Il desiderio di bruciare nel vento
Paola Casella
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Brucio nel vento, diretto da Silvio Soldini, scritto da Silvio
Soldini e Doriana Leondeff sulla base del romanzo "Ieri"
di Agota Kristof, con Ivan Franek e Barbara Lukesova
Brucio nel vento è un film europeo, come del resto sono
tutti i film di Silvio Soldini. E non ci riferiamo solo all'aspetto
geografico ed economico - Brucio nel vento è una
coproduzione italo-svizzera girata fra Praga e il cantone francese e
interpretata da attori cecoslovacchi (Ivan Franek e Barbara Lukesova)
- e nemmeno alla nazionalità del regista, che è milanese di
nascita ma svizzero di origine.

I film di Soldini sono europei per scelta, a
cominciare da quell'Aria serena dell'Ovest con il
quale il regista ha esordito sul grande schermo: ricordo di averlo
visto a una proiezione per la stampa presso il Lincoln Center di New
York, e di essere poi stata avvicinata dai colleghi americani che,
increduli, continuavano a chiedermi se davvero fosse un film
"italiano, girato in Italia".
Era girato sì in Italia, ma non nella provincia anni Quaranta alla
quale il pubblico americano è ormai assuefatto, bensì nella Milano
anni Ottanta, quella "vicina all'Europa" della quale
cantava Lucio Dalla, una metropoli efficiente e cosmopolita dove
coppie quasi bergmaniane facevano colazione con muesli e yogurt
invece che con cappuccio e cornetto, e dove gli ospedali, i parchi,
persino i cavalcavia sembravano usciti da Monaco, o Zurigo, o
Bruxelles.
Era europea, e riluttantemente cosmopolita, anche la Milano di Un'anima
divisa in due, il secondo film di Soldini, dove un milanese doc
(Fabrizio Bentivoglio, già protagonista de L'aria serena
dell'Ovest) si innamorava di una ragazza rom. Qui per la prima
volta veniva esplicitato il tema dell'estraneità, ovvero del
sentirsi stranieri, che già aveva fatto capolino in L'aria
serena dell'Ovest - anche se lì si parlava soprattutto di
straniamento, di cittadini che non riconoscono più la propria
città, né i propri concittadini, né se stessi - e che è uno dei leit
motiv della filmografia del regista.
Un altro è il tema dello spostamento, uno spostamento spesso fisico
(di solito con i mezzi pubblici: l'autobus, il pullman, il treno, la
metropolitana) che è un movimento di ricerca non direzionale, anzi,
solito a procedere per derive, ma direzionato da un'inquietudine
interiore, da una necessità interna che, sembra dire Soldini, va
sempre ascoltata, sempre assecondata, nonostante lo scompiglio e lo
smarrimento che comporta.
Così le due protagoniste de Le acrobate (il terzo film di
Soldini), una proveniente dal sud, l'altra dal nord Italia,
affrontano insieme un viaggio di ricerca (in treno) che le porterà
verso le montagne, cioé più in alto, dove l'aria è più limpida e
le immagini diventano più nitide. Così Rosalba, la casalinga di Pane
e tulipani (il grande successo di Soldini, vincitore di David di
Donatello e Nastro d'Argento), scende da un pullman in gita
turistica, viene dimenticata in un'autogrill (non-luogo per
eccellenza) e prende il primo treno per il Nord, per fermarsi a
Venezia, città allo stesso tempo italianissima e universale: un
luogo senza tempo, come senza tempo sono tutte le città dei film di
Soldini, volutamente irriconoscibili o, come nel caso della Venezia
di Pane e tulipani, riconoscibili come quinte teatrali,
contro le quali la vicenda si staglia con maggiore efficacia
narrativa. E non è un caso che Rosalba si innamorasse di un
islandese che parlava l'italiano dell'Ariosto, rinnovando il
significato di ogni parola semplicemente attraverso una pronuncia e
una costruzione grammaticale destrutturata e riassemblata, più
ancora che desueta.
Anche la mitteleuropa nella quale è ambientato Brucio nel vento,
l'ultimo film di Soldini, è un luogo senza tempo e senza identità,
come senza identità è il paese dell'Europa dell'est dal quale
proviene il protagonista della storia, Tobias (Franek), un paese che
la scrittrice ungherese (espatriata in Svizzera) Agota Kristof
descrive nel romanzo breve Ieri, sul quale è basato
Brucio nel vento, come "una nazione senza importanza".
E senza importanza è il nome del paese svizzero dove Tobias emigra,
cambiando lui stesso nome, per sfuggire a un'identità che
presuppone un destino tragico.
