L'erranza come
condizione umana
Umberto Curi
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Si entra nel film attraverso un sogno - anzi, un incubo. Ma
poi anche lo sviluppo della vicenda è costantemente “giocato”
sull’alternanza, deliberatamente impercettibile, fra dimensione
“reale” e dimensione onirica. Anche, ma non solo, da questo
punto di vista, ogni “lettura” uni-voca del film, ogni
tentativo di ricondurlo ad una tipologia chiaramente definita, e
dunque ad una chiave interpretativa omogenea, è destinato a
scontrarsi con la refrattarietà dell’opera ad essere appiattita
su un unico livello. Così, ad esempio, bisognerebbe guardarsi dalla
facile tentazione di proiettare sul film qualche schema di carattere
sociologico o qualche rimasticatura di vago sapore psicoanalitico.

Con la psicoanalisi, Soldini esplicitamente “regola
i conti” già all’esordio, allorchè Tobias inventa di sana
pianta una storia immaginaria per lo psichiatra che lo sta
esaminando, giustificando a se stesso questa menzogna in modo
brutale, ma convincente (“figurati se vado a raccontargli i fatti
miei!”). Quanto alla possibilità di privilegiare un approccio
più o meno vagamente sociologico, immaginando che il film possa
riguardare il problema dell’emigrazione, è evidente che l’operazione
condotta dall’Autore procede in una direzione esattamente opposta.
Anziché accumulare dati ed elementi che possano valere a costruire
una “case history” sufficientemente dettagliata, intorno alla
quale far funzionare le categorie dell’emarginazione o comunque
dell’estraneità, Soldini lavora piuttosto per cancellare ogni
possibile determinazione storico-sociale, lasciando volutamente
imprecisato il paese di origine dei protagonisti e dei comprimari,
ed eliminando inoltre ogni aspetto capace di conferire una immediata
riconoscibilità alla città nella quale essi si ritrovano. Se è
vero, infatti, che i nomi dei personaggi rimandano ad un paese dell’Europa
orientale, e se è vero inoltre che è probabilmente Losanna la
città che li accoglie, non si può dire che tutto ciò risulti in
maniera incontrovertibile dalle immagini.
Al contrario, tanto la ricostruzione del luogo d’origine, quanto
la descrizione del contesto nel quale essi attualmente si muovono,
sono ridotte davvero all’essenziale, in modo da togliere ogni
possibile appiglio a chi volesse ricercare nella vicenda gli indizi
di una storia di emigrazione. Considerazioni analoghe possono essere
fatte anche a proposito del “tempo” in cui si svolgono gli
avvenimenti narrati: è difficile, infatti, individuare qualche
indizio in base al quale “situare” cronologicamente il rapporto
fra Tobias e Line, dato che né gli abiti dei protagonisti, né la
fabbrica nella quale essi lavorano, né gli interni delle abitazioni
o dei locali pubblici, e neppure i rari mezzi di trasporto
consentono di fissare con una certa sicurezza le coordinate
temporali lungo le quali si svolge il film. Il fatto che nella
vicenda siano coinvolti esuli dall’Europa orientale potrebbe far
pensare ad un periodo, pur indeterminato, successivo al crollo del
muro di Berlino. Ma non si può neppure escludere che si tratti
invece di una storia ambientata qualche anno, e perfino qualche
decennio, prima di quel fondamentale turning point.
Ma l’indeterminazione del contesto storico e geografico, la
mancanza di precisi riferimenti nella individuazione dei luoghi e
dei tempi, non vale soltanto a disattivare perentoriamente ogni
interpretazione in chiave sociologistica. Essa serve soprattutto a
far emergere quale sia - in positivo - il piano sul quale Soldini ha
scelto di realizzare questa sua opera, certamente più ambiziosa e
complessa di quanto non fosse Pane e tulipani.
