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Metamorfosi della seduzione



Luciano Curreri con Tina Cosmai



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Le emozioni costituiscono sempre un territorio controverso e conflittuale, dove romanzieri, poeti, saggisti, filosofi, mettono a dura prova il loro sentire profondo. E’ una sfida con il proprio io quella di parlare e scrivere di emozioni, riconoscerle, contattarle e, necessariamente, contemplare quel “contenitore” di passioni che è il nostro corpo, epifania carnale ai cui confini fluiscono le emozioni e le esperienze più intense, come quella della vita e della morte.

Ma parlare del corpo in maniera asettica non ha senso, perché una riflessione nasce sempre da un’esperienza, da un desiderio di comprensione e di rinnovamento del pensiero; anche una riflessione nasce da un’emozione. Così Luciano Curreri, critico letterario torinese, affronta la sua riflessione sul corpo femminile nella letteratura del XIX secolo partendo da un’idea di rinnovamento nella considerazione del potere seduttivo del corpo.

“L’idea del saggio sul corpo” dichiara Curreri “è nata in contrapposizione a una ricerca che nei primi anni ’90 mi si presentava troppo astratta, troppo intellettuale. Il pensiero di ancorarmi ad un dato come quello corporeo, non mi sembrò affatto banale anzi, lo considerai un punto di partenza privilegiato, necessario per sottrarmi a discussioni eccessivamente filosofiche. I testi, i romanzi di fine Ottocento, parlano soprattutto del corpo della donna, non soltanto esaltandone la funzione primaria, che è quella della maternità, ma rilevandone una connotazione seduttiva che si manifesta attraverso la malattia”.

Il saggio di cui Curreri parla (vedi articoli collegati) è apparso nel 1992 sulla rivista di critica letteraria Otto/Novecento e farà parte, insieme ad altre sue riflessioni, dell’opera Metamorfosi della seduzione, prossimamente in uscita per Bulzoni Editore.

“Sono partito dalle malattie più diffuse” continua Curreri “quelle letali, come la tisi, e in seguito la follia, l’isteria, per capire quanto di vero e quanto di romanzesco c’era nelle rappresentazioni di queste malattie in relazione al dato femminile, alla seduzione, e sconfiggendo così l’immagine di donna astratta, ideale, fatale appunto. Tutti attributi un po’ riciclati dalla cultura occidentale tra Ottocento e Novecento, passando poi dalla letteratura al cinema. Ma la mia idea era quella di ancorarmi a qualcosa di concreto e il corpo, con le sue patologie più o meno esplicite, mi dava la possibilità di trovare una nuova strada per descrivere la donna e la sua identità.

Lei riflette su un corpo malato e trasparente. Che relazione c’è tra la malattia e la trasparenza?

L’idea del corpo trasparente è legata al graduale e inesorabile sorpasso della vita, la morte appunto.Volevo affrontare il discorso da un punto di vista universale, dove maschile e femminile si toccano. Infatti parlo non solo di donne, ma anche di uomini in preda ai furori della nevrosi, oppure malati di tisi. La mia intenzione era quella di liberare l’idea della morte dall’eccessiva sensazione di lutto che essa reca in sé. La malattia, guidando il corpo verso la morte, lo rende meno pesante, lo sgrava della sua materialità, anche della sua specificità sessuale, rendendolo virginale, assoluto, ideale, etereo. La trasparenza è un vedere oltre il corpo e dunque è passionalità come sinonimo di infinito.

Lei però parla anche di opacità del corpo…

Certamente, un’opacità dettata dalla cultura dell’epoca, perché la passività della donna era una norma. Una donna legata alla concretezza della sua realtà femminile veniva respinta ai margini della vita sociale e additata come prostituta o delinquente. Nel momento in cui D’Annunzio si rende conto di avere di fronte una donna di questo tipo e la traspone in un romanzo, nella figura femminile di Ippolita Sanzio, dove sensibilità sessuale e sterilità del grembo si fondono, cerca di rappresentare per intero una negatività del femminile.

Ne esalta la patologia, la sterilità, e ne esclude un compromesso con il sociale, quindi la condanna aumentandone l’opacità. In alcune pagine del Trionfo della morte, la protagonista femminile, Ippolita, è descritta con toni scuri, macabri, opachi appunto. La mia idea invece è quella di una libertà che tutti cerchiamo e individuiamo in maniera più o meno serena nel corso della nostra vita, anche nel momento ultimo e finale della scomparsa.

