Mezzo secolo tra Roma e Mosca
Silvio Pons
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Mezzo secolo tra Roma e Mosca
La seguente relazione, con il titolo «L'Urss e il Pci nel sistema
internazionale della guerra fredda» è stata presentata al convegno «Il Pci
nellItalia repubblicana. Contributi per una storia nazionale e internazionale»,
organizzato a Roma dalla Fondazione Gramsci nei giorni 25-26 maggio 2000. Ne pubblichiamo
una versione non rivista e priva di note, da non citare senza il consenso dell'autore.
La fine del comunismo ha prodotto nella coscienza dei contemporanei la ricomposizione
retrospettiva di un fenomeno sostanzialmente unitario del XX secolo, la cui vita coincide
con quella dell'Urss. Le conoscenze portate dall'apertura degli archivi convergono nel
mostrare la rilevanza del legame con Mosca di tutti i PC, anche dopo la seconda guerra
mondiale. L'interrogativo è se e in quale misura tutto questo debba portarci a
interpretare il Pci del secondo dopoguerra essenzialmente in chiave di "partito
internazionale".
Nel corso del passato decennio è ampiamente affiorata la tendenza neo-ortodossa a
ristabilire una linea storiografica sul comunismo internazionale elaborata in occidente
nell'epoca della guerra fredda (fondata sulla categoria dell'eterodirezione), con
l'intento di sgombrare il campo dalla storiografia sul Pci in chiave di "partito
nazionale" (fondata sulla categoria dell'autonomia).
La forte influenza avuta in passato da quest'ultima storiografia in Italia, e il suo
aperto legame culturale con il partito comunista, possono forse spiegare lo spirito di revanche
che si è rivolto negli anni più recenti contro di essa. Ma è lecito dubitare che una
resa dei conti tra vecchie storiografie produca risultati all'altezza delle nostre
esigenze di comprensione storica. Il rischio è quello di annullare il distanziamento da
un fenomeno che fa ormai parte del passato e di ridurre la ricchezza delle nuove fonti.
La visione unitaria del fenomeno del comunismo deve essere concepita come il presupposto
di un'analisi storica capace di distinguere le diverse fasi e le diverse componenti del
fenomeno. Nello stesso tempo, come è ovvio (o dovrebbe esserlo), la documentazione
d'archivio non produce semplici certezze, ma presenta invece un'evidente complessità e
problematicità (non soltanto per la differenza tra gli archivi a carattere
"nazionale" conservati a Roma e quelli a carattere "internazionale"
conservati a Mosca: l'intreccio tra le due fonti non produce risposte univoche).
Il presente paper si propone di sostenere la centralità del legame con l'Urss nella
storia del Pci del dopoguerra, mostrando come entrambe le categorie sopra menzionate
(autonomia e eterodirezione) siano limitate e addirittura prive di senso compiuto in una
lettura di lungo periodo, volta a ricostruire le tappe principali del rapporto tra Pci e
Urss dalla seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda.
Una corposa storiografia di orientamento comunista ha visto la
"nazionalizzazione" del Pci nella storia repubblicana non come un processo
dotato di connotati peculiari, ma come il frutto immediato di un'elaborazione autonoma,
largamente preesistente alla seconda guerra mondiale. Essa ha colto in modo unilaterale
l'elemento costituito dal binomio classe-nazione quale portato dell'esperienza
antifascista, rimuovendo sostanzialmente l'aspetto internazionale della questione, se non
per identificare nell'Urss un mero fattore di freno alla elaborazione dei comunisti
italiani o al fine di confutare la dipendenza del Pci da uno Stato-guida.
In sintesi, questa storiografia proietta sulle origini della repubblica un'idea di
autonomia affermata dal Pci soltanto più tardi, e mai compiutamente realizzata. Il fatto
è che, malgrado l'evoluzione conosciuta dai suoi rapporti internazionali e malgrado il
suo affrancamento da un rapporto di tipo gerarchico, il Pci mantiene fino alla fine un
riferimento all'Urss (la trasformazione del Pci si compie simultaneamente alla
dissoluzione dell'Urss).
Ciò significa che non soltanto il concetto di "autonomia" non può essere
assunto come un dato originario, ma che esso stesso rimanda sempre alla permanenza di un
nesso: per entrambi i motivi, questo termine è fuorviante e povero di significato ai fini
di una comprensione storica del Pci.
La tesi dell'eterodirezione proietta su un partito radicato nella società nazionale il
dato originario della sua genesi "internazionalista", accentuato dalla
prolungata condizione di clandestinità negli anni del regime fascista. Essa presenta
limiti speculari alla tesi dell'autonomia. L'esperienza antifascista viene svalorizzata e
svuotata di significato, se non per rimarcarne l'impiego strumentale ai fini di
un'autolegittimazione. Il Pci viene visto non soltanto come un partito dipendente dagli
orientamenti dell'Urss, ma come il braccio operativo di un preciso disegno politico.
