Universalismo e differenza
Giacomo Marramao con Pierpaolo Ciccarelli
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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale
delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Marramao, la nostra epoca è stata definita l'“epoca
globale”: essa è caratterizzata dall'unificazione indotta dal
mercato, dall'infittirsi della rete delle comunicazioni tra le diverse
culture, dalla moltiplicazione dei fattori di interdipendenza tra i
popoli della Terra. Tutti questi fenomeni sembrano confermare la tesi
secondo cui appunto la nostra epoca è segnata dalla omologazione
universale, dal livellamento delle differenze e delle particolarità.
D'altra parte però, soprattutto in epoca più recente, non mancano
pensatori che scorgono, quali tratti caratteristici della nostra
epoca, la proliferazione delle differenze, la fuga dall'universalismo,
il sentimento di appartenenza alla comunità. Qual è la sua posizione
a riguardo?
Ritengo che le due diagnosi da lei indicate, l'omologazione universale
e la differenziazione, in altri termini universalismo e
differenzialismo, non siano tali da configurare un'alternativa; essi
tendono piuttosto a delineare due lati di un'unica medaglia. Mi
spiego: sono convinto che nella nostra età globale si sia in presenza
di un fortissimo processo di unificazione, di omologazione del mondo,
ma sotto il segno della unificazione tecnica, sotto il segno della
tecnica. Indubbiamente le tecniche della comunicazione hanno reso
improvvisamente sincronici modi di vita e forme culturali fino ad oggi
ritenuti asincroni, ma questo è soltanto uno dei due lati della
medaglia, è la metà della verità; l'altro lato del problema,
l'altra faccia della medaglia, è rappresentato invece da un processo
di differenziazione.
Questo processo di differenziazione lo potremmo individuare nella
forma di un paradossale corto circuito di globale-locale, di processi
di globalizzazione e processi di localizzazione, cioè quanto più la
tecnica tende ad uniformare per alcuni aspetti gli standard di vita,
tanto più sembrano approfondirsi le differenze culturali o perlomeno
la domanda di un trattamento differenziato, la riscoperta delle
piccole patrie, delle piccole comunità. Da questo punto di vista, la
linea che vede l'“età globale” come segnata dalla tecnica e da
una ragione onni-omologante è una linea che non può essere accettata
e soprattutto non può essere accettata nelle sue due versioni
estreme, che sono quella apocalittica che vedrebbe in questa
omologazione un fatto negativo, un forzoso compattamento dell'umanità
sotto un unico codice, sotto un unico imperativo, sotto un'unica
legge, e quella apologetica che saluta in questo evento la fine della
storia, cioè l'unificazione finale del mondo sotto la legge
dell'individualismo di mercato, come per esempio ha sottolineato nel
suo fin troppo fortunato libro Francis Fukuyama.
Io credo, invece, che i due processi vadano assunti contestualmente:
occorre cercare di vedere il processo di localizzazione, cioè
l'emergere di spinte alla rivendicazione della propria specificità
culturale, spinte addirittura che vanno nella direzione della domanda
di una autoctonia culturale. Io credo che tutto ciò vada visto come
una risposta al modo in cui una serie di criteri, di codici
dell'universalismo si sono affermati o meglio ancora sono stati
imposti al mondo, a tutte le culture.
Qui forse varrebbe la pena ricordare che uno dei limiti della
concezione progressiva illuministica della storia è consistito nel
modellare la propria idea del divenire storico sulla immagine di una
ragione scientifica, di una razionalità, che gradualmente e
progressivamente, appunto, si estende a tutti gli ambiti di vita,
all'intero globo. I più critici, diciamo, tra i pensatori
razionalisti contemporanei, penso per esempio ad Ernest Gellner, ma
anche ad altri, hanno messo in evidenza come la diffusione degli
stessi standard razionali di vita e della tecnica, lungi dal produrre
una semplificazione degli ambiti della vita stessa, appunto induce una
nuova forma di complicazione di questi ambiti, una nuova forma di
differenziazione, crescenti difficoltà di governo politico e sociale;
in altri termini, non soltanto la razionalità scientifica, tecnica e
tecnologica non produce una uniformazione sul piano socio-culturale,
ma addirittura sembra essere uno dei fattori principali, se non il
fattore principale, della differenziazione culturale e dei conflitti
che da questa differenziazione scaturiscono.