Non crede che in tutto ciò vi sia paura o invidia del femminile, forse proprio per la potenza che il corpo della donna ha, quella dell’accoglienza di una vita?

Biologicamente e naturalmente sì, socialmente no. Nel Trionfo della morte di D’Annunzio, il protagonista maschile avverte una parte di sé come morta, perché non può procreare con la donna amata, essendo Ippolita sterile. Ella è una donna divoratrice, non solo non dà la vita, ma pone anche fine all’uomo attraverso il rapporto sessuale, sfinendolo: c’è un’immagine fortissima nel romanzo che è quella della vagina dentata.

Ma socialmente no, perché l’idea della donna è consegnata alla maternità, alla procreazione. Soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, e ancora per buona parte del Novecento, la donna arricchisce la società con la maternità, anche se spesso vissuta in maniera devastante, laddove i romanzieri mettono in scena aborti orrendi e figli della colpa, come ne L’Innocente, sempre di D’Annunzio.

Lei descrive anche corpi di uomini malati e che per questo assumono caratteristiche femminili…

Un passo del racconto di Tarchetti Riccardo Waitzen è proprio la descrizione di un giovane malato; una rappresentazione positiva, fatta di affettività, sensibilità, dolcezza, leggerezza. Nel contempo però alcune caratteristiche del femminile rappresentano il maschile, per cui se in Tigre reale di Verga l’uomo ha tutte le caratteristiche muliebri, Nata, l’amante del romanzo, ha tutte le veemenze, le energie, i dispotismi virili.

Ci sono romanzi in cui il protagonista maschile è descritto in maniera seduttiva, perché è un personaggio con un’energia particolare: ad esempio ha mani levigate e nervose, artigli al posto delle unghie, lineamenti femminili che sono parte integrante del suo fascino.

C’è un passaggio nella sua riflessione tra malattia fisica e mentale, che ha un’importanza rilevante nel percorso evolutivo femminile. Perché?

C’è un passaggio di consegne tra tisi e isteria. Si scopre che la tisi è un’infezione batterica e perde il suo fascino di malattia romantica, che rendeva i personaggi dei romanzi interessanti e affascinanti. Entrano in campo malattie meno controllabili, come l’isteria e la nevrosi. Ma mentre la tisi conduceva alla morte, la malattia mentale invece libera la donna, rendendola potentemente pericolosa all’interno dell’immaginario della fine dell’Ottocento. Mentre prima una amante come Nata di Tigre reale di Verga moriva alla fine del romanzo, permettendo così al suo uomo, che tradisce la moglie per lei, di rientrare nell’ambito sacro e istituzionale della famiglia, la follia impedisce tutto questo.

La donna malata di mente ha una maggiore libertà, fino al punto da prendere iniziative pericolose nei confronti degli amanti e degli uomini, come Marina di Malombra, che alla fine uccide il suo amante. Si avverte una liberazione delle emozioni forte, accentuata, un arricchimento della realtà femminile e della percezione che la donna ha di sé. Inizia così ad apparire il punto di vista femminile sulle cose e sul mondo.

Nella follia anche il corpo è più libero, tanto che D’Annunzio, per immobilizzare questo corpo in preda a movimenti e scatti difficili da controllare, lo fissa sotto forma di statua, si pensi alla Vergine delle rocce. Nel momento in cui il corpo femminile non è più manipolabile dall’uomo, l’unica vera alternativa è il sogno di una donna statua, ferma, nella quale l’ego e il narcisismo maschile possano specchiarsi senza timore alcuno.

Il corpo di allora, il corpo di adesso; quali le somiglianze, quali le differenze?

Alla fine dell’Ottocento, il ritratto corporeo della donna era più o meno questo, una donna bruna, magra, pallida, con mascella angolare e grandi occhi neri. Mi sembra che non siamo, a livello corporeo così distanti dalle top model anoressiche che un certo tipo di cultura e di immaginario ci propone in questi ultimi anni.

Dunque questa donna continua ad un secolo di distanza, ad avere fortuna; un’immagine femminile che ormai ha lasciato alle spalle rotondità e opulenza e si è fatta tutto scatto, tutta nervi. In qualche maniera questa sensibilità pare concentrarsi in una descrizione corporale molto minimalista, in una percezione che ahimè, non so fino a che punto sia veramente femminile, e non pilotata invece dall’immaginario maschile.

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