Il problema è che una simile categoria viene concepita come connaturata all'esistenza
stessa del movimento comunista: ma la sua tenuta nel lungo dopoguerra è insostenibile, a
meno di non voler pensare, contro ogni evidenza, che il Pci venne diretto da Mosca fino ai
suoi ultimi giorni.
Un'analisi del processo di consunzione del legame con l'Urss porta a mettere in
discussione la visione di un soggetto "eterodiretto" sin dalle prime fasi della
storia repubblicana del Pci, perché l'implicito richiamo a un sistema di comando che
esclude l'interazione, nonché a una politica coerente e pianificata, ci appare inadeguato
a illuminare la natura ambigua degli stessi caratteri fondativi della politica comunista
nel dopoguerra, che sono all'origine dell'evoluzione successiva.
Il problema che si pone agli storici è, a mio giudizio, quello di riconoscere il
carattere centrale del rapporto tra Pci e Urss sotto il profilo dell'identità, della
cultura politica e dei principali orientamenti dei comunisti italiani nella politica
internazionale, senza per questo ricadere nelle polemiche storiografiche dell'epoca della
guerra fredda.
Non mi pare che la questione sia stata compiutamente trattata dagli storici che prima
dell'apertura degli archivi si sono mostrati più attenti ad essa, mantenendosi però
nell'ambito della coppia concettuale autonomia-eterodirezione. Anche lavori più recenti,
che hanno contribuito a illuminare il ruolo fondamentale dell'Urss nella realtà
postbellica del Pci, restano incentrati su questa polarità limitandosi a spostare tutto
l'accento sul secondo dei due termini.
Il punto di partenza è la preponderanza dell'elemento internazionale nella rifondazione
del Pci all'indomani della seconda guerra mondiale, la priorità negli orientamenti del
Pci degli interessi dell'Urss (o dell'interpretazione che ne veniva data di volta in volta
dagli stessi comunisti italiani) e la primogenitura del Pci nel sistema delle doppie
lealtà destinato a segnare la vicenda della repubblica.
Il legame con l'Urss quale centro costituente del comunismo ha come conseguenza la
collocazione del Pci in una posizione anomala nel sistema internazionale: consumatosi
rapidamente lo spazio garantito dai rapporti tra i Tre Grandi, lo scoppio della guerra
fredda destina il Pci al ruolo di un avamposto in campo avverso (una posizione unica,
assieme al Pcf, e priva di simmetria inversa, data la natura totalitaria dei regimi del
blocco sovietico).
L'evoluzione subìta dal sistema bipolare produce però conseguenze rilevanti, che
evidenziano contraddittori aspetti di continuità e di cambiamento. Sia nell'epoca del
bipolarismo poststaliniano, sia in quella della distensione, i sovietici continuano a
lungo a considerare il Pci come un caposaldo di una "guerra di posizione" con
l'occidente (e a sostenerlo con generosi finanziamenti), ma la loro politica fornisce
punti di appoggio sempre più aleatori: acuisce la divisione dell'Europa, contribuisce
alla disgregazione del movimento comunista internazionale, risulta distante nelle sue
ambizioni globali e minacciosa nella sua evidente interdipendenza con un regime
totalitario e oppressivo.
Il Pci conosce una graduale erosione dei diversi aspetti del suo legame con l'Urss (prima
quelli politici, poi quelli mitici e ideologici) e diviene sempre più permeabile alla sua
reale collocazione internazionale nell'Europa occidentale, ma senza che ciò porti a
interrompere il legame (incluso il suo lato materiale) fino a pochi anni prima della
caduta del muro di Berlino.
Il rapporto del Pci con l'Urss presenta perciò carattere di lungo periodo, che mantiene
un rilievo essenziale fino alla fine della guerra fredda.
Guerra fredda e bipolarismo: il legame forte
Le principali scelte del Pci nella politica internazionale del 1944-48 furono coordinate o
subordinate alla politica estera dell'Urss. I contenuti della "svolta di
Salerno" vennero concordati tra Stalin e Togliatti alla vigilia della partenza di
quest'ultimo per l'Italia, alla luce della decisione di Mosca di riconoscere il governo
Badoglio. Tre anni più tardi, Togliatti si adeguò prima alla decisione di Stalin di far
opposizione contro il Piano Marshall, e subito dopo alla creazione del Cominform e del
"campo socialista".
Nel 1944 come nel 1947, con esiti diversi, la scelta di un ruolo di governo o di
opposizione per il Pci venne compiuta prima a Mosca che a Roma: nel primo caso, la scelta
contribuì a legittimare il Pci nella società nazionale come una forza determinante della
nascente repubblica; nel secondo caso, contribuì in modo sostanziale alla sua sconfitta
elettorale dell'aprile 1948.
