Letti per voi/Il
senso comune dell'arci italiano
Ezio Mauro
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Questo editoriale è apparso su la
Repubblica del 5 giugno
Se fosse soltanto una gaffe estiva, da stress di fine stagione, si
potrebbe lasciar passare senza commento l'attacco forsennato e
incomprensibile di Silvio Berlusconi al Commissario Tecnico della
Nazionale italiana di calcio, il giorno dopo la sconfitta in finale
agli Europei. In fondo, ventitré milioni di italiani hanno seguito in
televisione la finale con la Francia, hanno sperato nella vittoria
fino a quell'ultimo maledetto minuto, si sono poi trovati a fare i
conti con una sconfitta immeritata, mentre gli atleti azzurri
piangevano sul campo.
Ognuno di noi, ognuno di quei ventidue milioni, ha la sua formazione
ideale in tasca, la sua tattica privata, la sua mossa vincente, e
ognuno ne ha parlato con gli amici nell'amarezza della sconfitta,
quando il tifoso rigioca mille volte, inutilmente, i momenti decisivi
della partita. Figuriamoci se non ha il diritto di fare la stessa cosa
il Cavaliere, notoriamente appassionato di calcio, proprietario del
Milan, vincitore di coppe e scudetti, buon intenditore di campioni. E
tuttavia, qualcosa per una volta ha funzionato a rovescio, nel
meccanismo ultracollaudato della comunicazione berlusconiana.
Non si tratta soltanto di tempi, modi e toni, tutti sbagliati e tutti
insieme, con il risultato di mettere Berlusconi contro il patriottismo
calcistico degli italiani, l'unico sentimento in grado di cementare il
Paese da Nord a Sud, almeno per novanta minuti. No: questa volta c'è
qualcosa di diverso, qualcosa di inedito - ancor più della
dissociazione di Fini e di Casini, che è tutto dire, qualcosa di
profondo e di rivelatore, su cui vale la pena di riflettere.
Il duello spettacolare e mai visto in precedenza, nemmeno nella Prima
Repubblica, tra il leader dell'opposizione e il Commissario Tecnico
della Nazionale, è infatti una metafora perfetta della trasformazione
in corso nella politica italiana, ed è insieme il paradigma quasi
scientifico del berlusconismo nel momento in cui si fa politica, e
dunque comunicazione, messaggio, cultura, partecipazione e
rappresentanza. Un osservatore acuto come Biagio De Giovanni ha detto,
tempo fa, che il Cavaliere è vincente perché riesce a trasformare i
suoi temi politici nel senso comune degli italiani.
E' vero, e si tratta di un'operazione alchemica di enorme portata, e
naturalmente vincente. In altri tempi e sotto altre culture, si
sarebbe parlato di una capacità di egemonia culturale di massa. E
simmetricamente, si potrebbe aggiungere che Berlusconi si pone oggi
come l'interprete principale del senso comune degli italiani, pronto a
trasformarlo in politica, e a dargli rappresentanza.
Anche questa non è un'operazione da poco. Il Cavaliere è dunque
l'inventore e il rappresentante dell'ultimo tipo di comunismo
legittimato a operare in Italia: il "sensocomunismo", e
cioè quella ricerca costante dell'umore medio del Paese,
quell'inseguimento di sentimenti e risentimenti diffusi, per tararli
nei sondaggi ed assumerne il volto visibile sulla scena politica. Per
fare questo, e farlo con metodo, occorre avere un partito ferreo
nell'applicazione delle parole d'ordine, duttile fino all'estremo per
quanto riguarda invece quegli impacci che sono i valori, la storia, la
tradizione, gli ideali e i programmi.
Esattamente così è Forza Italia. Un partito che fin dal nome
trasmette un'invocazione patriottica e sentimentale senza alcun
impegno politico, storico e culturale, in modo da consentire al
leader, nel veloce cambio di una breve stagione, di passare dal
radicalismo di destra con Fini al popolarismo europeo con Cossiga, dal
maggioritario al proporzionale, dall'invocazione dell'amnistia al no
all'indulto. Esattamente come in un pomeriggio è passato dal gioco a
zona del suo Milan alla richiesta di una marcatura a uomo per Zidane.
L'inseguimento continuo del senso comune italiano da rappresentare,
comunque e sempre, prevede una concezione gregaria e quasi servile
della politica, che rinuncia ad applicare il suo filtro di valori agli
interessi in gioco, e dunque a mediarli, indirizzarli e guidarli; e
costringe anche a qualche equilibrismo logico, inseguendo e vellicando
con una mano le nuove paure che nascono dalle insicurezze
metropolitane, mentre con l'altra mano si traffica per un'amnistia che
cavalchi la spinta morale del Papa per arrivare invece fino ai reati
di Tangentopoli. Ma tant'è. Una politica trasformata in pura
interpretazione del senso comune italiano non prevede rendiconti,
spiegazioni, dibattiti, tantomeno coerenze. Lo ha detto benissimo ieri
sul "Corriere della sera" un intellettuale come Lucio
Colletti, che ha sposato Berlusconi, ma non rinuncia a studiarlo da
vicino con un fascino orripilato: "Nella pentola delle streghe
stanno ormai cuocendo gli ingredienti di un personaggio politico di
tipo nuovo, capace di mettersi in filo diretto con gli umori profondi
di una parte del Paese".
