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Serve ancora una sinistra?



Giuliano Amato




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Serve una sinistra di fronte ai problemi che la politica deve fronteggiare nel XXI secolo? E’ questo il tema dal quale partire per trovare una risposta positiva.

Guardiamo al dibattito sulla globalizzazione. Qui c’è un problema di fondo vero, e cioè la sensazione che fatti importantissimi per la vita degli uomini e delle donne accadono ad un livello irraggiungibile ed hanno una gestione, se l’hanno, dalla quale i cittadini comuni si sentono esclusi. Il problema climatico, ad esempio, non è più una questione che riguarda soltanto l’ambientalista profetico, ma è un problema di tutti di cui ciascuno avverte gli effetti negativi.

Allo stesso tempo, però, per governarlo e contrastarlo, occorre una politica che non può più essere soltanto locale, di una città o di una regione, né di uno stato: come minimo è necessaria la politica europea. Il clima, i cibi transgenici, i flussi di immigrazione, sono tutti problemi che riguardano la vita di ciascuno e la cui gestione sembra necessitare di quello che si chiama governo mondiale e che appare a volte del tutto carente, a volte parziale e partigiano.

Alcune organizzazioni, come le Ngo, si fanno portatrici di una pretesa che sembra assurda ed eppure ha un suo fondamento. “Noi rappresentiamo più di voi che siete eletti, dicono agli organi della politica, forti della consapevolezza che la voce dei più non riesce a penetrare nei canali decisionali delle istituzioni, nei quali invece entrano gli interessi cosiddetti forti. Le Organizzazioni Non Governative si fanno rappresentative delle genti negli spazi ai quali queste non hanno accesso.

Ed ecco quindi la grande e difficilissima sfida a cui è chiamata oggi la politica. Da una parte imprimere la sua impronta di governo su processi a volte addirittura globali, dall’altra però mantenere il contatto con milioni di esseri umani che sentono il bisogno di essere coinvolti nelle decisioni che li riguardano ma oggi ne rimangono esclusi. Da una parte quindi la politica deve riuscire a governare a livelli sopranazionali e deve essere perciò in grado di dare vita a grandi aggregazioni; dall’altra le si chiede di rimanere legata, non con la massa, ma con ciascuno di coloro che aggrega.

Se la nostra epoca ha saputo infatti unificare realtà diverse fino a sollevare problemi di governo sovranazionale, allo stesso tempo ha fatto emergere da società prima compatte, anonime e aggregate in grandi insiemi collettivi, milioni e milioni di persone che pretendono ciascuna di essere partecipe e garantita nei suoi spazi di libertà. Noi viviamo in un mondo dove l’estensione delle libertà, il mutamento delle tecnologie dei processi produttivi che hanno sostituito mansioni esecutive con mansioni di controllo, la diffusione della cultura e dell’istruzione, ci mettono davanti a persone che chiedono e vogliono esistere nel presente, essere libere di scegliere; come ha detto qualcuno non appartenente alla tradizione liberal-socialista ma piuttosto all'eredità comunista, gli individui sentono il bisogno di trasformare le “libertà da” in “libertà di”, cioè non vogliono più essere sottoposti ad angeli custodi per essere liberi, ma scegliere la propria strada verso il soddisfacimento dei bisogni essenziali.

Questo è il mondo con il quale abbiamo a che fare, un mondo nel quale la scorciatoia del populismo rischia di essere incentivata perché è la strada più semplice per aggregare ad ampi livelli dando la sensazione di parlare a ciascuno. I leader populisti hanno davanti milioni di persone che non vedono, nascosti in genere dietro la telecamera, e danno la sensazione di parlare a ciascuno; così nasce il successo dei cantanti rock le cui canzoni sono ascoltate da numerosissimi giovani che hanno la sensazione che ogni brano si rivolga a ciascuno di loro; ma se in musica è una splendida cosa, in politica diventa populismo.