Ciò è più che sufficiente per rimarcare la preponderanza dell'elemento
"internazionale" nelle origini del "partito nuovo" e la continuità
dell'identificazione dei comunisti con gli interessi statali dell'Urss. Ma ci si deve
chiedere se sia anche sufficiente per isolare questo elemento e per sostenere che gli
orientamenti del Pci furono integralmente pilotati da Mosca, secondo un preciso piano
espansivo del comunismo in Europa.
A mio giudizio, non è possibile fornire seriamente una risposta positiva a questa
domanda, per almeno due motivi:
a) perché non vi è traccia di un grand design e persino di un'autentica coerenza
della politica estera di Stalin (tale non può essere considerata la fede in un'Europa
socialista, inscritta nella cultura bolscevica delle origini, ma anche sfumata in un
futuro indefinito);
b) perché possediamo evidenza di contraddizioni e contrasti all'interno del movimento
comunista (il cui nucleo va individuato dalla scelta pro o contro l'abbandono della
tradizione del "partito della guerra civile", risalente alla rivoluzione
bolscevica).
Questi due punti evitano deliberatamente di ricorrere allo schema di una tensione tra
centro e periferia, tra Mosca e i PC "nazionali": anche se l'aggancio con i
contesti nazionali giocò un ruolo significativo nell'influenzare in modi diversi gli
indirizzi di molti PC, il carattere contraddittorio della politica comunista appare un
dato più complesso e trasversale che investe anche il cuore del fenomeno, la politica
sovietica.
La formazione e la mentalità stesse dei dirigenti comunisti imponevano un ancoraggio
incrollabile agli orientamenti dell'Urss, e Togliatti non fu certamente un'eccezione.
Tuttavia, aspetti essenziali della politica del Pci vennero formulate dallo stesso
Togliatti, o in un'interazione con i sovietici, o in un vuoto di direttive da parte di
essi. Indirizzi diversi si delinearono sin dall'inizio, sia tra i sovietici, sia nel Pci,
influenzando le scelte politiche generali.
Questi rilievi non sono rivolti a modificare il giudizio sulla dipendenza del Pci
dall'Urss, ma soltanto a contestualizzarlo storicamente. A nostra conoscenza, furono di
Togliatti le prime formulazioni della opzione moderata e "governativa" del Pci,
nella seconda metà del 1943; fece seguito, all'inizio del 1944, una opzione opposta,
intransigente e antimonarchica; questa venne ribaltata nell'incontro con Stalin del 3-4
marzo 1944, che segnò il definitivo varo dell'opzione moderata.
Oggi possiamo perciò documentare che Togliatti oscillò tra diverse posizioni e che
l'intervento di Stalin fu decisivo nella scelta finale: è abbastanza per demolire
definitivamente la mitologia comunista sul carattere indipendente delle scelte originarie
del leader del Pci. Nello stesso tempo, la documentazione di cui disponiamo consente di
ricostruire le fonti e le motivazioni principali dell'intero processo.
E' però singolare, ma probabilmente significativo, che invece questa documentazione sia
stata prevalentemente letta alla luce dell'impulso iniziale (autonomia) o alla luce
dell'esito (eterodirezione), senza tenere conto adeguatamente né degli orientamenti della
politica estera italiana, né di quelli della politica estera sovietica (se non per
rimarcare l'ovvio legame tra il riconoscimento sovietico di Badoglio e la decisione ultima
di Stalin).
In realtà, la decisione di Stalin fu il punto di arrivo di un lungo e contorto processo
decisionale: il problema è allora di ricostruire questo processo nelle sue dinamiche e
nelle sue componenti, per quanto ci è consentito dalla documentazione disponibile (presa
nel suo complesso, e non in singoli spezzoni).
In questa luce, emerge chiaro che le oscillazioni di Togliatti furono legate a quelle
della politica estera dell'Urss verso l'Italia. Essa presentò infatti sin dalla
Conferenza di Mosca dell'ottobre 1943 due diverse opzioni circa l'atteggiamento da tenere
verso il governo Badoglio, l'una intransigente (liquidazione) sostenuta da Molotov alla
vigilia dei lavori, l'altra conciliante (riorganizzazione) che si affermò nel corso della
Conferenza.
Quest'ultima posizione si integrava di fatto con le istanze di moderazione nel frattempo
avanzate da Togliatti nella sua corrispondenza con Dimitrov. La missione di Vyshinskij in
Italia del gennaio 1944, tuttavia, spostò l'ago della bilancia verso l'opzione
intransigente: presumibilmente, ciò fu la conseguenza sia della constatazione dell'ormai
consumata emarginazione sovietica dal regime di occupazione, sia dell'influenza esercitata
dalle posizioni antimonarchiche dei comunisti italiani e della maggioranza delle altre
forze antifasciste.
