Un po' di speranza in Medio
Oriente
Luisa Morgantini
Articoli collegati:
Le radici della malapianta
Un po' di speranza in Medio
Oriente
Una cultura di poesia e di
fratellanza
Ridley Scott e la "funesta
necessità" del conflitto
Luisa Morgantini è parlamentare europea eletta nelle liste del
Partito della Rifondazione Comunista. L'indirizzo del suo sito è http://www.luisamorgantini.net
.
Il 2 febbraio a Tel Aviv avrebbe dovuto aver luogo una
manifestazione indetta da diversi gruppi pacifisti israeliani, ma la
polizia l'ha vietata. Passato il primo momento di incertezza alcuni
gruppi pacifisti, tra i quali Tay'ush (convivenza in arabo), che si
è formato in questa seconda Intifadah e che organizza aiuti per la
popolazione palestinese, assediata e prigioniera all'interno dei
villaggi, e che soprattutto ha condotto una campagna per impedire
l'evacuazione di contadini nelle vicinanze di Hebron, hanno deciso
di rinviare la manifestazione alla settimana successiva, sfidando un
altro divieto dell'esercito e della polizia: recarsi a Ramallah
nell'area dell'autonomia palestinese, incontrare Arafat e le
organizzazioni palestinesi.

Sembrava una cosa impossibile. Come riuscire a
passare il check point in tanti israeliani? Altri in queste
ultime settimane erano riusciti ad entrare a Ramallah, da Shulamit
Aloni, figura storica nella sinistra israeliana, ad un gruppo di
giornalisti guidati da Uri Avneri, ma erano piccoli gruppi o
individui che erano riusciti a passare attraverso le maglie del
controllo percorrendo strade e stradine interne o a bordo di auto
targate stampa.
Questa volta non si trattava di "personalità" ma di un
"movimento". Da qualche giorno si era in contatto con i
rappresentanti di alcuni villaggi intorno a Ramallah perchè non
succedessero incidenti. La sera prima si era andati in
perlustrazione al check point di Kalandia mettendo in conto
(sbagliando in questo caso) che i soldati avrebbero impedito
l'ingresso ai pacifisti israeliani: si voleva trovare un posto per
manifestare che non fosse di ulteriore intralcio ai palestinesi.
Il check point di Kalandia è stato collocato all'altezza della
strada che congiunge il nord della Cisgiordania con il Sud,
impedendo cosi la cominicazione tra le diverse aree. E' un luogo di
inferno dove ogni automobile palestinese viene controllata
minuziosamente dai soldati israeliani e per fare 300 metri ci
vogliono ore e ore di fila. Il più della gente lascia i trasporti
auto e passa a piedi, spendendo cosi' il doppio, e osservi lunghe
file di anziani, donne e uomini con bambini al braccio, vecchie
contadine con borse enormi, vedi la fatica, il dolore, l'umiliazione
dei giovani che vengono fermati malamente dai soldati, quando non si
spara loro addosso.
Ti chiedi come possano resistere e ti spieghi, pur non accettandolo,
perché il giorno prima un palestinese impazzito dall'esasperazione
in un litigio per eccesso di traffico e per il posto del parcheggio,
avesse accoltellato un altro palestinese provocando una reazione da
parte degli Shabab del campo profughi di Kalandia che per vendetta
hanno incendiato alcuni negozi della famiglia dell'accoltellatore.
Una tragedia nella tragedia, il palestinese accoltellatore era un
cristiano e i ragazzi della vendetta musulmani. E'dovuto intervenire
Arafat perché la questione non divenisse uno scontro religioso.