Non si tratta, dunque, di raccontare le peripezie di alcuni
individui, occasionalmente costretti a vivere in un paese diverso
dal proprio, in conseguenza di motivi del tutto accidentali e
comunque contingenti. Attraverso le peripezie dei personaggi che
compaiono nel film - in ogni caso, per ragioni diverse e con
modalità differenti, tutti emigranti- l’Autore si
interroga sulla condizione umana in quanto tale, vale a dire sul
fatto che, in qualunque luogo ci accada di trovarci, e in qualunque
“tempo”, ciascuno di noi è sempre e comunque esule.
Sempre ospite in terra straniera. Sempre lontano dalla
propria patria. Sempre e irrimediabilmente estraneo.

Di qui la scelta di lasciare volutamente
indeterminato sia il luogo di origine, sia quello d’approdo di
Tobias e di Line, e inoltre di non specificare in alcun modo neppure
il paese nel quale infine essi trovano riparo, dopo la separazione
di lei dal marito infedele. L’unica cosa che apprendiamo di questa
nuova località, è che il risiedervi implica che essi apprendano un’altra
lingua, a conferma della loro costitutiva ed insuperabile
estraneità. Si spiega, in questa prospettiva, l’altrimenti
incomprensibile tetraggine del protagonista (“in cinque anni, non
ti ho mai visto ridere” - gli dice una sua compagna di lavoro), l’angoscia
che lo accompagna fin dal suo primo comparire sullo schermo, gli
incubi dai quali egli non riesce a liberarsi. E si comprende,
inoltre, la sua avversione ad ogni ipotesi di ritorno in patria, che
pure Line gli fa balenare, prima che si compia la catastrofe che
prelude all’esito conclusivo.
Con più dolorosa consapevolezza, e più lacerante lucidità,
rispetto ai suoi compagni di sventura, Tobias sa, infatti, che l’essere
esuli non riflette una situazione transitoria, che possa
presto o tardi essere rimpiazzata da una stabilità permanente, non
dipende da circostanze fortuite, alle quali sia pensabile, prima o
poi, porre rimedio. Essa riflette piuttosto uno statuto profondo e
come tale immodificabile, come espressione di una condizione umana
segnata dall’erranza, dall’essere sempre altrove,
rispetto al proprio luogo d’origine , dal non poter mai trovare
una propria sede. E’ la condizione umana in quanto tale, e
non soltanto il “caso” circoscritto di Tobias e Line, ad essere
instabile e precaria, esposta agli strali di un’alterna fortuna,
mai “sicura” del proprio approdo, mai al riparo dalle avversità
e dal dolore.
Rispetto ad alcuni modelli in ogni senso “classici”, nei quali
è espressa questa sofferta consapevolezza, e rispetto a figure
paradigmatiche del viaggio e dell’esilio come metafora della vita,
qui Soldini (e prima ancora Agota Kristof, dal cui volume “Hier”
il film prende spunto) sembra indicare che il ritorno a Itaca resta
in ogni caso precluso. Il viaggio non conduce in realtà in nessun
luogo. In ogni caso, non vi è viaggio che possa riportarci in
patria. O perché questo approdo, col quale il viaggio potrebbe
dirsi finalmente e definitivamente concluso, non ci viene concesso.
Ovvero, più radicalmente, perché non vi è nessuna patria alla
quale ritornare, non vi è nessun luogo che possa convertire in
stabilità l’ineliminabile erranza che caratterizza
peculiarmente la condizione umana.
Di qui le immagini che troviamo a conclusione del film, remote da
ogni esito consolatorio, da ogni pur debole parvenza di happy end:
un lembo di spiaggia sconnessa, lambita dalla risacca delle onde,
nella quale si intravede fugacemente soltanto la piccola figlia di
Line in equilibrio malfermo sui sassi, mentre la voce metallica di
un registratore ripete le frasi senza senso di una lezione in lingua
spagnola. Quasi a sottolineare che, scomparse dallo schermo le
figure dei due protagonisti, è ora il turno della piccola a dover
affrontare le incertezze e l’instabilità connesse con lo statuto
dell’esilio.