L'altro aspetto del problema che nella Sua domanda veniva evocato è
quello relativo al ritorno della comunità. Il ritorno della
comunità, che si produce non soltanto attraverso la ribellione di
culture altre alla cultura occidentale, ma si genera addirittura
all'interno di cosmopoli, cioè all'interno delle realtà
metropolitane dell'Occidente e all'interno del principale paese
dell'Occidente, gli Stati Uniti d'America, ecco questa reazione,
questo ritorno della comunità si traduce in una denuncia delle
istituzioni democratiche occidentali, che sarebbero ormai divenute le
istituzioni del “grande freddo”, delle istituzioni puramente
procedurali, puramente tecnico-procedurali, incapaci di motivare gli
individui, i gruppi sociali, gli aggregati sociali e che quindi
sarebbero le istituzioni istituzioni fredde, insensibili, indifferenti
al calore comunitario. Di conseguenza, l'aspetto più vistoso di
questa critica risulta essere quello della rivendicazione di una
democrazia che cominci ad essere declinata a partire dai bisogni,
dalle domande di queste forme di vita e di queste forme di
associazione, che appunto in qualche modo rivendicano i diritti della
corrente calda contro la corrente fredda della procedura democratica.
Tra i sostenitori del ritorno alla comunità e critici nel contempo
delle istituzioni fredde, che non riescono a garantire i nessi
comunitari, ci sono appunto i cosiddetti “comunitaristi”. Può
spiegarci meglio di che cosa si tratta e soprattutto quale provenienza
culturale hanno costoro?
Per individuare la provenienza culturale del comunitarismo
contemporaneo, che ha le sue voci più importanti soprattutto nel
mondo angloamericano dobbiamo ricordare che il comunitarismo oggi non
ripropone meccanicamente o passivamente la classica distinzione, che
risale com'è noto a Ferdinand Tönnies, nell'ultimo scorcio del
secolo scorso, tra comunità e società, cioè la comunità intesa
come una relazione organica fondata su vincoli personali, su vincoli
privati, su vincoli affettivi o parentali, e invece la società, che
sarebbe caratterizzata da legami di tipo appunto sociale, elettivo e
contrattuale.
Direi che il comunitarismo odierno, piuttosto, tende a riproporre il
tema della comunità dopo la società, cioè dopo che abbiamo fatto
esperienza degli effetti del processo di razionalizzazione.
Indubbiamente, all'interno del comunitarismo, che non è un ambito
omogeneo, vi sono posizioni differenziate: si va da posizioni più
fondamentaliste, come per esempio quella di Alasdair MacIntyre, che
riprende le tematiche aristoteliche, addirittura riprende il filone di
un aristotelismo di tipo tomista contro il contrattualismo e quindi
contro tutte le teorie del contratto tipicamente moderne, alla
posizione invece più avvertita, anche se si rifà ad Aristotele, ma
non all'aristotelismo medioevale, di una personalità che io ritengo
tra le più significative e stimolanti della filosofia morale e
politica contemporanea, Martha Nussbaum, alla posizione intermedia di
un Charles Taylor, al liberal-comunitarismo di un Michael Walzer o di
un Richard Rorty.
Quindi, come si può notare, siamo in presenza di un ventaglio
estremamente sfaccettato e variegato di posizioni, le quali hanno
tuttavia un denominatore comune nella diagnosi per cui la democrazia
contemporanea, la democrazia, diciamo, dell'era postmoderna, con la
sua ossessione delle procedure e delle regole formali, in qualche modo
non è in grado di dar conto del bisogno di identificazione simbolica
dei suoi membri. In altri termini, il fattore, l'elemento
dell'appartenenza, nella critica dei comunitaristi, non può essere
interamente risolto nella logica della cittadinanza, gli individui non
possono trovare una identificazione simbolica semplicemente nel fatto
di essere cittadini, eguali davanti alla legge, aventi il diritto al
voto e ai diritti fondamentali, devono in qualche modo essere
considerati anche dei soggetti socialmente e culturalmente specifici,
quindi dei soggetti che vivono una vita reale e per i quali è
necessario sentirsi parte di un contesto culturale. Quindi questo
elemento dell'identificazione simbolica, ripeto, questo elemento
dell'appartenenza come una dinamica mai interamente assolvibile nella
logica della pura cittadinanza, rappresenta il comune denominatore di
una tendenza di pensiero oggi quanto mai agguerrita, ma internamente
differenziata.
Professor Marramao, potrebbe approfondire quali sono i nodi
fondamentali della critica che i comunitaristi esercitano nei
confronti del pensiero liberal-democratico e soprattutto nei confronti
dei neo-contrattualisti e dei neo-utilitaristi? I conceti cardine dei
comunitaristi hanno rilevanza anche nel campo della filosofia
teoretica?