Tobias fugge da un passato disastrato: figlio della puttana del
paese, scopre che suo padre, Dalibor (del quale poi assumerà il
nome), è il maestro della scuola elementare locale, quella che lui
frequenta da studente. Tobias scopre anche che la sua compagna di
banco, Caroline detta Line (nome che scopriremo essere variamente
scindibile, a indicare separate identità, come il nome della
Ceco-slovacchia, dalla quale provengono entrambi gli interpreti), è
figlia del maestro e della sua legittima moglie: questo,
soprattutto, farà sì che Tobias sviluppi verso la bambina un
sentimento di odio-amore così forte da condizionare il resto della
sua vita, che verrà spesa (o bruciata, come dice il titolo del
film) alla ricerca di Line, ovvero della propria metà perduta.

Non vi riveleremo altro sulla trama, anche se la
storia, pur con le sue connotazioni melodrammatiche (anzi, da vera e
propria tragedia greca), non si esplica tanto attraverso le azioni
dei protagonisti, che sono brevi, concitate e spesso fuorvianti -
per noi spettatori come per chi le perpetra - quanto attraverso il
tono con il quale la vicenda è raccontata, sia nel romanzo della
Kristof che nel film di Soldini.
Così come la scrittura dell'autrice era scarna, dura, tagliente,
refrattaria a qualsiasi imbellimento di una realtà percepita come
spietata e inesorabile - perché è così che la vede Tobias, fin da
bambino - la regia di Soldini è sobria, essenziale, contenuta,
anche se l'istinto verso la bellezza estetica del regista è
talmente insopprimibile da fargli trasformare persino lo squallido
appartamentino di Tobias in un ambiente attraente. (A questo
proposito è doveroso un inciso sulla scelta degli attori, a mio
parere azzeccatissima anche dal punto di vista dell'aspetto: giusto
è che Tobias, che percepisce se stesso come ripugnante - e così
era anche nel romanzo - sia al contrario obbiettivamente attraente,
come giusto è che la sua donna ideale, che Tobias vede
soggettivamente come irresistibile, ci appaia invece quasi
bruttina).
Sia la Kristof che Soldini mantengono un registro poetico che eleva
la storia al di sopra della "bruttura" degli eventi che
racconta e dello squallore delle circostanze del protagonista. Per
Tobias l'unica levità deriva dallo scrivere, in una prosa poetica
che Soldini fa leggere ad alta voce al protagonista nel corso del
film, a dimostrazione di quanto elevato sia il suo talento e quanto
"alta" sia la sua sensibilità, in contrasto, anzi, in
misura inversamente proporzionale alla "bassezza" della
sua situazione.
Tuttavia nessuna parola, nemmeno quelle strazianti e bellissime
scritte dalla Kristof e lette da Tobias, ha priorità sull'immagine
in Brucio nel vento: un film, sembra ribadire Soldini, deve
rimanere appunto "un racconto per immagini", e ripensando
a molta cinematografia italiana recente, dove il dialogo da tinello
o la gag da cabaret sostituivano la ricerca di una efficace
narrazione visiva, quella del regista diventa un'affermazione
coraggiosa. Chi ha trovato Brucio nel vento eccessivamente
verboso e letterario probabilmente non si è accorto che il
profluvio di parole, spesso declamato da quella voce fuori campo che
sta diventando una brutta abitudine del cinema italiano (vedi Luce
dei miei occhi di Piccioni), rimane comunque in stato di
sudditanza rispetto alle immagini (come in parte accadeva anche in Luce
dei miei occhi, solo che lì la voce fuori campo era molto più
invadente e il testo non era scritto dalla mano della Kristof).
Soldini ha lamentato la necessità di dover doppiare per l'uscita
italiana il suo film, che è stato girato nel cecoslovacco dei due
interpreti principali e nel francese di alcune scene girate in
Svizzera, e che attualmente viene proiettato in versione originale
sottotitolata solo in due sale italiane, l'Anteo di Lionello Cerri (copoduttore
del film con la sua Albachiara) a Milano e il Nuovo Sacher di Nanni
Moretti a Roma. Il regista ha anche ricordato che, mentre girava il
film, pur non capendo una parola di cecoslovacco, riusciva a
rendersi conto dall'intonazione delle frasi pronunciate dai suoi
attori se erano riusciti a comunicare il senso delle loro battute.
In realtà Brucio nel vento potrebbe essere un film muto,
perché le immagini, la cui composizione è attenta fino alla
maniacalità (basti notare certe inquadrature in casa di Tobias,
dove non c'è un frutto, un posacenere, che non abbia la sua ragione
d'essere all'interno del - è ilcaso di dirlo - quadro), sono di per
sé sufficienti, e scorrono (soprattutto nel caso delle
numerosissime trasferte in autobus, il non-luogo che diventa per i
due protagonisti la zona franca del loro amore) più veloci, più
incisive, più dolorose delle parole e dei fatti: non è un caso
che, verso la fine, il ritmo delle immagini acceleri improvvisamente
e il dialogo diminuisca, quando la vita prende il sopravvento sul
controllo razionale che i protagonisti tentano di esercitare su di
essa, anche attraverso la parola.