Ciò che sta nascendo, in realtà, è qualcosa di più, e per questo
vale la pena di parlarne, e di guardare alla gaffe nei confronti di
Zoff come ad una rivelazione. Noi siamo davanti all'embrione di un
moderno populismo all'italiana, qualcosa di antico e di modernissimo
insieme, com'è tipico di tutta la vicenda berlusconiana, dove si
mescolano il Caf e l'imprenditorialità televisiva, la P2 e la new
economy, il Grande Fratello e la vecchia dc. Il populismo è la
trasformazione del senso comune in struttura politica: in una parola,
il suo ideologismo. Gli ingredienti sono semplici: un capo carismatico
(e Berlusconi lo è fuori da ogni dubbio), un partito sottomesso e
senza troppe pastoie di democrazia interna, un pizzico di megalomania,
un po' di culto moderno della personalità, la mancanza di vincoli
culturali, ideologici e di tradizione con il passato, in modo da poter
interpretare direttamente le emozioni della gente più che le mozioni
del ceto dirigente. In più, la semplificazione costante della
politica, dei suoi contenuti e dei suoi scontri, in parole d'ordine e
slogan che sono magari primordiali ma bucano il muro
dell'incomunicabilità alzato dal dibattito politico quotidiano e
dalla sua confusione indistinta.
La figura del Capo, in questo schema, deve per forza di cose
ondeggiare tra l'autoritarismo e il paternalismo, battute, rimproveri
e rassicurazioni. Il Capo è un Gran Simpatico, perché la simpatia è
un aspetto decisivo non solo della comunicazione, ma anche della
semplificazione. Un Capo che ha diritto di parola su tutto, è
l'opposto del tecnico ma è anche diverso dal politico di professione:
piuttosto, è l'outsider che ha sbaragliato il campo o promette
continuamente di farlo, è per definizione infallibile, ed è la
misura di tutto, perché ogni cosa riporta a lui, essenso la massima
semplificazione della politica il leaderismo assoluto.
In qualche modo, ritorna la cuoca di Lenin. Il populismo è infatti
l'esaltazione del dilettantismo al potere, un dilettantismo
naturalmente scientifico, apparente e studiato, che taglia corto con i
rituali che appesantiscono la politica e con le liturgie d'altri
tempi, sostituendoli con una carica di presunta
"ingenuità". E naturalmente, in una moderna società di
massa, lo sport diventa il terreno privilegiato per le incursioni
fuori porta del nuovo populismo politico. Bisogna dunque ammettere, a
sua discolpa, che Berlusconi ha parlato della Nazionale perché lo
obbligava a farlo la natura politica in cui si è incarnato, quella
del moderno populista. E ne ha parlato in quei modi perchè quello è
il linguaggio naturale del populismo applicato allo sport: un
linguaggio da patron più che da futuro presidente del Consiglio, che
ricorda Achille Lauro in grande, e in piccolo quei presidenti di
provincia alla Gaucci: quelli che pagano, e dunque parlano, e avendo i
soldi si suppone che capiscano anche il calcio.
Se tutto questo è vero, Berlusconi ha recitato la sua parte,
attaccando Zoff subito dopo la sconfitta. Solo, ha recitato troppo. E'
andato oltre. Oltre il senso comune italiano, arrabbiato per la
sconfitta, ma non ancora così maramaldo da trasformare in poche ore
gli atleti battuti in colpevoli da sacrificare. Oltre la
semplificazione abituale, oltre lo sport nazionale di stare con i
vincitori e deridere i perdenti, oltre il paesaggio offerto dal suo
strumento principe, la televisione, che ha consentito agli italiani di
farsi una loro idea della partita.
Insomma, Berlusconi ha rivelato di essere non l'italiano medio, come
vorrebbe e pretende, ma l'arcitaliano. Arcitaliano a tal punto da non
calcolare chi aveva di fronte, e cioè un antitaliano come Dino Zoff.
Un uomo che se ne infischia di apparire e di sorridere, l'unico
italiano dopo Cuccia che potrebbe mandare in bianco il Gabibbo
uccidendolo di silenzio, uno che sembra vivere in un'era eterna di
televisione in bianco e nero, uno che probabilmente pensa che il
Grande Fratello sia il più alto dei due De Boer, gli olandesi
terribili. Un uomo però che viene dallo sport giocato (e giocato da
campione), che conosce le regole di quel mondo e davanti all'invasione
di campo del Cavaliere lo ha semplicemente messo in fuori gioco,
rivelando per la prima volta il limite del grande dilettante. E' un
limite che la sinistra, sorda e cieca, non ha ancora capito. E invece,
ecco qui spuntare un dubbio: siamo proprio sicuri che l'Italia del
Duemila debba farsi rappresentare da un Arcitaliano e non - se ci
fosse - da un italiano normale?
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