Per individuare il carattere della critica teorica, anzi della critica
filosofica, rivolta dal comunitarismo alle istituzioni
liberal-democratiche e alla teoria liberal-democratica, occorre
ricordare che l'ondata comunitarista nasce, a partire dall'inizio
degli anni Ottanta, soprattutto come critica a un famoso libro del
1971 di John Rawls, uno dei maggiori esponenti della teoria
liberal-democratica, un libro dal titolo Una teoria della giustizia.
In questa critica i comunitaristi tendono ad evidenziare che il
postulato della teoria rawlsiana, come di ogni teoria del contratto,
come di ogni teoria moderna del contratto e dell'associazione
politica, era dato dalla priorità della giustizia sul bene, quindi
della priorità della giustizia distributiva, dell'equità su ogni
altro valore. Nel contestare questa priorità, i comunitaristi
ripropongono un tema classico, classico nel senso proprio di un tema
attinto alla filosofia politica antica, un tema che la modernità
aveva sempre relegato sullo sfondo, cioè il tema del bene.
Ora, proporre la questione del bene nel contesto moderno significa
contestare l'idea che una società si possa reggere soltanto su
criteri di equa distribuzione delle risorse; accanto a questo criterio
occorre in qualche modo attivare il criterio della motivazione dei
singoli e dei gruppi sociali, ma l'elemento della motivazione dei
singoli e dei gruppi sociali non può prescindere dall'idea di una
comunità politica che faccia degli individui e dei gruppi non
soltanto i protagonisti, ma anche il fine, lo scopo dell'associazione
politica stessa. A questo punto le carte si confondono molto, perché
anche in un certo senso per il contrattualismo l'individuo, e non la
società, è il fine dell'associazione; allora qui emerge un complesso
di questioni, che essenzialmente si potrebbero ridurre a questo
interrogativo: in che misura è possibile rendere attuale l'antico
problema del bene come immagine sostanziale della comunità in un
mondo come quello moderno, che ha distrutto ogni idea di
sostanzialità del soggetto, ogni idea di soggetto collettivo che sia
al di sopra dell'individuo?
La critica comunitarista in un certo senso coinvolge direttamente uno
dei presupposti filosofici di ogni teoria moderna del politico, che è
quello che potremmo chiamare la priorità dell'individuo, cioè
l'individualismo metodologico. Nel problematizzare gli assunti
dell'individualismo metodologico i comunitaristi compiono sicuramente
un'opera salutare, che è quella di un approfondimento delle due
categorie che in qualche modo stanno al centro della riflessione
attuale, cioè la categoria di individuo da un lato e quella di
comunità dall'altro.
L'aspetto più squisitamente filosofico della critica comunitarista al
liberalismo e in generale alla dottrina filosofico-politica moderna è
dato dalla rimessa in discussione radicale dell'idea
dell'individuo-atomo. L'autore che ha approfondito più di ogni altro
questo tema all'interno del comunitarismo è sicuramente Charles
Taylor. Taylor sostiene che la premessa della teoria liberale, per cui
gli individui sono i mattoni della società, cioè gli individui sono
gli atomi, gli indivisibili appunto - “individuo” in latino non è
altro che la trasposizione del termine greco “átomos” - “átomon”
- e per cui questo elemento indivisibile è poi la base dell'intero
edificio sociale, ecco questo è per Taylor un presupposto che non
può più reggere, che non si regge più. Taylor nei suoi lavori ha
appunto evidenziato come quello che noi chiamiamo individuo, lungi
dall'essere un già costituito, va spiegato a sua volta con una
complessità di referenti che noi troviamo all'interno della società,
all'interno di una cultura, all'interno cioè di una configurazione
collettiva storicamente determinata, storicamente specifica.
In altri termini, la tesi di Taylor è che ogni individuo ha delle sue
fonti, ha delle sue radici e che di conseguenza in ogni individuo
riecheggiano le voci della società che lo ha costituito. Potremmo
affiancare questo tipo di critica ad un altro versante filosofico che
in qualche modo ha strettamente a che fare con il postmoderno, cioè
all'idea che il soggetto, il cogito, non può essere più assunto come
il punto di partenza della filosofia, il cogito stesso va rimesso in
discussione; in un certo senso quindi vi è un lato del comunitarismo
che interdipende strettamente con la critica postmoderna del soggetto.
È questa, se vogliamo, una conferma ulteriore che per fronteggiare la
sfida comunitarista occorra cogliere che qui abbiamo a che fare non
tanto con un concetto di comunità nel senso tradizionale della
parola, anche se nella versione di Taylor indubbiamente sono
tutt'altro che assenti delle coloriture di tipo romantico,
neoromantico, però nonostante questi retaggi neoromantici, noi
indubbiamente abbiamo a che fare con un concetto di comunità che si
ripropone al di là dell'orizzonte che il moderno aveva dato alla
propria riflessione sulla politica.
