“Il cinema etico è anche politico”
Agnès Jaoui con Paola Casella
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Recensione/Il gusto degli altri
Ha trentacinque anni, fa l'attrice, è bella e brava, ha recitato
con Alain Resnais, Christophe Blanc, Cedric Klapisch. Ce ne sarebbe
già abbastanza, ma la femme prodige francese Agnès Jaoui non
è ancora tutta lì, anzi, forse la parte più riuscita di lei è
quella che la cinepresa non vede. Insieme a Jean Pierre Bacri, suo
compagno sulla scena e nella vita, Jaoui ha firmato alcune delle
sceneggiature più apprezzate degli ultimi anni: da Aria di
famiglia di Cedric Klapisch a Smoking No Smoking e
Parole parole parole di Alain Resnais, tutte e tre premiate con il
Cèsar, tutte interpretate dalla coppia Bacri-Jaoui, o Jacri, come li
chiamano in Francia.
Con Il gusto degli altri (vedi recensione), scritto e
interpretato dal duo, Agnès Jaoui è diventata anche regista. Il film
parla di tolleranza in modo apparentemente leggero, ma in realtà
denuncia il pregiudizio in modo radicale, e inequivocabile. Secondo la
neoregista, "E' facile rinchiudersi in un gruppo, seguire le sue
regole senza metterle mai in discussione, e trattare chi ne è
estraneo con disprezzo".
Inutile dire che anche Il gusto degli altri si è rivelato un
successo di critica e di pubblico: record di incassi in Francia,
candidatura francese per la selezione agli Oscar come miglior film
straniero, "stimolante, astuto, molto affascinante" secondo Liberation,
"una commedia perfetta e divertente nella verità della sua
crudeltà", come ha scritto L'Express.

Malgrado la fanfara, Agnès Jaoui è alla mano, sincera, e priva di
pelle, come si suol dire: risponde a ogni domanda in modo diretto,
senza nascondersi dietro a un dito, e racconta il suo esordio alla
regia con disarmante modestia.
Come ha deciso di passare dietro la cinepresa?
Fino a poco tempo fa, le nostre sceneggiature erano state portate
sullo schermo dai grandi maestri del cinema, come Resnais, e io ne ero
felice, perché non mi sarei sentita all'altezza del compito. Ma a
poco a poco mi sono resa conto che si avvicinava il momento di provare
in prima persona, di controllare tutto il processo creativo, dalla
scrittura alla regia, e imprimere a tutto lo stesso ritmo narrativo.
La regia de Il gusto degli altri è particolarmente
semplice, lineare, quasi invisibile: è un atteggiamento prudente o
una scelta artistica?
Quando mi sono lanciata nell'impresa di dirigere questo film le
mie conoscenze tecniche erano molto limitate, ma sapevo di avere per
le mani un copione forte e un gruppo di attori straordinari. Perciò
ho deciso di seguirli nel modo più semplice e più discreto
possibile. Quella di utilizzare molti piani sequenza però è stata
proprio una scelta creativa: ho provato anche campo e controcampo, ma
non funzionavano altrettanto bene. Non mi piace forzare le emozioni
degli attori con la regia o il montaggio, preferisco lasciare che sia
la loro qualità, la loro bravura a risaltare.
Come costruite le sue sceneggiature?
E' fondamentale la fase di preparazione: io e Jean Pierre Bacri
lavoriamo sei mesi solo sulla caratterizzazione dei personaggi, poi
gli strutturiamo intorno la storia e i dialoghi. Preferiamo da sempre
la commedia perché ci consente di parlare di argomenti importanti con
ironia, humour e soprattutto leggerezza, senza lanciarci in inutili
sermoni.

Quali sono i suoi registi preferiti?
Eric Rohmer, Alain Resnais, Ernst Lubitsch, e poi John Cassavetes,
Woody Allen, ma anche il Marcel Carné di Amanti perduti. Fra
gli italiani, mi piacciono Scola, soprattutto per C'eravamo tanto
amati, Pupi Avati, e naturalmente Moretti. Fra i nuovi, seguo da
vicino Mimmo Calopresti.
Perché il suo film mette l'accento sul gruppo, e sulla difficoltà
di uscire dalla propria élite?
Perché apparentemente oggi sembra che le barriere sociali siano
diventate meno insuperabili. E invece non è vero. Ogni gruppo pensa
ancora che i propri gusti, i propri riferimenti siano i migliori.
L'élite più bistrattata nel suo film sembra essere quella
intellettuale.
E' perché la chiusura degli intellettuali nei confronti degli
altri gruppi sociali è più choccante: gli intellettuali avrebbero
tutti i mezzi culturali per non essere settari o intolleranti, e
invece sanno esserlo in modo particolarmente crudele. Io stessa
appartengo a questo ambiente, ma non condivido certi suoi criteri, e
mi sono stufata di tacere, voglio far sentire la mia voce, dire che
questo gruppo - e questa maggioranza (la sinistra francese, nda) - non
mi rappresentano.
Crede che i suoi film, che si rivolgono spesso al sociale con
occhio critico, possano essere considerati "politici"?
Credo di fare un cinema etico, e quindi in questo senso politico.
Persino la scelta di dedicare uguale attenzione a tutti i personaggi
delle nostre sceneggiature, senza attribuire maggiore importanza al
ruolo centrale per trattare gli altri come spalla, mi pare etica,
perché è una scelta egualitaria.
L'eroe de Il gusto degli altri è Castella, un industriale
che a molti, in Italia, farà venire in mente qualche paragone...
Ho preso lui come esempio del fatto che anche il più ottuso e
limitato degli esseri umani può trovare la forza di cambiare, e per
questo diventa interessante, e il suo sforzo è particolarmente
commovente. Per contro sua moglie, che appartiene allo stesso ceto e
che si basa su un sistema di certezze fatto anche di pregiudizi
sociali, è invece un personaggio perdente.
Come mai ne Il gusto degli altri ha riservato a se stessa il
ruolo di Manie, la cameriera, che è forse quello più triste?
Innanzitutto è stata una considerazione pratica: è la parte più
breve del film, e io avevo bisogno di stare più tempo dietro la
cinepresa che davanti. E poi era un personaggio che sentivo molto
attuale: non lo definirei triste, casomai doloroso, perché Manie è
una donna libera e moderna che cerca l'amore ma non è disposta a fare
determinate concessioni pur di sfuggire alla solitudine. E si imbatte
proprio nel personaggio più tragico del film, la guardia del corpo,
tragico perché rimane chiuso al cambiamento, vittima dei suoi
pregiudizi suill'essere maschio.
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