Intrecciato con questa tematica, nella forma che
si è fin qui precisata, non meno rilevante è un secondo filone,
intorno al quale “lavora” questa intensa e matura (anche se non
sempre adeguatamente risolta) opera cinematografica. Innovando con
coraggio rispetto a moduli tradizionali estremamente consolidati, in
campo letterario e figurativo, oltre che strettamente
cinematografico, Soldini reinterpreta il tema del doppio, non già
(come pure spesso accade) quale mero virtuosismo espressivo, o
elemento decorativo estrinseco, bensì come elemento fondamentale
nella costruzione della storia, come suo ingrediente decisivo.
Figli dello stesso padre, seduti allo stesso banco - e allo stesso
tavolo nella mensa della fabbrica, una volta che l’ “agnizione”
è avvenuta - l’uno a fianco dell’altro, provenienti dallo
stesso paese, impiegati nella medesima azienda, abituati a prendere
lo stesso autobus, entrambi indotti a modificare il loro nome
originale, Tobias e Line non sono due amanti incestuosi. Essi
incarnano, piuttosto, due distinte possibilità in senso
esistenziale, le quali finiscono per riconoscersi , per
cogliere l’identità che le accomuna, al di là della solo
apparente alterità che le separa, e dunque per fondersi in
una unità. A partire dalla loro originaria indistinzione,
essi seguono ciascuno una propria differente ipotesi di vita, l’una
divaricata rispetto all’altra (lei laureata, lui operaio; lei
moglie e madre, lui ostinatamente celibe; lei impaziente di
ritornare in patria, lui tenacemente avverso ad ogni “impossibile”
ritorno). Line è dunque il “doppio” di Tobias non tanto perché
ne costituisca il rovescio speculare, quanto piuttosto perché
rappresenta ciò che egli avrebbe potuto essere, ove non fosse
fuggito dopo aver tentato di sopprimere il padre, come è
emblematicamente confermato dal fatto che ella ha frequentato la
stessa scuola, nella quale egli sarebbe dovuto andare.
Ma questo percorso, che conduce dall’indistinzione all’unità,
attraverso la divaricazione, non è affatto un mero esercizio di
stile, né un vacuo omaggio alla lunga tradizione del “doppio”,
poiché è invece “giocato” da Soldini per mostrare fino a qual
punto la condizione dell’esilio, nel significato in precedenza
chiarito, debba essere considerata letteralmente ineludibile,
comunque indipendente da scelte soggettive, perché legata ad un destino,
al quale nessuno può pretendere di sfuggire. Qualunque cosa avesse
fatto Tobias da piccolo, avesse soltanto “sognato” di alzare il
coltello contro suo padre, così come soltanto sogna di ferire il
marito della donna amata, fosse rimasto nel suo paese, avesse
frequentato la scuola che per lui era stata scelta - in una parola:
avesse fatto ciò che effettivamente ha fatto Line - nulla
sarebbe mutato.
Difatti Line - “l’altro” Tobias - approda infine al medesimo
luogo in cui si trova il suo fratellastro, pur avendo seguito una
strada del tutto diversa, rispetto a quella da lui intrapresa. E
quando infine si arrende alle sue profferte amorose, in realtà si
arrende a quello che ella ha compreso essere il proprio destino, dal
quale nulla e nessuno potrà strapparla. Nella duplicità
delle scelte compiute dai due giovani, e nel loro finale
ricongiungimento, si compie infine una parabola che riconosce nel
perpetuo esilio, nell’instabilità e nell’incertezza, nella
precarietà strutturale e nel dolore di esistere, nell’essere
viandanti senza che mai una meta definitiva possa essere raggiunta,
nell’essere in viaggio verso un’Itaca che resta irraggiungibile,
ciò che specificamente caratterizza la condizione umana.
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