In che modo, con il concetto di cultura elaborato da questi
pensatori, si riesce a proporre un modello di pluralismo
etico-politico che si mantenga critico nei confronti
dell'universalismo, come lei ha delineato, e nel contempo non scada
nel relativismo culturale?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto esaminare in che
modo il termine “pluralismo” si è venuto trasformando nel corso
di questo secolo. Il “pluralismo”, che era un termine che
racchiudeva in sé gli elementi del pluralismo appunto politico o
sociale oppure economico, è divenuto oggi un concetto inclusivo del
pluralismo culturale. Da questo punto di vista il riferimento
essenziale per potere affrontare la tematica pluralistica nel mondo
contemporaneo è rappresentato da un autore che si colloca al di fuori
del ventaglio di posizioni proprie del comunitarismo e che è però in
sintonia con alcuni temi del comunitarismo, nella critica per esempio
a quelli che sono i due modelli influenti della filosofia politica
contemporanea, il neoutilitarismo e il neocontrattualismo.
Questo autore è Isaiah Berlin, che nei suoi lavori ha cercato proprio
di sfuggire ai due estremi, alla polarità costituita
dall'universalismo egemonico e dal relativismo. Secondo appunto Isaiah
Berlin, dobbiamo renderci conto che la sfida che oggi assilla le
democrazie contemporanee è la sfida delle culture; dobbiamo
abbandonare, nella filosofia politica, un'idea che per Berlin è
un'idea nefasta e cioè l'idea di una natura umana unica ed omogenea,
a partire dalla quale sono stati progettati i diversi contratti e
anche le diverse utopie politiche moderne. Secondo Berlin, dobbiamo
abbracciare l'idea di una natura umana come una variabile che si
trasforma a seconda del suo distendersi nel tempo, del suo distendersi
diacronico nel tempo, quindi della sua trasformazione storica, ma si
trasforma anche a seconda della diversa latitudine in cui opera;
quindi dobbiamo abituarci all'idea di una natura umana che si
estrinseca in una pluralità di forme culturali, in molteplici
differenze culturali.
Qual è la maniera attraverso la quale Berlin ritiene che si possa
superare questa falsa alternativa, questa Scilla e queste Cariddi
dell'universalismo egemonico, omologante e del relativismo? Crede che
sia una concezione del pluralismo in grado di includere in sé la
dimensione conflittuale, la dimensione del conflitto fra le culture.
Soltanto una democrazia in grado di introiettare e rendere produttivo
il conflitto tra le culture, e di conseguenza anche il confronto
fecondo fra i diversi punti di vista culturali, è in grado di
sopravvivere alla sfida del nostro tempo; non può farlo una
democrazia che presupponga, come natura umana, come contratto, come
utopia politica, un parametro unico di razionalità a cui commisurare
tutte le manifestazioni della vita sociale.
Quando, nel pensiero occidentale, la diversità delle culture
assume un rilievo filosofico?
Lo assume soprattutto con autori cari alla riflessione di Isaiah
Berlin come per esempio Herder e, un po' prima di Herder, Giambattista
Vico, questo grande pensatore italiano che secondo Berlin ha
anticipato i temi del nostro tempo. Dobbiamo probabilmente abituarci a
riflettere sulla condizione spirituale del nostro tempo, pensando che
noi non viviamo oggi più il “momento Hegel” e da questo punto di
vista forse sono inesorabilmente datate tutte quante le ricostruzioni
della condizione spirituale dell'Europa che ripropongono in qualche
modo, anche se con assonanze nuove, risvolti nuovi, la grande diagnosi
hegeliana, il grande disegno hegeliano; dobbiamo abituarci a pensare
alla condizione spirituale del nostro tempo come a una condizione che
è segnata sempre più dal “momento Herder”, cioè dall'idea delle
differenze culturali.
Secondo Herder la caratteristica della storia è data da questa
virtualità della specie umana di differenziarsi culturalmente;
essenziale in questo processo di differenziazione era per Herder per
esempio la differenza linguistica, cioè in altri termini è vero
quello che dice Kant, che tutti gli individui umani sono dei soggetti
etico-trascendentali universali da questo punto di vista, e
purtuttavia non è indifferente la maniera in cui ciascuna cultura, e
ciascun individuo all'interno di una cultura, fa esperienza di certe
categorie universali, di certi valori universali. Ogni cultura, in
altri termini, elabora linguisticamente, e di conseguenza con
un'esperienza sua autonoma specifica, l'universalità dei valori e la
gerarchia di valori che si viene a configurare in ciascuna cultura è
incommensurabile alle altre, cioè non disponiamo di un criterio unico
per poter stabilire quale di queste gerarchie dei valori sia superiore
alle altre, o perlomeno non lo conosciamo preliminarmente, “ex ante”,
lo possiamo conoscere unicamente “ex post”, quando avremo fatto
l'esperienza di un effettivo confronto tra le culture.
Per fare un esempio molto banale, è vero che ciascun individuo umano,
donna o uomo che sia, fa un'esperienza universale della libertà,
della giustizia, ha una sua innata vocazione, in qualche modo, in
quanto è interazionale, che lo porta verso questi valori universali,
e purtuttavia il fatto stesso che in ogni contesto culturale si diano
diverse parole per dire quella stessa cosa, oppure che vengano usate
le stesse parole per intendere esperienze diverse, questo in qualche
modo significa che dobbiamo tener conto anche di questo processo di
differenziazione. Quindi i due poli dell'universalità e della
differenza devono sempre restare in costante tensione fra di loro.
Nella prospettiva teorica multiculturalista e pluralista che lei è
andato delineando, in che modo possono venire ridefinite le categorie
politiche classiche, quali ad esempio “diritto”, “democrazia”?
Qui bisogna dire che il nocciolo razionale della posizione
comunitarista, se è legittimo parlare di “una” posizione
comunitarista, è dato dalla critica alla democrazia puramente
procedurale e quindi dalla critica del diritto come mera regola, mera
tecnica, mera proceduralità. Io credo che il prototipo di questa
critica, all'interno della temperie comunitarista e, qui uso un
termine che ha avuto una notevole fortuna nel dibattito di questi
anni, della temperie multiculturalista, sia dato dalla critica che il
pensiero femminile e anche in buona parte la filosofia femminista, la
filosofia della differenza, ha svolto nei confronti del diritto come
una forma neutra, come una forma neutrale.
Il nocciolo razionale di questa sfida consiste nel dire che non si
può prescindere dall'esperienza decisiva di una società sessuata,
cioè di una società che è innanzitutto divisa longitudinalmente tra
un sesso maschile e un sesso femminile e che trattare - era questo un
po' il senso, l'obiettivo, nella sua prima espressione, della
filosofia della differenza sessuale - in maniera indifferente, in
maniera neutra, dei soggetti differenti, significava in qualche modo
produrre nuove disparità, oppure approfondire la disparità
originaria. Quindi, per questa via, la tematica della differenza
finiva per revocare in questione l'intera orbita concettuale della
filosofia politica occidentale e anche della filosofia teoretica
occidentale, veniva qui rimesso in discussione proprio lo stesso “logos“
occidentale in quanto costituito su questa presunzione di neutralità.
Che cosa è accaduto nella temperie comunitarista e
multiculturalista dei nostri giorni?
È accaduto che quasi per contagio tutte le altre differenze, tutte le
altre differenze culturali, hanno applicato a se stesse il dispositivo
della differenza sessuale per legittimare le proprie rivendicazioni.
Qui sorge un problema dovuto al fatto che, tra la differenza sessuale,
tra questa divisione, questa frattura longitudinale del genere umano
in quanto specie per l'appunto sessuata e gli altri tipi di
differenze, c'è un abisso e che in un certo senso la trasmissione del
dispositivo della politica della differenza dal movimento femminile
per esempio ad altri tipi di movimenti, per esempio alle differenze
etniche o alle differenze confessionali, ha determinato una sorta di
stravolgimento del concetto iniziale di differenza, anche se
naturalmente ha prodotto una radicale rimessa in discussione degli
orizzonti liberal-democratici classici.
Io credo che di qui si debba partire, perché forse qui si annida
anche un altro rischio, che secondo il movimento proprio del “feed-back“,
della “retroazione”, una volta che tutte le altre differenze hanno
fatto propria la politica della differenza, costituendosi in gruppi
che rivendicavano obiettivi specifici funzionali alla propria
identità di gruppo, alle proprie esigenze di gruppo - appunto
differenze confessionali, oppure la differenza gay, oppure altre
differenze di ordine etnico -, ecco, una volta che questo è avvenuto,
si è creato una sorta di feed-back, una sorta di retroazione sullo
stesso movimento femminile, nel senso che anche le donne
probabilmente, soprattutto nella società nordamericana, Stati Uniti e
Canada, hanno iniziato ad atteggiarsi, a comportarsi come una lobby,
come una differenza fra le altre. Ma è un interrogativo molto serio,
che ormai è diciamo entrato con forza nel dibattito interno alla
cultura femminile e anche alla stessa filosofia femminile, è proprio
un dibattito molto forte quello fino a che punto questa forma di
organizzazione della politica della differenza appunto rappresenti una
differenziazione o non piuttosto una profonda alterazione del
principio, del criterio della differenza in senso originale.
Rimanendo ancora su queste ultime questioni che lei ha trattato,
non le sembra che la ridefinizione in senso pluralista della
democrazia, l'accentuazione del ruolo delle differenze, delle
particolarità culturali, rischia di travolgere insieme
all'universalismo astratto anche quanto di positivo e di
irrinunciabile è stato espresso dalla tradizione liberal-democratica,
come ad esempio la difesa dei diritti umani, il principio
dell'uguaglianza, della parità di condizioni?
Indubbiamente questo rischio sussiste nel momento in cui tutte le
differenze, ad onta del nome che assumono, di “differenza”
appunto, si atteggiano come differenze blindate, interessate
unicamente a demarcare nettamente i propri ambiti di competenza e di
appartenenza, con clausole più o meno rigide di esclusione e di
inclusione, e di conseguenza più che in qualche modo dinamicizzare la
democrazia contemporanea nella direzione di nuove esperienze di
attraversamento, tendono a configurarsi come delle identità in
sedicesimo, come monadi senza porte né finestre, come delle
autoconsistenze insulari, che demarcando i confini determinano anche i
codici di relazionamento reciproco; il “politically correct” non
è altro che il braccio secolare di questa concezione e il “politically
correct” negli Stati Uniti e in Canada è addirittura segnato da una
vera e propria ossessione per la purezza linguistica; ciò che
interessa a queste differenze blindate è che i rispettivi confini non
vengano mai violati, nemmeno dal punto di vista linguistico, anche la
parola può costituire una violazione della propria autoconsistenza
insulare.
Ecco, io credo che qui indubbiamente si annidi un pericolo, che
sicuramente è quello di una crescente richiesta di trattamento
giuridico e amministrativo differenziale, in cui alla fine prevarranno
inevitabilmente le ragioni della gruppo, della lobby, che in quel
momento è più forte, e quindi uno stravolgimento, un'alterazione
molto forte di quella idea del diritto eguale che rappresenta una
importantissima conquista evolutiva della società occidentale,
quell'idea della universalità della legge. Vi è tuttavia in queste
rivendicazioni del “politically correct” e della politica della
differenza a mio avviso un elemento importante, che si potrebbe
riassumere nell'esigenza di spostare la battaglia per i diritti
dall'ambito della vecchia lotta per la tolleranza, che poi era una
lotta che presupponeva un potere gerarchico assoluto al quale
occorreva strappare una serie di prerogative, di garanzie, alla
battaglia invece, alla lotta, per il rispetto. Io credo che questo
transito dalla dimensione della tolleranza alla dimensione del
rispetto sia qualcosa di potenzialmente nuovo e positivo, cioè i
soggetti non chiedono più di essere tollerati, per la semplice
ragione che la tolleranza, proprio come idea, presuppone, sin nella
sua logica di costituzione oserei dire, la possibilità o il potere di
non tollerare, di quel potere che tollera.
Questo è un elemento che era già chiaro, che era già chiaro
addirittura negli ultimi anni del Settecento agli stessi rivoluzionari
francesi, questi diciamo limiti dell'idea di tolleranza, che in
qualche modo è un'idea che implica anche che chi tollera potrebbe non
tollerare, mentre la lotta per il rispetto, una politica che abbia
come obiettivo il rispetto, il rispetto di ogni cultura di essere
riconosciuta come tale, cioè il rispetto di ogni cultura che richiede
di essere riconosciuta in quanto tale, il rispetto di ogni soggetto
sociale che vuole essere accettato non in quanto eguale all'altro ma
anche nella sua differenza e specificità, questo credo che sia un
fatto molto importante.
Il limite e il pericolo, il pericolo vero, sta nel fatto che
all'interno della concezione multiculturalista, e soprattutto in certe
versioni del comunitarismo, sembra che i diritti siano appannaggio
pressoché esclusivo delle comunità, siano appannaggio esclusivo del
gruppo, inteso come entità omogenea, come il vero interlocutore e
soggetto della dinamica democratica e non si fa quasi mai parola dei
diritti dei singoli, degli individui all'interno di questo stesso
gruppo; in altri termini, un individuo un singolo donna o uomo che
sia, il quale non si senta a casa propria, non si senta appartenente a
nessuna delle lobbies, ha ben poche chances di vedere appunto
riconosciuti i propri diritti in quanto singolo cittadino o singola
cittadina. Ecco, questo è a mio parere il vero rischio che corre la
democrazia occidentale nella temperie attuale.
