Lo spettro della guerra
postmoderna
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Abbiamo visto, in questi giorni, tante immagini. E abbiamo letto
tanti commenti e interpretazioni. I punti fermi alla fine, a mio
modo di vedere, sono pochi. Ne enuclerei sostanzialmente due: l’attacco
alle Torri Gemelle di Manhattan è forse il primo eclatante episodio
di un nuovo tipo di guerra (new war), che io chiamerei la
guerra postmoderna; l’Occidente, o ciò che approssimativamente
chiamiamo tale, si è trovato sprovvisto di armi concettuali e
pratiche atte ad affrontare questo nuovo tipo di guerra.
L’attentato di New York è, per vari motivi, qualcosa di più di
un tradizionale atto terroristico. Ma è pure, da un altro punto di
vista, qualcosa di meno, o meglio qualcosa di diverso, da una
guerra, o almeno dalla guerra come siamo abituati a concepirla.
Rispetto ai tradizionali atti terroristici, quello dell’11
settembre presenta caratteristiche nuove. Ha destato meraviglia il
fatto che i terroristi abbiano dimostrato una profonda maestria nell’utilizzo
delle più sofisticate possibilità offerte dal progresso
occidentale (possibilità tecniche, economico-finanziarie, di
comunicazione mediatica). Ma è secondo me importante sottolineare
anche il fatto che, almeno fino a oggi, sia mancata, da parte dei
terroristi, una formale rivendicazione dell’attentato; che anzi i
talebani abbiano detto: “All’America ben gli sta, ma non siamo
stati noi”.

La strategia di chi ha colpito è quella di
seminare panico, di diffondere paura, di generare incertezza. Di
trasmettere un messaggio ambiguità: un messaggio insieme di
lontananza (“siamo diversissimi da voi”), ma anche di vicinanza
(“siamo fra voi, stiamo assediando la vostra cittadella che
nonostante tutta la vostra potenza non è affatto così sicura come
credevate” ).
I terroristi uniscono l’estremamente arcaico di un’interpretazione
quasi “rurale” della religione con l’estremamente
contemporaneo del sapersi muovere con destrezza fra i nostri più
raffinati e sofisticati strumenti. D’altronde il postmoderno è
proprio questo: la capacità di muoversi fra vecchio e nuovissimo,
fra locale e globale, fra misticismo e razionalismo astratto.
Le domande che ora sorgono sono tutte inquietanti: ammesso e non
concesso che Bin Laden sia l’unico mandante dell’operazione,
quanti Bin Laden potenziali o reali, quanti Stati e quante
organizzazioni intra e interstatali, possono presto agire con uguale
impeto e forza? E il fatto stesso che l’impensabile sia accaduto
non allarga per ciò stesso lo spettro delle possibilità? E come
può l’America colpire un nemico che, anche se distrutto, può
riemergere come un araba fenice (nomen omen) in un altro
posto; che, come è stato detto, non è solo altro da noi ma anche
fra noi (studia nelle nostre università, fa affari con noi, conosce
meglio di noi le tecniche della comunicazione simbolica e politica)?
E un eventuale attacco all’Afghanistan come può essere di esempio
se in molti non temono, anzi cercano, la propria morte e la morte
della gente comune?
Si consideri a tal proposito un fatto: se la morte dei civili era
nelle guerre antiche rara; se poi nel “secolo breve” è
diventata un semplice “effetto collaterale”, detestabile ma
comunque da mettere in conto; ora, nella nuova guerra, nella guerra
del nuovo secolo, i civili sono di proposito l’obiettivo che si
vuole colpire. E perciò, come a New York, si colpisce dove ( come
nei grattacieli ) ve ne sono di più. Noto en passant: un
misticismo religioso così radicale non è poi tanto lontano dal
nichilismo cinico di tanti giovani occidentali, di tanti gruppi da
“arancia meccanica” che per noia o indifferenza, senza un
motivo, uccidono.
Cosa fare? Come agire? Quali alleanze deve cercare chi finora ha
creduto nella ragione e nel liberalismo e vuole continuare a
credervi anche nella postmodernità?
Per agire, secondo me, dobbiamo iniziare a capire. Comincio con l’osservare,
a tal proposito, che una volta tanto Berlusconi ha ragione (d’altronde
non c’è da preoccuparsi nel dare ragione al Cavaliere: i leader
politici tutto sommato contano poco e passano, mentre i valori
rimangono). La civiltà occidentale è superiore alle altre: non
diversa, ma superiore. Solo se anche noi di sinistra avremo il
coraggio di dire ciò, di dirlo a voce alta, avremo un futuro.
Capiamoci. L’Occidente ha commesso e commette non solo tanti
errori, come qualsiasi individuo o aggregato di individui, ma ha
commesso e commette continuamente nefandezze e porcherie. Ma il
problema è un altro. In certi casi, se si vuole comprendere a fondo
qualcosa, bisogna tenere rigorosamente distinto l'ambito empirico da
quello ideale. E, sul terreno ideale, l’Occidente, ripetiamolo, è
superiore. Il suo principio è infatti etico: l’Occidente promuove
sempre in primo luogo il dialogo, il confronto, la soluzione
ragionata, persino l’onorevole compromesso. Di fronte all’altro
da sé l’Occidente inteso come concetto ideale non si pone mai,
all’inizio, di petto, ma sfodera subito le armi della critica e
dell’argomentazione. Dal diverso trae fuori tutto quanto è
accettabile e condivisibile e lo metabolizza. Trasforma l’altro e
ne è trasformato.
L’Occidente non è un’ipostasi, non è nulla di statico, non è
un insieme fisso di valori. E’ piuttosto un insieme di valori in
continua trasformazione. Ma di valori appunto si tratta. Ha ragione
Panebianco ahimè (anche questa volta bisogna dar ragione a chi
spesso non ci convince). Il nemico dell’Occidente è il
relativismo, cioè un modo falso di intendere i suoi valori. Che
sono valori forti e che vanno fortemente difesi, anche se sono i
valori del pluralismo, della tolleranza, della democrazia. L’Occidente
non può porsi in modo paritario verso il suo contrario né verso
chi ritiene che tutto sia uguale, la democrazia come la dittatura. L’Occidente
offre spazio al diverso, il suo contrario lo demonizza. Per poter
continuare a dare spazio al diverso l’Occidente deve perciò
combattere il suo contrario.

D’altronde, il fatto stesso che tanti
antioccidentali a buon mercato siano fra gli abitanti dell’Occidente,
soprattutto fra i giovani, è un segno della sua forza: l’Occidente
dà così tanto spazio alla critica da permettere che persino i
superficiali e gli irriflessivi dicano la loro. Sarebbe però
auspicabile che almeno le élites intellettuali abbandonino
una volta tanto la facile strada del “politicamente corretto”, e
che comincino a ragionare senza atavici preconcetti. Nell’arte del
capire, cioè nella messa in opera della sua essenza più profonda,
consiste l’unico contributo che l’Occidente può dare in questo
momento.
Il sapere può dare un importante contributo alla battaglia che
tutti combattiamo, e va da tutti accuratamente coltivato. Ancora una
volta è però essenziale che siano i chierici a dare l’esempio e
a non tradire.
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