Al mattino, il colorato gruppi di pacifisti è
partito con un po' di ritardo; arrivati al check point in
più di trecento, si è passati a piedi. Soldati e polizia hanno
cercato di fermare il gruppo: è vietato agli israeliani passare,
infrangete la legge. "Siamo tutti italiani", dicevano
ridendo giovani e non giovani, superando il check point. Nelle
discussioni che ci sono state tra polizia e organizzatori è volata
la minaccia che al rientro sarebbero stati tutti arrestati.
Dall'altra parte intanto, gli Shabab del campo di Kalandia ci
stavano aspettando con i trasporti pronti per andare a Ramallah.
Decine e decine di taxi collettivi si sono diretti alla sede
dell'autorità palestinese dove Arafat vive ormai da mesi,
imprigionato, con i carri armati in mezzo alla strada a un centinaio
di metri dalla sua finestra.
La commozione, l'esaltazione, il brivido di aver superato i divieti
erano straordinari, così come la paura: di essere arrivati
nell'ignoto, di incappare in qualche attentato, di non sapere come i
palestinesi avrebbero accolto una folla di israeliani, incontrare
Arafat, salutargli dargli la mano, sorridergli, ascoltarlo. Cose che
possono apparire banali e invece sono radicate nel profondo anche da
parte di chi ha scelto decisamente di stare con la pace giusta, o
come dicono nei loro slogan "l'occupazione è violenza,
l'occupazione uccide tutti, fine dell'occupazione".
All' incontro con Arafat hanno parlato a nome di tutti una
palestinese israeliana e un ebreo israeliano: strette di mano,
abbracci, tutti commossi, anche i cinici, gli scettici e i critici
di Arafat. Il presidente ha ringraziato, ha dato il benvenuto, si è
augurato che finisca questa tragedia e i due popoli possano vivere
insieme in pace. Niv Gordon e Rose Amer a mano congiunte con Arafat
hanno ribadito il loro impegno per la pace. Usciti per la strada si
sono recati verso i carri armati del loro esercito, per una
manifestazione silenziosa e sono subito stati accolti da bombe suono
e gas lacrimogeni.
Bisognava andarsene, al Ministero dell'Educazione stavano aspettando
i rappresentanti delle Associazioni Palestinesi. Nel frattempo avevo
raggiunto le Donne Palestinesi che stavano manifestando nel centro
di Ramallah attendendo l'arrivo dei pacifisti. Frustrazione: i
pacifisti non sono arrivati per disguidi e incomprensioni di luoghi.
Mi chiama al telefono Gadi Elgazi, uno dei leader di Tay'ush e
professore universitario, dice di raggiungerlo al Ministero; quando
arrivo Amira Hass, grande giornalista ma anche persona piena di
ansie, mi aggredisce: "Ecco vedi noi siamo arrivati ma dove
sono i palestinesi", altrettanto aggressiva le rispondo che si
è un po' disorganizzati, per esempio le donne palestinesi li
stavano aspettando ad al Manara. Poi ci abbracciamo, Amira è
entusiasta, ci diciamo che è una giornata storica non solo per il
movimento pacifista israeliano ma per la costruzione di relazioni
con i palestinesi.
Nel frattempo arrivano le donne palestinesi, tra loro Zahira Kamal,
Islah Jad, Hanan, la figlia di Abu Jihad, Khaddura Fares,
parlamentare palestinese e tanti e tante altre. Si succedono gli
interventi, tutti consapevoli del momento straordinario e della
nuova fase nelle relazioni. Tra gli israeliani vi sono molti ragazzi
che si sono rifiutati di servire nei territori occupati, molte donne
della Coalizione per la pace, militanti di Gush Shalom, Yesh Gul, ma
sopratutto una nuova generazione di arabi israeliani e ebrei
israeliani; lo fa notare Zahira Kamal dicendo che questi nuovi volti
le danno un po' di fiducia e che i palestinesi hanno bisogno di
vedere che gli israeliani non sono solo la minaccia dei soldati o
degli F16 o dei carri armati, cosi' come gli israeliani si possono
rendere conto che i palestinesi hanno desiderio di pace e sono
essere umani con tutte le loro sofferenze, grandezze e meschinità.

Ho parlato anch'io, comossa come tutti, ho detto
semplicemente di come erano stati bravi a passare il confine, di
come ero felice di vederli insieme, palestinesi e israeliani, io che
da anni faccio la spola tra gli uni e gli altri, ma naturalmente non
ho mancato di dire della responsabilità dell'Europa per il
protrarsi dell'occupazione militare.
Si torna a Tel-Aviv, si ripassa da Kalandia, battute feroci con i
soldati, ma niente arresti. "E' fatta - dice Gadi ElGazi -
abbiamo passato il confine, adesso dobbiamo continuare, è
importante aver incontrato Arafat, ma ancora più importante per noi
che siamo società civile avere incontrato i rappresentanti della
società civile palestinese". Alla sera di domenica mi telefona
Mustapha Barghouti, sta lasciando Porto Alegre, è molto soddisfatto
del posto che la questione palestinese ha avuto nel movimento.
Dice che gli italiani hanno avuto un ruolo molto positivo, rispetto
alla convocazione del Forum a Gerusalemme. Gli racconto l'evento dei
pacifisti israeliani, restiamo d'accordo di organizzare un incontro
con loro per la Campagna della Missioni Civili per la protezione
della Popolazione Palestinese. E' sbagliato nutrire qulache
speranza?
Purtroppo i tempi di crescita del movimento sono più lenti dei
bombardamenti di Sharon, fermare Sharon e la sua politica omicida e
suicida è una responsabilità morale e politica, ma intanto i
segnali che vengano dalla società israeliana sono sempre più
numerosi, il numero di soldati che si oppongono alla brutalità e
all'orrore dell'occupazione militare cresce di giorno in giorno, e
per una società militarista come quella israeliana che dall'interno
dell'esercito si cominci a dire: mi rifiuto, è certamente un passo
positivo e traumatico. La risposta dei quartieri generali è dura.
Non lasciamoli soli.
Il 27 Febbraio in tanti, cittadine e cittadini europei, saremo
davanti al Parlamento Europeo a Bruxelles per chiedere la fine
dell'occupazione militare, la sospensione degli accordi di
associazione con Israele e una presenza internazionale per la
protezione della popolazione civile.
Articoli collegati:
Le radici della malapianta
Un po' di speranza in Medio
Oriente
Una cultura di poesia e di
fratellanza
Ridley Scott e la "funesta
necessità" del conflitto
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |