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Non solo "vivi e lascia vivere"



Maria Antonietta La Torre



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Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it 

Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.

1. Spesso il senso comune identifica sbrigativamente la tolleranza con un invito del tipo «vivi e lascia vivere», che fa appello più ai sentimenti che alla ragione; a ben vedere, tale accezione è prevalsa sulle numerose definizioni che la storia della filosofia ha proposto della tolleranza e per giunta in maniera acritica rispetto alle ragioni che ne costituiscono il fondamento, e che appaiono invece decisive non solo per la sua giustificazione, ma per la sua applicazione. Essa viene per lo più concepita come una sorta di «benevolenza» verso gli altri; per questo stesso motivo, tuttavia, appare anche «debole» rispetto all’intransigente e rigido dogmatismo proprio delle fedi intolleranti. In linea generale si riduce la questione della tolleranza al metodo per stabilire e misurare sino a che punto siamo disposti a sopportare gli «errori» degli altri (dando per scontato che siano tali) o la loro diversità.

Evidentemente in tal modo il principio di tolleranza poggia unicamente su una base etica che sembra però rinunziare alla razionalità, piuttosto che cercare in questa il proprio sostegno, e ciò sembra renderlo incapace di opporre sufficiente resistenza alle difficoltà sollevate oggi da «trasgressioni» che non possono essere affrontate con indifferenza, ma che pure sono la manifestazione di un pluralismo delle culture e delle visioni del mondo che chiedono rispetto e riconoscimento. Il problema della tolleranza è sorto storicamente dalla rottura dell’unità del mondo cristiano, che coincide, peraltro, con la nascita dello Stato moderno; ma se all’origine esso veniva sollevato in relazione a credenze soprattutto religiose e politiche, oggi assume connotazioni inconsuete dinanzi alle mescolanze etnico-culturali che connotano le società industriali, all’emergere dei particolarismi, dei tentativi talvolta disperati di difesa delle identità, all’incontro tra culture diverse.


Si tratta dunque di un tema tutt’altro che inattuale, anzi, di particolare pregnanza e urgenza, poiché gli ideali apparentemente consolidati, almeno entro i sistemi democratici, sembrano vacillare dinanzi alle difficoltà che pone la loro applicazione in situazioni più critiche di quanto non fosse in passato. La questione rimane essenziale al di là dei rischi di autoritarismo impliciti nelle politiche «tolleranti», evidenziati sin dall’origine: pensiamo alla critica alla tolleranza «di tipo lockiano» interpretata come «tolleranza repressiva», cioè come strumento per ridurre le potenzialità innovative contenute in tutti i dissensi attraverso l’applicazione di regole che apparentemente sono soltanto formali, mentre in realtà tendono a integrare e a rendere inoffensivo tutto ciò che può turbare l’assetto effettivo della società. In questa prospettiva alle dottrine «di tipo lockiano» è stata imputata una forma di indifferenza etica, perché in esse la tolleranza sarebbe non un fine in se stessa, un valore etico primario, ma semplicemente la via più adatta a garantire la sicurezza dei cittadini e dei loro beni e a promuovere la massima uniformità possibile. Una tolleranza così concepita metterebbe capo a una società monoculturale, mentre nelle nostre società i problemi più urgenti sono costituiti dall’incontro di gruppi caratterizzati da culture diverse tra loro, accompagnate spesso da veri e propri dislivelli sociali.

A ben vedere, la tolleranza non implica infatti la piena accoglienza del «diverso», ma, appunto, la sua accettazione, motivata in modi vari e non tutti guidati da ideali «nobili». «L’idea di tolleranza si accompagna sempre all’idea di un male. Non avrebbe senso parlare di tollerare la virtù o atti che riteniamo meritevoli di lode». Del resto gli autori liberali, da Locke, a Mill a Popper, studiando la tolleranza, ne hanno rilevato non solo l’importanza sociale, ma anche i limiti di praticabilità. «È possibile tollerare soltanto ciò che non si reputa vero. [...] La tolleranza è spiegabile soltanto come atto della volontà, che ammette si dia ciò che la ragione non può in alcun modo acconsentire. Ma un atto di volontà non fondato su alcuna ragione è arbitrio, e l’ombra del puro arbitrio si stende anche sulla più pura delle idee di tolleranza». Da ciò l’importanza di un chiarimento delle ragioni della tolleranza, volto non solo a fornire un supporto alle tentazioni rinunciatarie, ma a ritrovare motivazioni non superficiali, non strumentali e soprattutto condivisibili.

2. Di questi argomenti discute il volume, curato da Franco Manti, che pubblica gli interventi presentati al Convegno di Imperia dell’ottobre 1994. Si tratta di un volume molto ricco, ma non ci soffermeremo qui sui saggi a carattere storico-critico, quelli ad esempio di Enzo Baldini (Tolleranza religiosa e intolleranza politica all’inizio della Riforma luterana) e Mario Quaranta (La tolleranza: un’utopia positivistica. Il contributo di Giovanni Marchesini), tutti accuratamente sviluppati e documentati, volti a mostrare come il tema della tolleranza serpeggi nell’età moderna anche laddove esso appare maggiormente offuscato dall’oscurantismo e dall’assolutismo, ma che non è possibile qui riassumere. È comunque utile ricordare per tutti che, come scrive Walter Ghia (Libertà interiore e tolleranza nell’età del barocco), «le radici della tolleranza affondano nel duro terreno del realismo, s’intrecciano con quelle della ricerca della sicurezza individuale e della pace civile» (p. 52), ossia che al di là del valore in sé, del suo significato di tutela dell’autonomia individuale e della libera espressione delle idee di ciascuno, la tolleranza si accompagna al perseguimento del valore della pace sociale, per conseguire la quale essa diviene un semplice mezzo: ne deriva che la condanna del fanatismo spesso è dettata da ragioni di opportunità piuttosto che di principio. È importante chiarire che alle radici della tolleranza vi è tale connotazione, a spiegare in parte le ambiguità che la accompagnano e che talvolta non soddisfano quanti ne difendono il valore assoluto.

Ci soffermeremo quindi su quegli interventi che, attualizzando il problema, discutono delle ambiguità del concetto di tolleranza e ne forniscono definizioni diverse, fondate ora su una concezione di essa come «principio prudenziale», ora come «requisito della razionalità», ora come diritto morale o valore. Una «nozione confusa», definisce del resto la tolleranza Dino Cofrancesco (La tolleranza come problema oggi), per le sue implicazioni, per le sue commistioni con altri concetti, per l’indeterminatezza del suo oggetto («Il soggetto e l’oggetto della tolleranza possono essere, indifferentemente, individui e gruppi sociali, culture e istituzioni, comunità religiose e partiti politici? [...] Se lo si allarga troppo, il concetto finisce per confondersi con altri concetti affini: [...] la laicità, i diritti di libertà, lo stesso pluralismo», p. 199), per la difficoltà della sua codificazione giuridica (il diritto deve garantire, non tollerare). La tolleranza «sembra porsi in un limbo che si colloca tra la sopportazione dello spiacevole (o dell’inevitabile) e il riconoscimento di un preciso diritto» (p. 201). O, con le parole di Norberto Bobbio (Lettera sulla tolleranza), questa ambiguità è manifesta nella duplice funzione del termine: «vi è una tolleranza in senso debole, come semplice sopportazione del diverso, e una in senso forte, come volontà di comprensione che può giungere fino al rispetto delle idee altrui» (p. 209). Addirittura sarebbe possibile distinguere una tolleranza falsata in direzione ideologica, quando essa viene intesa «come strumento di cattura e di organizzazione del consenso», (Federico Pastore, Tolleranza come valore, tolleranza come ideologia, p. 132).

Salvatore Veca (Sulla tolleranza) distingue d’altronde tre diversi generi di argomentazione, tutti validi dal punto di vista della filosofia politica, in difesa della tolleranza: l’argomento prudenziale, l’argomento epistemologico e l’argomento morale. Nel primo caso «la tolleranza insorge come soluzione razionale, quando i costi dell’intolleranza sono largamente valutati come superiori a quelli della tolleranza» (pp. 214-215). Si attua, allora, un calcolo costi-benefici, piuttosto che una valutazione di ordine morale, sulla convenienza di una certa condotta (magari dinanzi all’insufficienza della forza per imporre le proprie ragioni) e soprattutto una considerazione circostanziale, per così dire, e non alimentata da un’assunzione di principio. Veca sottolinea la precarietà di impianto del principio di tolleranza quando è mero valore strumentale, risultato di un negoziato, basato soltanto su un utile condiviso dai partecipanti al patto sociale, che può venire meno in qualsiasi momento.

L’argomento epistemologico è invece fallibilista, ossia apre alla possibilità di riconoscere la ragione o la «verità» nelle tesi dell’altro, e quindi ad un confronto cooperativo; benché sottintesa sia comunque la ricerca della verità, in questo caso la tolleranza coincide col semplice rispetto delle posizioni diverse, anche se «questa idea della comunità della comunicazione degli investiganti intorno alla verità, alla giustizia, alla bellezza o alla santità ha un immediato e familiare tocco “normativo”» (p. 225). L’argomento morale fa riferimento invece a contesti interpersonali, più che politico-societari: in questo caso «la tolleranza deve essere interpretata come un valore a sé nel dominio pluralistico dei valori» (p. 231), è, insomma, non un valore strumentale, bensì intrinseco, autonomo, connesso al «rispetto», e basato su di una preferenza morale per la diversità e la varietà, piuttosto che per l’omologazione rassicurante. Ma anche Veca sottolinea l’ambiguità di una forma di riconoscimento, quella, appunto, suggerita dalla tolleranza, almeno nella versione che ne fornisce il liberalismo, che può trasformarsi in «una modalità dell’oppressione e quindi esemplifica una forma più o meno sottile e brillantemente mascherata di intolleranza» (p. 235).

Benché non nuovo, è a tutti evidente che questo problema presenta oggi particolare rilevanza dinanzi all’incontro/scontro tra i diversi integralismi, che un liberalismo pensato per una società occidentalizzata sembra non saper affrontare. Nella prefazione il curatore pone in evidenza, ad esempio, le ripercussioni che le nuove questioni di tolleranza hanno sulle teorie della giustizia, che appaiono inadeguate alle nuove esigenze, mentre Alfonso Catania (Principio di tolleranza e laicità del diritto) evidenzia la connessione tra democrazia e principio di tolleranza. Il punto, come sottolinea altrove Anna Elisabetta Galeotti, è che nelle società contemporanee il pluralismo non è più solo quello delle idee e dei valori, ma delle culture e delle tribù che in esse si trovano a coesistere con forze sbilanciate e con status differenziati. [...] Il problema della filosofia politica si modifica e da quello di come distribuire in modo equo e i vantaggi e gli oneri della cooperazione sociale diventa quello di come pensare una cooperazione sociale, stante il pluralismo dei gruppi: come giustificare le istituzioni liberaldemocratiche anche per chi è estraneo alla tradizione liberale e come far convivere nello stesso ordine politico differenze culturali vistose e confliggenti nel rispetto pubblico a ciascuno.

Evidentemente, la questione acquisisce connotazioni particolarmente complesse rispetto a quelle poste dall’intolleranza religiosa nell’età moderna. Luciano Pellicani (Dalla secolarizzazione alla tolleranza) evidenzia infatti la relazione storica tra l’affermarsi della tolleranza e l’attenuarsi delle fedi «forti» o il processo di secolarizzazione in generale: man mano che la fede religiosa vede ridimensionata la propria onnipervasività, abbandona alcuni territori della società e della vita umana e viene progressivamente relegata in spazi sempre più ristretti; quando il «tempo sacro» lasciò il posto al «tempo profano», «pose fine al monopolio clericale del sapere e al controllo inquisitoriale delle coscienze e fece emergere una mentalità pragmatica, ostile a ogni forma di fanatismo» (p. 168).

D’altronde, Italo Mereu (Intolleranza e tolleranza: un passaggio difficile) individua nel cristianesimo l’origine dell’intolleranza, che ha dominato la storia europea fino al nostro secolo; Sergio Quinzio (Monoteismo e tolleranza), pur da una posizione cattolica, riconosce l’intolleranza implicita in ciascuna religione monoteistica, che si propone come detentrice della verità: quest’ultima deve per definizione essere unica e quindi non consente l’ammissione di «altri dei»; e Lucetta Scaraffia (Indifferenza e monoteismi: come nasce la tolleranza) sottolinea l’incompatibilità tra la tolleranza e qualsiasi forma di monoteismo. Di opinione opposta si mostra Mario Ismaele Castellano (Tolleranza e cristianesimo), secondo il quale viceversa la tolleranza, specie quella religiosa, è nata col cristianesimo; ma l’idea stessa che possa darsi «tolleranza dell’errante, non dell’errore» (p. 173) non può che confermare una pretesa di verità che non consente il rispetto della credenza altrui, poiché ogni convincimento che sia vissuto come assoluto e ogni fede nella verità di un’unica visione del mondo impediscono il riconoscimento della pluralità delle visioni del bene.

Tutti, però, avvertono il rischio opposto, che emerge proprio in concomitanza con l’attuale perdita di tutte le «fedi» e non solo di quelle religiose, connesso per altro all’apparente esercizio della tolleranza, nella veste di una generica condiscendenza o sopportazione, dell’indifferenza non solo per la religione, ma per i valori e i principi: il rischio del «tutto va bene» è quello del relativismo assoluto secondo il quale, infine, nulla va bene o comunque merita o è degno di essere difeso e perseguito, e ciò che resta è unicamente il proprio ristretto interesse particolaristico.

Come osserva Manti, «tollerante non è colui che afferma l’eguale valore di qualsiasi concezione, [...] ma chi, convinto delle sue ragioni, le confronta con quelle degli altri, considerando illegittima qualsiasi forma di imposizione coercitiva e cerca, nel contempo, di affermarne la superiore validità riconoscendo una pari possibilità per ognuno» (p. 72). Insomma il principio di tolleranza non è un punto di vista neutrale, che per ciò stesso apparirebbe vuoto, come osserva anche Pastore; se lo si riconosce come valore, esso è in sé un fine, tutt’altro che vuoto contenitore.

Nelle società democratiche la tolleranza è un valore costitutivo e indiscusso; ciò non significa che sia anche inequivoco e che non sorgano conflitti, soltanto perché ad esso corrispondono regole giuridicamente codificate. Conflitti sorgono in concomitanza con l’evoluzione delle società verso il multiculturalismo e con gli sviluppi della scienza e della tecnica, che pongono problemi inediti e suscitano nuove forme di intolleranza ideologica. Il problema nasce, come osserva Galeotti (Il significato della tolleranza nelle democrazie pluraliste), quando le questioni si rivelano così complesse che neppure il modello interpretativo offerto dal liberalismo (è nel liberalismo, infatti, che si trovano le coordinate per affrontare i problemi di tolleranza e in questa tradizione di pensiero sono sorte anche proposte normative in merito) è sufficiente a dirimerle, quando, cioè, non si è in presenza del semplice disaccordo religioso, morale o politico di tipo classico.

Sono questi i casi per i quali le teorie liberali si trovano, per così dire, non «attrezzate»: esse infatti assumono che le circostanze della tolleranza siano differenze relative a concezioni del mondo e del bene, quindi elettive e quindi riconducibili a individui, confliggenti tra loro, ma anche indirimibili e non negoziabili. Data questa definizione del problema, la tolleranza consiste nel riconoscimento da parte dello stato e da parte dei singoli cittadini di aree dove la scelta personale è sovrana, sottratta e protetta da interferenze di ogni genere, poiché, innanzitutto, in quei settori l’uniformità, del resto impossibile, non è necessaria e poi perché ciò è richiesto dal principio del rispetto reciproco e del valore dell’autonomia. Il significato della tolleranza liberale è dunque quello di consentire l’eguale libertà dei singoli cittadini relativamente alle scelte religiose, etiche, estetiche e alle condotte di vita che ne conseguono. In questo schema classico, la sola questione realmente aperta sul piano teorico è quella dei limiti della tolleranza (p. 122).