Chiediamoci allora se la sinistra serve a governare una società del genere e se ne è capace. Di sicuro non serve nell’assetto frammentato e diviso con cui si presenta oggi in Italia. C’è un abisso incolmabile fra la dimensione richiesta per incidere sui problemi che ho ricordato e partiti che lottano per superare clausole di sbarramento ed ottenere la dignità di un gruppo parlamentare. Ma c’è chi pensa che la sinistra sia comunque inservibile, perché - si dice - la sua storia è storia della progettazione del futuro, la sua qualità organizzativa è quella di aggregare nel presente in nome di una promessa millenaria dell’avvenire.

E' vero, c’è molto di questo nella storia della sinistra ed è anche vero che quello che oggi si deve fare non è promettere futuro, ma concorrere a realizzare il presente; non imporre una disciplina oggi in nome di una liberazione domani, ma consentire e promuovere la realizzazione di libertà presenti; saper trattare insomma con quei milioni di persone che queste libertà vogliono esercitarle e pretendono quindi di essere organizzate come esseri liberi e non come un gregge da liberare in futuro.

Non c’è dubbio che per fare questo molte cose a sinistra debbano cambiare. è indiscutibile, ad esempio, che oggi noi siamo in difficoltà di fronte ad un mondo del lavoro del quale sappiamo ripetere che non è più nell’era del fordismo, non è più caratterizzato da una organizzazione tayloristica del lavoro, ma del quale non siamo ancora riusciti a interpretare le esigenze. I lavoratori professionalizzati ed individualizzati chiedono di avere spazi di autonomia ed avvertono come autoritario il sistema del lavoro ereditato dal taylorismo, perché le loro mansioni non sono più spezzettate ma sono affidate al loro cervello, alla loro autorganizzazione. Queste persone ci sono sfuggite, non abbiamo saputo rappresentarle. Di questa nuova società non siamo stati sufficienti interpreti, tutta la sinistra - nessuno si può chiamare fuori - è rimasta ai margini del cambiamento.

Tutto questo è sicuramente vero, ma non cancella il senso profondo del nostro patrimonio e ci impone caso mai di adeguarlo ai nuovi tempi. Il grande discrimine tra la destra e la sinistra non è mai stato nel valore assegnato alla libertà, ma nella differenza fra libertà dei pochi e libertà dei tanti, nella sensibilità al rischio che la libertà dei pochi diventi potere a cui i tanti dovranno soggiacere. La differenza perciò non è mai stata nell’idea che gli esseri umani debbano scegliere e realizzarsi, ma nel preoccuparsi o meno dei presupposti perché possano farlo anche coloro che in assenza di ciò sono soggetti al potere altrui.

Il vizio della sinistra, tanto socialista che comunista, è di aver pensato e realizzato soluzioni che guardavano quasi esclusivamente al potere pubblico come modo per tarpare il potere privato e non invece alla interazione delle libertà, come se noi, per tutelare i diritti di coloro che vogliamo rappresentare, dovessimo comunque porre dei limiti alle libertà, quasi che le libertà fossero quindi un bene di altri. La strada statalista e pubblicista che fu imboccata nel novecento per realizzare i nostri valori ha un’ombra lunga che ci danneggia ancora oggi.

E il centrodestra ha giocato contro di noi una carta vincente facendoci apparire come quelli che, in un tempo di libertà, si sono solo preoccupati di porre dei limiti. Toccava a noi far capire che non si trattava di arginare la libertà, ma di limitare il potere, mettendo in campo il più possibile non lo Stato, ma la libertà degli altri. Non lo abbiamo fatto abbastanza, forse più per prudenza politica verso i poteri organizzati che per convinzione.

La verità è che la libertà e tutto ciò che ha dentro di sé, tutti programmi politici che su di essa si possono costruire, possono essere di destra o di sinistra e la differenza è enorme. E il mondo di oggi ha bisogno della libertà di sinistra, che è quella dei milioni di individui, mentre la libertà di destra è quella che diventa potere di pochi ed accentua, anziché ridurre, l’esclusione sociale. Oggi i rischi di esclusione sociale sono ingigantiti in misura direttamente proporzionale ai processi di globalizzazione, e il compito primigenio del riformismo, che fu quello di garantire e costruire la coesione sociale attraverso la civilizzazione dei processi economici, si fa ancora più impellente in questi nuovi orizzonti.