Tra le proposte teoriche più rilevanti e dibattute della filosofia
contemporanea troviamo da un lato la cosiddetta “comunità
illimitata della comunicazione”, propugnata da Apel e da Habermas e
caratterizzata da un’istanza di fondazione “forte”,
trascendentale dell'etica e dell'agire umano. Dall'altro lato invece
c'è il pensiero, ad esempio, di Derrida, il quale è persuaso della
necessità di abbandonare ogni sorta di fondazione metafisica forte e
si fa sostenitore di una comunità senza fondamenti. Come vede,
Professor Marramao, lo scontro tra coloro che sollevano l'esigenza di
una razionalità fondativa e coloro che invece intendono rinunciarvi?
Io non mi identifico in nessuna delle posizioni che lei ha chiamato in
causa adesso, pur rispettandole tutte evidentemente. Ha fatto bene ad
evocare la posizione di Apel e di Habermas, perché Apel e Habermas
pongono un problema molto serio e cioè dicono in sostanza che il
limite delle filosofie comunitariste, il limite comune a tutte le
versioni del comunitarismo, consiste nel partire dalla comunità come
un dato di fatto, per usare un'espressione filosofica più tecnica da
un “a priori fattuale”: la comunità si dà, la comunità c'è; il
limite, potremmo dire, di tutte le varianti del comunitarismo
anglo-americano consiste nel dire che la comunità c'è, si dà, è un
fatto. Sia Apel che Habermas ritengono che su un tale a priori
fattuale non si possa costruire una vera e propria posizione
filosofica e che la fattualità non sia un argomento, che occorra
fondare filosoficamente, quindi attraverso un procedimento
argomentativo, l'esigenza della comunità. Ma qual è il procedimento
argomentativo che essi adottano? È il procedimento argomentativo che
in qualche modo si rifà, pur nelle notevoli differenze tra la
versione di Apel e quella di Habermas, al grande disegno kantiano, al
disegno di Kant e di conseguenza all'“a priori” fattuale viene
contrapposto un “a priori” trascendentale.
Io ritengo che neanche questa posizione sia una posizione valida, come
ritengo anche scarsamente persuasiva, anche se sicuramente suggestiva,
la soluzione data da altri filosofi in Francia, come per esempio
Jacques Derrida o alcuni altri intellettuali variamente legati a
Derrida stesso, come Jean-Luc Nancy o Philippe Lacoue-Labarthe. Non mi
identifico in queste posizioni perché credo che tra la posizione che
pone la comunità come a priori fattuale e la posizione che pone la
comunità come un a priori trascendentale oppure come una sorta di
reimpostazione antimetafisica, antifondamentalistica del tema
comunitario, rimanga sostanzialmente eluso un nodo, che è il nodo del
simbolico, e cioè qual è il luogo simbolico dell'essere in comune,
dell'esistenza in quanto essere in comune; e qui io credo che una
effettiva reimpostazione del tema della comunità rispetto all'intero
dibattito non possa evitare di confrontarsi con l'inadeguatezza delle
teorie sociali e politiche del simbolico che fino ad ora sono state
sviluppate. Io credo che una sfida potrebbe essere quella di opporsi
all'idea corrente del simbolismo culturale come un fattore di mera
differenziazione e specificazione, cioè come dire: nel dibattito
culturale contemporaneo, forse per influenza dell'antropologia, ogni
qual volta entra in campo il simbolico, entra in campo per operare una
netta differenziazione tra una cultura e l'altra.
Come ho scritto in alcuni miei lavori, da un certo punto di vista
l'antropologia è forse la più etnocentrica delle discipline
occidentali ed è etnocentrica non soltanto perché si è costituita
come sapere di una società che è vissuta attraverso il colonialismo
per tanto tempo, ma soprattutto è etnocentrica quando non fa altro
che rovesciare la prospettiva dell'universalismo, e la rovescia in un
relativismo che in qualche modo si manifesta nell'idea della
incommensurabilità delle culture; nell'affermare il simbolismo
culturale nei termini di una irriducibilità delle singole culture e
dunque di una loro incommensurabilità, l'antropologia culturale non
fa che rovesciare il guanto dell'universalismo egemonico. Credo che
bisognerebbe cominciare a riflettere, invece, sullo spazio del
simbolico come uno spazio che non separa le culture le une dalle
altre, ma come uno spazio di possibile transito tra le culture.