E i limiti della tolleranza indaga Manti (Le ragioni della diversità e i limiti della tolleranza nella filosofia di John Locke) attraverso Locke e la sua versione «prudenziale» della tolleranza, concludendo che tali limiti si trovano sostanzialmente (secondo quanto possiamo ancora oggi condividere della versione lockeana) nell’intolleranza (l’unica «fede» che non può essere tollerata). Attualmente, però, la situazione è complicata dal fatto che non si presenta un semplice «politeismo dei valori» o delle concezioni del bene, (d’altronde il diritto dell’altro ad avere la propria visione del bene non è più in discussione), ma una questione relativa alle conseguenze pubbliche della presenza di gruppi portatori di visioni confliggenti, con «asimmetrie spesso marcate di potere, di rispetto, di riconoscimento sociale e pubblico fra i diversi gruppi, che sostengono e alimentano poi i contrasti culturali e ideologici» (Galeotti, p. 123).

Insomma, si tratta di questioni squisitamente politiche di riconoscimento e incontro con gruppi e identità «altri». Così, ed è anche l’opinione di Cofrancesco, oggi la tolleranza non si rivolge più all’individuo, come ai tempi di Voltaire, bensì ai gruppi, alle comunità. D’altronde è proprio l’aspetto ideologico che anche Pastore ravvisa tra gli elementi imprescindibili di un moderno discorso sulla tolleranza, nel senso che «l’esercizio del principio di tolleranza richiede la consapevolezza del limite intrinseco e invalicabile della validità di qualsiasi approccio ideologico al mondo» (p. 131). Il riconoscimento dei limiti di ogni ideologia, cioè del riferimento implicito ad una visione del mondo più o meno compiuta e portatrice di valori che risultano determinanti per l’agire, ma anche vincolanti, è condizione per l’esercizio stesso della tolleranza, per il rispetto dell’ideologia altrui. Gaetano Pecora (La tolleranza nella società liberal-capitalistica) opera una distinzione, che appare in tale prospettiva utile sul piano pratico e politico, tra intolleranza giuridica e intolleranza intellettuale, da respingersi la prima, mentre la seconda costituirebbe una condizione indispensabile perché si abbiano credenze, quegli assoluti apparentemente dogmatici ma pure irrinunciabili quando si voglia lasciar sussistere un corpo sociale unitario: l’obiettivo è che la tolleranza politica possa convivere con l’intolleranza intellettuale, il rispetto per la verità altrui, con la difesa della propria verità.

3. L’incontro con l’alterità, anche da un punto di vista etno-antropologico, si mostra spesso inficiato alla radice da pregiudizi culturali, ad esempio, dall’impropria identificazione, evidenziata da Domenico Conci (L’invenzione della differenza. Fenomenologia di un latente motivo ideologico e metodologico) di «altro» e «diverso», la quale è il segno epistemologicamente più evidente di un atteggiamento segnato «dal malessere di un inatteso e sgradevole decentramento esistenziale e cognitivo rispetto alla cultura di appartenenza, prodotto dall’urto di una stravaganza comportamentale e di un’aggressione - reale o meramente potenziale - alla propria integrità territoriale, indotto indifferentemente da ogni etnia aliena che, in quanto comunità etnica, pretende per un elementare e fisiologico istinto di identità, di sicurezza e quindi di sopravvivenza [...] di occupare in modi assoluti ed esclusivi il centro del mondo» (p. 136).

E, in effetti, quale più manifesto segno di intolleranza dell’identificazione dell’alterità con la diversità, implicando questo giudizio la riduzione o l’appiattimento dell’estraneo su un modello di riferimento assunto come parametro assoluto di valutazione? L’incapacità di riconoscere la semplice alterità per ridurre l’estraneo a ciò che è diverso rispetto a noi, un noi che evidentemente risulta decisivo in ogni «misurazione» e quindi valutazione, indica il rifiuto, ma anche la paura di assumere il rischio implicito nel mettersi in gioco ponendosi sul medesimo piano. Trasformare l’«altro» in un «diverso», consente, suggerisce Conci, di conservare il proprio «centro», la propria appartenenza culturale, rassicurante e non problematizzata, ed è anche un modo per ricondurre il diverso al noto, alle proprie categorie e non lasciarlo essere estraniante, conturbante, di contrastare «il vissuto spaesante del decentramento esistenziale e cognitivo provocato dagli incontri interetnici» (p. 138).

Ma nell’epoca in cui vacillano tutte le certezze forse si apre uno spiraglio per demolire il tradizionale paradigma dell’intrascendibilità della propria cultura; nell’epoca della crisi identitaria dell’occidente, che è oggi «malato» nelle sue stesse radici culturali, «un’analisi fenomenologica, antropologicamente applicata, si può istituire e si può mantenere, appunto, come un’analitica non differenziale, cioè come un’analitica delle alterità etniche in quanto tali, proprio perché la perdita della centralità culturale di riferimento [...] la sottrae a quella logica e a quell’economia dello scarto rispetto al sé» (p. 141). Il problema della tolleranza solleva un quesito sulla capacità di «riconoscimento» dell’alterità in quanto tale, di rinunzia alla pretesa di ricondurla all’identità, ai propri modelli valutativi, comportamentali eccetera. «La tolleranza, in questi ultimi tormentati anni di fine secolo, diviene [...] la custode delle etnie culturali: non concerne più la possibilità di diventare tutti uguali, grazie all’esercizio critico della ragione, ma la garanzia che non venga disfatto il lavoro di diversificazione compiuto dalla storia» (Cofrancesco, p. 200).

4. Sui problemi connessi alla questione del «riconoscimento» si sofferma anche Flavio Baroncelli (Il riconoscimento e i suoi sofismi) per confermare che il problema del riconoscimento si pone oggi non tanto in termini di individualità (nelle moderne società liberali i diritti degli individui sembrano oramai garantiti), quanto di gruppi e culture: d’altronde, è solo all’interno di una cultura che ciascun individuo può acquisire una propria identità e quindi il riconoscimento è necessario a ciascuna cultura nella sua interezza. Come scrive Enzo Marzo (Requiem per l’informazione libera), dinanzi al «pluralismo dei gruppi, delle culture e delle identità collettive» si pone un problema di «inclusività e uguaglianza di rispetto per gruppi minoritari esclusi» (p. 183).

A noi sembra che l’idea della tutela delle «differenze» possa risultare essa stessa fuorviante se intesa come equità di trattamento tout court: una tutela intesa come «neutralità» può mortificare le peculiarità: se lo Stato garantisce a tutti lo stesso trattamento, trascura, di fatto, le differenze. E tuttavia nelle moderne società liberaldemocratiche questa tutela differenziata sembra di difficile praticabilità. In esse «cittadini con identità diversificate possono essere rappresentati in modo egualitario se le istituzioni pubbliche non riconoscono le loro identità particolari, ma solo il loro interesse, comune più o meno a tutti, a godere delle libertà civili e politiche e di un reddito, di cure mediche, di un’istruzione». Naturalmente non si pone, a rigore, una questione di tolleranza dove vi sono differenze razziali o etniche o culturali, poiché il razzismo è un atteggiamento già sanzionato, non si tratta insomma di trovare una base per la tolleranza come dovere giuridico, bensì di giustificare la tolleranza come virtù.

Tuttavia, «la promessa del multiculturalismo [...] non è la sopravvivenza di molte culture reciprocamente esclusive», bensì proprio l’omologazione e l’annullamento delle differenze. Perciò «l’aspetto saliente del conflitto nelle questioni autentiche di tolleranza, e in generale nei problemi suscitati dal pluralismo, non riguarda l’inconciliabilità fra visioni del mondo, bensì l’accettazione o meno di quelle “diverse” nella sfera pubblica, quando quelle “normali” ne fanno già parte». La tutela (egualitaristica) degli individui in quanto esseri umani può contrastare con il riconoscimento delle particolarità e specificità, che possono invece richiedere trattamenti differenziati. «Nell’età dei Lumi, la tolleranza è la metafora della “grande casa del mondo” che si apre a tutte le genti; nel XX secolo inoltrato, è l’autorizzazione concessa a tutte le genti di costruirsi, ciascuna, la propria casa» (Cofrancesco, p. 200).

Significativamente, nel volume che stiamo esaminando, un certo spazio è riservato alle questioni di tolleranza connesse ai temi bioetici. In questa direzione va l’intervento di Michele Schiavone (La tolleranza nel dibattito psichiatrico contemporaneo), che esamina il problema della tolleranza verso un altro genere di diversità, quella del malato mentale, ma soprattutto un discorso di tolleranza «allargata» è quello che Luisella Battaglia (Ai confini della tolleranza. Voltaire e la comunità terrestre) svolge attraverso le pagine di Voltaire, pensando ad una «comunità terrestre» che include tutti i viventi: «È la tolleranza che consente a Voltaire di cogliere la dialettica simile/diverso e di andare oltre il territorio dell’uomo ma senza cancellare i confini tra i due mondi. Il tollerante, infatti, non confonde i confini: è il fanatico che vuole distruggerli» (p. 78).

In tal modo sono fugati i timori di quanti vedono nell’apertura morale alle altre specie un rischio di mortificazione degli interessi del genere umano: entrambi i regni sono degni di considerazione ma non uguali e detentori dei medesimi diritti, perché «l’eguale considerazione degli interessi [...] non prescrive un eguale trattamento per tutti», e dunque consente, potremmo dire, una tutela differenziata. La nozione di «tutela differenziata», applicata ai viventi non umani, sottintende che «attribuire eguale considerazione agli interessi di due esseri diversi non significa trattarli in modo eguale o sostenere che le loro vite siano di egual valore, ma solo dare eguale peso a interessi eguali». Battaglia, dunque, sostiene un’«etica del riconoscimento», della quale si troverebbero appunto in Voltaire le prime tracce, nel momento in cui questi ravvisa nei viventi non umani la sensibilità, la capacità di provare sentimenti, di memoria e affetto, e quindi «incoraggia a valutare positivamente le capacità che abbiamo in comune con gli animali e a riconoscere che aspetti importanti di ciò che rispettiamo - o dovremmo rispettare - nei nostri simili sono presenti anche in loro».

Le ragioni per l’allargamento della considerazione morale agli animali non umani «sono le stesse, a ben riflettere, che stanno alla base della tolleranza - la generosità, l’umanità, la saggezza pratica, la prudenza, la benevolenza - e che ci mettono in grado di riconoscere ciò che per loro - come per noi - costituisce un danno, giacché essi - come noi - sono vittime potenziali della crudeltà, del fanatismo, della violenza» (p. 89). Quello di «tutela differenziata» è, ci sembra, un concetto chiave, atto anche a dissipare le preoccupazioni di quanti, soprattutto nelle società liberali fortemente individualistiche, ravvisano nell’apertura ad istanze nuove il pericolo di sacrifici intollerabili, o manifestano, per l’appunto, il sospetto che si possa giungere a trascurare le esigenze individuali in favore di quelle di entità non ben definite come l’«umanità», le altre specie, le «generazioni future», le popolazioni dei paesi in via di sviluppo e così via (contemplandosi anche la possibilità di sacrificare una minoranza per la salvaguardia dell’equilibrio complessivo dell’ecosistema, ad esempio), ma anche di quanti si sentono minacciati dall’accoglimento di appartenenti ad altre culture che portano con sé istanze ed esigenze «altre», apparentemente minacciose verso i diritti acquisiti.

In conclusione, il volume in esame conferma da un lato l’ambiguità del principio di tolleranza, dall’altro l’urgenza e l’attualità delle questioni ad esso connesse. Probabilmente, nelle società complesse di fine millennio, la tolleranza va riconosciuta come un valore non assoluto, bensì pragmatico. Come osserva Manti, «i limiti della tolleranza sono [...] mobili, ossia decisi pragmaticamente, a seconda del livello di conflittualità che una società tollerante può consentirsi senza mettere a repentaglio la propria sussistenza e la sicurezza dei propri cittadini» (p. VI). Ciò nell’ottica di un’apertura alla possibilità di prescindere, all’occorrenza, dal proprio ristretto punto di vista, nella consapevolezza che «si deve spesso tollerare per ragioni morali ciò che per ragioni morali si deve condannare».


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