E qui emerge un’altra differenza tra destra e sinistra, nell’atteggiamento di stomaco che uno ha davanti alla globalizzazione: è di sinistra chi è consapevole certo dei benefici attuali e potenziali della globalizzazione, ma avverte l’angoscia di un rischio grave se non la si governa. Mentre chi è soltanto ottimista verso il mondo che cambia è di destra, perché le tendenze naturali non sono di per sé espansive della libertà. Neppur qui -sia chiaro- la soluzione è nello statalizzare il mondo e limitare le libertà. C’è un forte bisogno di governo e di regole, ma la finalità deve essere quella di espanderle le libertà, di creare interazione, di costruire tessuti di responsabilità verso se stessi e verso gli altri, confidando nella possibile maturazione in ciascuno di un tale sentimento di responsabilità. Gramsci, se fosse nato settanta anni dopo, non avrebbe fondato un partito affidato a filosofi destinati a pensare per gli analfabeti, ma avrebbe preso atto che gli analfabeti non ci sono più e presumibilmente si sarebbe fidato delle persone e delle loro potenzialità.

Non tutti sono interessati, come noi, alla libertà di tutti. Ma tutti sono interessati ad evitare che le società del nostro tempo scivolino nelle fratture sociali e quindi nella violenza e nei conservatorismi protezionistici che possono venirne. Ebbene, l’antidoto a tutto questo è nella coesione sociale che noi abbiamo dimostrato di saper costruire e che ancora, aggiornandoci, solo noi possiamo costruire.

E allora apriamoci al futuro, rendiamoci disponibili alle sue esigenze. La prima cosa per farlo è unirci. Unire la sinistra è un prerequisito alla soluzione del problema, non è la soluzione. Una forza politica che si presenta frammentata non può comunque riuscire ad avere un impatto efficace su un universo in espansione come quello in cui ci troviamo. La sinistra è oggi formata da frammenti politici che hanno il merito di aver preservato tradizioni, storie, significati, ma ora queste storie, tradizioni e significati entrano nel XXI secolo e se vogliono concorrere a risolverne i problemi devono allontanarsi dalle discriminanti del secolo precedente, oppure sono condannate all’inutilità. Non si tratta di sradicare le tradizioni dei partiti che fanno parte della sinistra, ma di ripulire il sottobosco che ha aggrovigliato i loro rapporti reciproci, perché nel futuro quel sottobosco non ha più rilevanza. Né la ripulitura del sottobosco porta ad una temuta quanto improbabile omologazione. Una grande sinistra non è fatta di teste clonate, ma di teste che riconoscono una missione comune, una massa critica minima necessaria ad avere un impatto sulla politica e che sono disposte per questo a comporre le loro differenze all’interno di un unico contenitore politico.

La molteplicità è del resto un aspetto essenziale della sinistra e della sua tradizione, che non è fatta soltanto di valori e fini, ma anche di realtà organizzate, che sono essenziali per mantenere una rete tra gli esseri umani senza prendere la scorciatoia del populismo. Sindacato, cooperazione e movimenti associativi sono un patrimonio che da decenni è parte della sinistra, una parte che va coinvolta e ravvivata.

Recentemente si è scritto che chi si propone di ricostituire una grande forza legata al socialismo, si propone una cosa vecchia. Chi scrive questo dimentica che l’Europa di sinistra o di centrosinistra è larghissimamente socialista: milioni di persone votano per partiti socialisti ed esiste un partito socialista europeo che rappresenta questa larga maggioranza di cittadini europei. Non solo, quindi, il movimento socialista è vivo e vitale, ma se la nostra politica deve aver peso in Europa, un centrosinistra italiano che voglia avere quel peso deve passare attraverso il cordone ombelicale che c’è tra i partiti della sinistra e la grande famiglia del centrosinistra europeo, la famiglia cioè dei partiti socialisti.

