per concentrarsi invece sulla dinamica dell’azione militare compiuta, svelandone il meccanismo di funzionamento, e quindi rendendo comprensibili le ragioni che hanno condotto al fallimento dell’impresa. Lo spettatore è posto così nella medesima condizione in cui si trova il generale che segue lo svolgersi degli avvenimenti a distanza, giovandosi delle riprese televisive e dei collegamenti via radio con coloro che sono direttamente impegnati nello scontro. E come il graduato, anche lo spettatore assiste al graduale sfaldamento della strategia che era stata minuziosamente preordinata, e che avrebbe dovuto portare al compimento di una sorta di BlitzKrieg, una guerra-lampo, mediante la quale il target fissato sarebbe stato raggiunto in meno di mezz’ora, senza perdite di vite o di mezzi.

Questo meccanismo, benchè attentamente studiato in ogni dettaglio, si inceppa e poi sempre più degenera, per un evento imprevisto, di per sé banale e del tutto marginale, capace di far saltare la struttura razionale del progetto di attacco. Colto dall’emozione , un ranger appena diciottenne manca la presa con la corda, lungo la quale avrebbe dovuto scendere dall’elicottero, e precipita al suolo, restando gravemente ferito. Si colloca qui, in questo passaggio apparentemente ininfluente, il vero punto di catastrofe della battaglia.

L’imperativo di non lasciare senza soccorsi coloro che siano colpiti (che ha effettivamente suggerito agli Stati Uniti una strategia di intervento bellico fondata sulla riduzione al minimo del rischio per i propri soldati, sia nella guerra del Golfo, sia in occasione della guerra contro la Jugoslavia, e poi ancora durante i bombardamenti sull’Afghanistan), innesca una tragica catena di disgrazie: l’elicottero inviato per recuperare il soldato ferito viene abbattuto, mezzi e militari vengono a loro volta colpiti nel tentativo di presidiare il luogo in cui l’elicottero è precipitato, altri velivoli seguono la stessa sorte del primo, fino a che quella che avrebbe dovuto essere un’impresa a basso rischio, della durata di una trentina di minuti, priva di perdite umane, diventa una sorta di carneficina, protrattasi fino all’alba del giorno successivo, nella quale perdono la vita oltre un migliaio di miliziani somali e 19 soldati americani.

Che la “razionalità” strategica sia inesorabilmente esposta al sopravvento di circostanze in qualche modo imperscrutabili, legate al caso o alla fatalità, e che dunque l’esito di un combattimento non possa mai dirsi prevedibile in maniera infallibile, non è l’unico esito della “ricerca” condotta da Ridley Scott. Alla dimostrazione della fragilità di ogni immaginazione letteralmente prometeica, si accompagna una ancora più rigorosa denuncia dell’inaffidabilità della guerra come strumento di trasformazione e fattore morfogenetico.

La conclusione in qualche modo inconcludente della battaglia descritta, la quale lascia sostanzialmente inalterata la situazione preesistente fra i belligeranti, nonostante le gravi perdite subite da entrambe le parti, è solo il presupposto di una constatazione finale, nel segno della pratica ineffettualità della guerra. Nonché determinare una svolta nell’andamento di in conflitto, in corso ormai da molti mesi, l’attacco al “quartiere ostile” nel cuore di Mogadiscio paradossalmente finisce per consolidare lo stallo, perpetuando il blocco di una situazione che, viceversa, si sarebbe voluto modificare proprio mediante la forza dell’intervento armato.

Ebbene, nel momento in cui la guerra non sia più un mezzo in senso stretto decisivo, nel momento in cui essa non attribuisca le sorti, come il polemos eracliteo, stabilendo chi siano i vincitori e quali siano i vinti, e si riduca piuttosto ad un gioco “a somma zero”, nel quale azioni e reazioni si compensano perfettamente, costruendo un equilibrio non precario, è evidente la rottura dell’impianto filosofico “realista”, il venir meno di ogni possibilità di riconoscere nella guerra una pur atroce razionalità. Il disimpegno americano dalla Somalia, pochi giorni dopo il fallimento del combattimento descritto nel film, il protrarsi del dominio incontrastato di Aidid e dei “signori della guerra”, la complessiva immodificabilità della situazione, nonostante il non trascurabile sforzo militare degli Stati Uniti, testimoniano una svolta importante nella plurisesecolare relazione fra politica e guerra.