Siamo realmente certi che il simbolico si manifesti soltanto nella
differenziazione? Non possiamo cominciare a pensare al simbolico
invece come quella dimensione in cui le culture ritrovano fra di loro
quei punti in comune che non possono essere dati dalla pura logica
della comunicazione razionale, dalla pura logica del confronto fra
argomenti razionali - che poi è il limite di Apel e di Habermas.
Nell'idea del confronto tra modelli argomentativi in qualche modo
l'Occidente rischia di riproporre la propria volontà egemonica,
questa volta tramite un dispositivo di persuasione, certamente non
più con velieri e cannoni, tramite una nobile volontà di persuasione
che il nostro universalismo è migliore delle altre culture. Ora io
credo che non si debba rinunciare all'universalismo, anzi non
rinuncio, mi colloco all'interno dell'universalismo, ma ritengo che
l'universalismo non possa sopravvivere se non diviene un fattore, un
veicolo di confronto fra esperienze culturali diverse. Se a
confrontarsi non sono più, appunto, modelli persuasivi argomentativi,
ma sono viceversa esperienze reali, di donne e uomini concreti che
vivono in diversi contesti culturali, e se attraverso questo confronto
emergono i nodi simbolici comuni a tutte le culture, se si farà
questo, forse il grande sogno di una umanità che sia capace di
comunicare nel senso della libertà e dell'emancipazione non sarà
soltanto un sogno; altrimenti avremo l'incubo ad occhi aperti che ci
viene promesso da una idea di differenze blindate, regolate unicamente
da criteri draconiani di correttezza politica.
Chi è Giacomo Marramao
Nato a Catanzaro nel 1946, Giacomo Marramao ha compiuto i suoi studi
presso le Università di Firenze (dove si è laureato in Filosofia nel
1969 sotto la guida di Eugenio Garin) e di Francoforte (dove ha
soggiornato dal 1971 al 1975). Tra il 1976 e il 1995 ha insegnato
Filosofia della politica e Storia delle dottrine politiche presso
l'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Attualmente è
professore ordinario di Filosofia politica presso il Dipartimento di
Filosofia e Scienze Sociali dell'Università di Roma Tre. È inoltre
direttore scientifico della Fondazione Basso-Issoco e membro del
Collège international de philosophie di Parigi. Come Visiting
Professor ha tenuto corsi e conferenze in numerose università
europee e americane. All'inizio degli anni Ottanta è stato
co-fondatore di influenti riviste, come: “Laboratorio politico” e
“Il Centauro”. Attualmente è membro del Comitato scientifico di
“Iride”.
La ricerca di Giacomo Marramao - sollecitata soprattutto dallo
storicismo della scuola fiorentina di Eugenio Garin e dagli sviluppi
della teoria critica francofortese - si è rivolta in una prima fase
ad alcuni tratti e momenti salienti della crisi e della revisione del
marxismo italiano ed europeo, ponendo al centro lo statuto filosofico
del concetto di “praxis”. A partire dalla fine degli anni
Settanta, la sua riflessione è venuta sempre più raccogliendosi
attorno a due centri gravitazionali: la tematica del potere e la
questione del tempo. Riguardo al primo aspetto, Marramao ha iniziato a
delineare una nuova teoria del potere imperniata (al di là della
tradizionale opposizione di analitica ed ermeneutica), su una rigorosa
ricostruzione genealogica dei presupposti del razionalismo
occidentale. Per quanto concerne il secondo aspetto, egli ha invece
sviluppato, in lavori fortemente caratterizzati sotto il profilo
teoretico, una radicale reimpostazione del problema del tempo, che, in
polemica con le filosofie bergsoniane o heideggeriane della “temporalità
autentica”, sottolinea l'inestricabilità del nesso di tempo e
spazio.
Ricordiamo di Marramao: Marxismo e revisionismo. Dalla
"Critica sociale" al dibattito sul leninismo, De Donato,
Bari, 1971; Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due
guerre, La Pietra, Milano, 1977; Il politico e le
trasformazioni: critica del capitalismo e ideologie della crisi tra
anni Venti e anni Trenta, De Donato, Bari, 1979; Potere e
secolarizzazione: le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma,
1983; L'ordine disincantato, Editori Riuniti, Roma, 1985; Minima
temporalia. Tempo, spazio, esperienza, Il Saggiatore, Milano,
1990; Kairòs. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari,
1992; Cielo e terra. Geneaologia della secolarizzazione,
Laterza, Roma-Bari, 1994; Dopo il Leviatano. Individuo e comunità
nella filosofia politica, Giappichelli, Torino, 1995. Ha curato: Tecnologia
e potere nelle società post-liberali, Liguori, Napoli, 1981; (con
e. fano e s. rodotà) Trasformazioni e crisi del Welfare, De
Donato, Bari, 1983.
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