Qui certo si pone un problema, che ci viene ricordato ogni volta che dal centro dell’Ulivo si afferma : “Io non sono e non voglio morire socialista”. E’ un problema che dovrà essere risolto. Per un verso, toccherà al Partito socialista europeo darsi una piattaforma ed una fisionomia che siano tali da accogliere senza stridore le tradizioni del riformismo democratico e popolare che noi abbiamo nella nostra coalizione. Per altro verso, dobbiamo essere in grado di vivere in Italia il rinvigorimento della sinistra come parte di un processo di integrazione e di interazione con le altre visioni riformiste che fanno parte dell’Ulivo e che hanno storia e potenziale di pari importanza e dignità. Non dobbiamo avere atteggiamenti preclusivi o, come si diceva una volta, egemoni, perché la storia del riformismo italiano è storia che mette insieme, collega, allea ed a volte intreccia tre filoni fondamentali: il filone socialista, in tutte le sue famiglie, il filone laico-democratico (a cui, più che ad altri, ha finito più spesso per collegarsi il movimento ambientalista) ed il filone cattolico-popolare. Sono tre storie che fanno parte di una stessa storia; ciascuna ha avuto maggiore o minore spazio, ha avuto maggiori o minori devianze, ma sono esse i pilastri del nostro futuro. L’unione dei quattro partiti che formano la sinistra dell’Ulivo è dunque una pregiudiziale per far politica e anche per compiere poi passi ulteriori verso una crescente integrazione della nostra coalizione.

Io ho provato a promuovere un processo di comitati di base nei quali si uniscano tra di loro giovani generazioni di dirigenti di partiti della sinistra e altre persone che sono interessate a questo progetto pur non facendo parte degli stessi partiti. I comitati dovrebbero funzionare da scuola di integrazione reciproca e da lobby per un processo unificante, senza mettere in discussione, dove ci sono, le presenti lealtˆ partitiche. Al di là del congresso dei Ds, e non all’interno di esso, il processo dovrebbe poi avere il suo approdo ed essere inteso da tutti come una tappa nel generale rafforzamento dell’Ulivo. Ho trovato apprezzamento per questa iniziativa e pronti e operativi riscontri in più parti d’Italia. E’ del resto lo spirito che ha rimesso in piedi l’Ulivo in campagna elettorale quello a cui ho fatto appello e che cerca per parte sua occasioni e sollecitazioni per non andare disperso. Con esso si procederà parallelamente al Congresso DS, ma certo l’andamento e la conclusione di questo saranno di grande importanza in vista dell’auspicato approdo successivo. Non credo di permettermi interferenze non consentite, se sottolineo due esigenze: la prima è che il Congresso sia dibattuto e vissuto non contro qualcuno, ma per una prospettiva politica di apertura. La seconda è che si concluda in modo coerente con tale prospettiva e quindi lanciando un ponte verso di essa, senza dare al partito assetti chiusi e definitivi. Se all’interno dei Ds si pensa che per una grande sinistra in un Ulivo più forte è necessario allargarsi ed unirsi a coloro che sono in parte diversi ma per il futuro partecipi dello stesso progetto, allora è sbagliato chiudersi in un partito nel quale gli altri possano essere soltanto cooptati.

Per quanto mi riguarda, io definirò il mio impegno politico in funzione del successo di questa operazione. Se dovesse fallire, l’alternativa sarebbe rappresentata soltanto dalla possibilità di essere cooptati in una delle botteghe esistenti ed io non sarei interessato a lavorare in questa situazione, che così come è non serve a risolvere i problemi del domani. Se invece le cose vanno bene, io per primo sono pronto a mantenere e solidificare il mio impegno. Chi lo condivide, in qualunque partito o punto dell’Ulivo militi o lavori, ha tante ragioni per pensarci e per collaborare all’idea.


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