L’opera di Scott documenta una fase di passaggio, nella quale si manifesta pienamente l’afasia della guerra, la sua incapacità di funzionare come grembo di nuovi ordini, la sua improduttività politica, la sua sterilità morfogenetica. Rispetto ad una lunga tradizione di pensiero realista, che aveva riconosciuto nella guerra la forma di ogni possibile trasformazione, il film sembra alludere al compimento di una metamorfosi, in seguito alla quale la guerra ha cessato di costituire il senso forte della politica, e si presenta piuttosto - in questo caso davvero - come evento puramente irrazionale, del tutto autoreferenziale, incapace di produrre mutamenti. Una guerra della quale nessuno riesce più a capire il significato, come accade ai protagonisti del film, attoniti di fronte non già alle atrocità della battaglia, ma alla sua complessiva inutilità.

Da questo punto di vista, il titolo dell’opera non allude semplicemente all’episodio bellico decisivo, nel quale appunto viene abbattuto un elicottero americano. Scott indica, piuttosto, che l’ “aquila nera” che è “caduta” è la convinzione, o l’illusione, che la guerra possa dirimere controversie, stabilire gerarchie, dar luogo a nuovi “ordini”. Nel passaggio al terzo millennio, la guerra stessa appare come un residuato bellico, come fossile di un’era che forse è definitivamente tramontata, nella quale essa poteva rivendicare di agire, appunto, come “padre” e “re”. Tutto ciò non significa affatto - si badi bene - che il film intenda segnalare il sopravvento di un’epoca di definitiva pacificazione, nella quale la guerra sia per sempre bandita come modalità di rapporto fra gli stati.

Al contrario, ciò che sembra di poter cogliere nella lucidissima e dolente analisi dell’Autore è il compiersi di un affrancamento della guerra da ogni pur funesta “necessità”, la cancellazione di ogni legame con qualche disegno razionale, e dunque il fatto che essa rimanga e si riproduca nella sua “nuda” potenza distruttiva, nel suo solo ed esclusivo aspetto di pura devastazione. Anziché il sogno, coltivato da Kant e da altre generose “anime belle”, di una “pace perpetua”, l’incubo opposto, di una guerra perpetua, e per giunta ineffettuale e improduttiva. Non “serve” più”, ma si fa ugualmente.

Un combattere fine a se stesso, che assomiglia sempre di più ad un esercizio tecnico, ad una prestazione di sport estremo, comunque ad un rischio astratto, dove la vita è in gioco senza che se ne sappia il perché, e senza poter neppure valutare i risultati di tanto spargimento di sangue. In questa accezione postmoderna, la guerra perde quella pur terribile virtù che i poeti avevano cantato, e della quale i filosofi avevano dovuto accettare l’inesorabile appartenenza al destino del genere umano. Rimane come pura espressione di un cruento gioco a somma zero, come indizio di quanto profondamente ed irreparabilmente “dannata” sia la “massa” degli uomini, di quanto su di essi pesi una condizione di irredimibile ferocia.

L’aquila nera è caduta. Con essa, è forse anche caduto ciò che rendeva la guerra un aspetto che, sia pure in maniera perversa, apparteneva all’orizzonte dell’agire razionale, orientato ad uno scopo. E’ caduto anche ciò che la rendeva in qualche modo “domestica”, che ne faceva una variabile di un più generale scenario politico, nel quale era possibile ancora “decidere” su di essa. Un’altra era si è aperta, inquietante e sinistra come i rottami fumanti e scomposti della “Black Hawk” abbattuta nel film. Ora che il polemos non è più padre e re di tutte le cose, non si può dire, almeno per ora, quale destino ci attende.

Il link:

Il sito ufficiale del film Black Hawk Down



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