La lingua, casomai, diventa una metafora per
l'incapacità di comunicare che esiste fra abitanti di paesi
diversi, ma anche fra conterranei: gli emigrati di Brucio nel
vento, che si stringono l'un l'altro per farsi coraggio nella
fredda e impersonale Svizzera, non si capiscono, o peggio, si
fraintendono continuamente. Ciò che credono li accomuni in realtà
evidenzia le loro diversità. La loro solitudine individuale, resa
già manifesta dal sapersi estranei in un paese straniero, è ancora
più crudelmente sottolineata dalla scoperta di non avere nulla in
comune nemmeno con chi, in teoria, parla la stessa lingua.
La difficoltà a comunicare, e prima ancora a definire, la propria
identità è un tema chiave sia di Ieri che di Brucio nel
vento. "Nessuno di noi potrebbe mai assemblare un orologio
completo", fa dire Soldini a Tobias del suo lavoro alla catena
di montaggio presso una fabbrica di orologi (lo stesso lavoro
parziale e incompleto che ha quasi fatto perdere il senno alla
Kristof quando, esule dalla città di Kzegue, si è rifugiata in
Svizzera).
Esiste però una differenza fondamentale fra il romanzo della
Kristof e il film di Soldini, quella che ha sconcertato i fan della
scrittrice, e che è interamente contenuta nel finale di Brucio
nel vento, un tradimento - volontario e clamoroso - rispetto al
finale di Ieri. Giusto, dunque - soprattutto per una storia
che da molta importanza ai nomi con i quali scegliamo di chiamare
cose e persone - l'aver affidato alle due opere due titoli non solo
diversi, ma antitetici. Se nel titolo Ieri era infatti
contenuta l'essenza di una storia di rassegnazione e di struggente
nostalgia per ciò che non era stato, un post mortem per i
sogni accantonati e le speranze perdute, Brucio nel vento
suona come un orgoglioso proclama esistenziale: mi abbandono alla
passione, lascio che siano il vento e il fuoco a possedermi, anche
se questo significa che mi consumerò fino all'annullamento.
Se la poetica della Kristof è quella del dolore e del senso di
impotenza nel ritenerci meritevoli di amore e invece dover prendere
atto che l'amore, a noi, non è concesso, l'evoluzione della poetica
di Soldini va da quella stessa impossibilità di amare e essere
amati, dall'incomunicabilità intrinseca nei rapporti umani (L'aria
serena dell'Ovest, Un'anima divisa in due), all'ottimismo
della volontà che consente di costruire un ponte verso un altro
individuo (Le acrobate) o di abbandonarsi a una favola
romantica (Pane e tulipani).
Ieri era la storia di un disfatta, della quale il lettore,
come il protagonista, prendeva definitivo atto solo attraverso
l'ultima frase del romanzo, e in quel momento ci si rendeva conto
che il libro andava letto a rovescio, cominciando da quella frase,
perché tutto ciò che il protagonista narrava in tempo presente si
era in realtà svolto Ieri.
Brucio nel vento è invece la storia di una vittoria, quella
della volontà del protagonista di non soccombere agli eventi, di
non lasciarsi sconfiggere dai limiti imposti, anche quelli per così
dire strutturali. Quanto questo sia verosimile, soprattutto in coda
a un film che ha fatto del realismo più spietato la sua cifra
espressiva, lo dirà il pubblico, più ancora che la critica.
Forse il finale di Brucio nel vento non va preso alla
lettera, ma interpretato come una delle tante visioni di Tobias, uno
dei suoi sogni ad occhi aperti - tantopiù che il finale di Soldini
segue una serie di sequenze oniriche deliranti ed è collocato
direttamente, senza soluzione di continuità, dopo la
ricostruzione filmica del finale scritto dalla Kristof, in una
sequenza che vede Tobias seduto sul letto, al risveglio dal sonno.
Ciò che comunque resta - nell'immaginario, nel subconscio - tanto
di Ieri quanto di Brucio nel vento è proprio la
capacità visionaria di certe immagini surreali che contrastano la
generale sobrietà del racconto e che funzionano per contrasto:
tanto più Tobias nega a se stesso la possibilità di sognare, tanto
più essa riemerge prepotentemente attraverso la scrittura (nel
libro) o l'immagine (nel film). E' una scelta filosofica, più
ancora che artistica, quella di stabilire poi se, per questo, Tobias
debba essere punito o salvato.
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