Esuli
in viaggio
Davide Iodice con Tina Cosmai
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Esuli in viaggio
Un teatro
scarno per un testo scarno, dove la parola è un temperino che squarcia
e evidenzia i lati oscuri dell’esistenza, quelli nascosti nelle
pieghe dell’anima. Un attore, due attori, pochissimi oggetti, un
rapporto molto diretto con il pubblico, la testimonianza di storie,
di mondi spesso occultati. E’ il teatro che propone la compagnia
partenopea Libera mente con lo spettacolo I
Bambini della Città di K, tratto dal
romanzo La Trilogia
della città di K (Einaudi) di Agota Kristof.
Il dramma si ispira alla prima parte del romanzo Il Grande Quaderno, i cui protagonisti sono due gemelli affidati ad
una nonna crudele nel periodo storico della Grande Guerra, costretti
ad abbandonare con la loro madre una città di un paese dell’est
dell’Europa che non viene mai nominata. Un testo che è una favola
nera, buia, che mette in scena le condizioni estreme dell’esistenza,
la sofferenza, la morte, la perversione e anche l’amore.
Un amore
vissuto attraverso un lavoro intenso di immaginazione dei gemelli
per sopportare la brutalità della loro esistenza, per costruire
vie di fuga dal male che li avvolge, che arriva loro dal mondo degli
adulti. Attraverso l’immaginazione, l’amore conduce i due all’esercizio
della morte, della violenza, dell’analisi lucida e fredda dei fatti. E la scrittura è sempre la via di salvezza; i due bambini tengono
un quaderno dove scrivono la loro storia, quella inventata, immaginata,
la storia della loro sopravvivenza in un mondo abbrutito dalla guerra,
dalla perversione.
Davide Iodice, regista de I
Bambini della Città di K ci parla di questo dramma, che sarà
in scena a Udine il 24, 25 e 26 gennaio, con Monica Angrisani e
Tania Garribba nel ruolo dei due gemelli. Ci racconta il perché
dell’atto evocativo e delle contaminazioni con una realtà culturalmente
diversa come quella partenopea.
Perché avete scelto di
mettere in scena un testo di Agota Kristof ?
La scelta di un testo nasce sempre da un sentimento, nel tempo e
del tempo; da un’esigenza di raccontare uno stato d’animo in un
preciso momento storico. Due anni fa il romanzo della Kristof coincideva
con i bisogni spirituali e sociali del nostro gruppo teatrale; la
lucidità di questi due bambini nel guardare un mondo eternamente
guerrafondaio, anche nei rapporti di vicinato, nelle relazioni semplici.
I due gemelli sono spietati nella loro irriducibile capacità di
sopravvivere all’aridità e al nulla dell’esistenza con l’immaginazione,
che è lo scudo, l’autoeducazione che essi si impartiscono per andare
oltre, per sopportare l’impietosa realtà che tocca loro di vivere.
Ne Il grande quaderno,
v’è un trionfo dell’immaginario che noi avvertiamo come nostro sentimento
nell’affrontare la realtà che ci circonda e che portiamo sulla scena.
Questa forza dell’immaginario si potrebbe chiamare amore?
Assolutamente, e qui l’amore è un fatto spietato, crudele, muscolare.
I gemelli amano moltissimo la madre che li ha lasciati alla nonna,
in un paese a loro sconosciuto, e il gesto di conservare lo scheletro
della madre dopo che il suo corpo è esploso, è un gesto d’amore.
Il periodo storico in cui vivono i due bambini è quello della Grande
Guerra, una guerra d’atto ma anche interna all’animo dei due che
per sopravvivere fanno esercizi di resistenza sentimentale, nel
senso più alto e meno retorico del termine. Per cui riescono ad
amare la nonna nella crudeltà della sua natura perché scoprono in
lei una fragilità e una verità umana.
Così come
fanno esplodere la legna nel camino della fantesca, sfregiandola
per la vita, perché aveva trattato con disprezzo coloro che erano
stati fatti prigionieri dai nazisti. Questa efferatezza da parte
dei bambini è un atto d’amore nei confronti dei deportati, di una
umanità che soffre, che è impotente, un’umanità violentata dalla
guerra.
Non crede che vi sia un amore forte anche per la propria terra nei
romanzi della Kristof?
Sì, infatti il nostro spettacolo termina con i due bambini che si
mettono in viaggio. Il loro essere esuli comincia scavalcando il
cadavere del padre che muore nella sua fuga verso il confine. A
questo punto i due gemelli si separano e inizia il loro vagabondare.
Questo aspetto ramingo che esiste in tutti i romanzi della Kristof
è uno dei temi forti del nostro spettacolo, l’amore per una terra
che si abbandona nella violenza e nella quale si desidera, prepotentemente,
tornare. Tutta la scenografia è fatta da cartelli di cartone, come
se ne vedono per strada, a Napoli; vagabondi sempre in ginocchio
su questi pezzi di cartone.
Quanto v’è di Napoli, dei suoi conflitti, della sua crudeltà, del
suo dolore, in questo spettacolo?
Noi siamo napoletani e dunque abbiamo cercato di avvicinare se non
addirittura di fondere la realtà partenopea a quella che la Kristof
descrive nei suoi scritti. Una drammaturgia viene costruita osservando
l’esistenza, questo è il mio punto di vista. Napoli è un corpo aperto,
attraversato da etnie e immigrazioni diverse, dolorose, sofferte;
ma v’è una dignità estrema nella miseria di molti degli immigrati
polacchi, ad esempio, che stanno in ginocchio sui marciapiedi di
Napoli, su un cartone, con in mano un cartello di cartone sul quale
c’è, in maniera tanto brechtiana, un’unica frase: ho fame, una richiesta dignitosa e ferma.
Ecco, su questa immagine ho costruito lo spettacolo. Ad un certo
punto le attrici evocano il suono degli scarponi dei militari nella
marcia dei deportati che avanzano, che sfilano dinanzi a loro, e
fanno da eco a questo suono pam-
pam- pam, e in tutto questo rumore emerge una voce, che è quella
di un povero che chiede l’elemosina a Napoli. Una voce che dice
in dialetto il pane a me;
questo pam degli stivali
diventa una richiesta di pane, di cibo. Ma queste inflessioni linguistiche
non costituiscono un’operazione
di colore o di immersione in un tessuto preciso; viviamo in questa
città e ci portiamo dentro le sfumature di Napoli.
Queste sfumature come sopravvivono in un’epoca, come quella attuale,
che tende ad annullare le differenze?
Credo che si possano solo coltivare delle minoranze intelligenti.
Il nostro teatro, per quanto riconosciuto, ha una posizione volutamente
minoritaria. Sicuramente non siamo nelle ipotesi di legge dei ministri,
né in alcun panorama maggioritario, proprio perché l’anima dei nostri
spettacoli si nutre della vita, dei lati nascosti, oscuri ma veri
dell’esistenza. E’ nelle pieghe dell’esistenza che stanno le cose
interessanti; in queste crediamo e su queste lavoriamo, anche per
superare questo disorientamento, questa minaccia così forti che
ci vengono dallo smarrimento delle differenze. Chi fa teatro deve
essere coinvolto in maniera profonda e totale, per far sì che il
teatro sia autentico, responsabile e soprattutto testimone del tempo
e della storia che gli appartiene.
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