E' in questa luce che diviene comprensibile la conversione di Dimitrov e di Togliatti
all'opzione intransigente nel gennaio-febbraio 1944. Ma l'opzione conciliante non venne
davvero abbandonata a Mosca, sulla scorta delle aperture compiute dallo stesso governo
Badoglio. Quando Stalin decise la mossa del riconoscimento unilaterale, il logico
corollario fu il recupero dell'opzione moderata per i comunisti italiani.
In altre parole, la "svolta di Salerno" venne originata a Mosca da un difficile
processo decisionale, nel quale si manifestò un'evidente interdipendenza tra la politica
estera sovietica e la formulazione della politica comunista. Stalin scelse alla fine tra
opzioni contrastanti che furono avanzate, in momenti diversi e secondo priorità diverse,
dai suoi diplomatici e da Togliatti. Queste opzioni non vennero però chiaramente
presentate come alternative politiche, e l'intero processo decisionale rivelò un elevato
grado di incertezza e di improvvisazione.
Senza dubbio, esisteva una coerenza tra l'orientamento dell'Urss verso l'alleanza con le
potenze occidentali (in particolare, verso l'ipotesi di una egemonia condivisa tra Urss e
Gran Bretagna sull'Europa postbellica) e la moderazione dei comunisti nel coalition-building
e nella loro linea di "unità nazionale". E' evidente che ciò presentava la
finalità di porre le basi di un'influenza sovietica anche al di fuori della sfera
territoriale occupata dall'Armata Rossa. Ed è altrettanto evidente che le scelte
politiche del marzo 1944 contribuirono effettivamente alla crescita del ruolo del Pci in
Italia.
Siamo insomma dinanzi a un paradigma delle origini: il Pci mise rapidamente salde radici
nella società nazionale per il tramite di un preponderante elemento internazionale,
costituito sia da una nuova fonte di legittimazione (l'antifascismo) sia da una politica
(l'influenza dell'Urss in Europa dopo l'incontro di Teheran).
Questo presenta rilevanti conseguenze per le origini stesse della repubblica. Eppure, non
debbono sfuggire gli intrinseci elementi di debolezza. La conoscenza del processo
originario ci porta a dubitare sia del carattere pianificato della politica sovietica e
comunista, sia della sua vocazione strategica.
Dal 1944 in avanti, alcuni eventi compromisero la superficiale compattezza della linea
sovietica e comunista.
In primo luogo, la politica estera sovietica definì molto presto i propri interessi in un
senso rigidamente geopolitico e in una chiusa concezione delle "sfere
d'influenza", relegando l'Italia a un posto marginale e a un ruolo strumentale quale
"precedente" invocato al fine di esercitare un dominio incontrastato nell'Europa
orientale. Di conseguenza, l'aspetto più propriamente politico della presenza sovietica
in Europa prese inesorabilmente a sbiadire: probabilmente è questo uno dei significati
principali della crisi di Trieste del maggio-giugno 1945.
In secondo luogo, la "svolta di Salerno" generò visioni conflittuali, sia
all'interno del Pci, sia tra gli stessi sovietici. Nel corso del 1944, Togliatti si trovò
a fronteggiare non soltanto l'opposizione dei comunisti determinati a tornare su posizioni
intransigenti, se non a lasciare aperta un'opzione insurrezionale, ma anche l'ostilità,
con le medesime motivazioni, del diplomatico sovietico più influente in Italia e in
Francia, Bogomolov: questi dava voce a una sorda opposizione diffusa nei circoli dirigenti
sovietici verso la prospettiva di un'alleanza post-bellica con la Gran Bretagna. Togliatti
riuscì a contenere questa conflittualità nell'ultimo anno di guerra: è significativo il
parallelismo con le rassicurazioni fornite da Stalin a Churchill circa l'assennatezza del
leader italiano.
E tuttavia, la traccia così lasciata non doveva essere liquidata e doveva ripresentarsi
poco più tardi. La politica comunista rivelò un sostanziale sottofondo di ambiguità,
che si può riassumere nella difficoltà di accettare tutte le conseguenze
dell'antifascismo nell'interazione tra politica internazionale e contesti nazionali.
Non si è forse insistito abbastanza sulla dimensione internazionale della sconfitta
strategica del 1947-48, quando collassò l'ipotesi di una "nazionalizzazione"
del Pci basata sulla prospettiva della continuità delle relazioni internazionali del
tempo di guerra.
La crisi del 1947-48 fu il punto dinizio di un più generale declino del comunismo
europeo e il momento nel quale si stabilirono i confini dellazione politica dei
comunisti nelle società occidentali. La sconfitta del Pci deve essere inserita in questo
quadro per comprenderne le conseguenze di lungo periodo, alimentate dalla ricollocazione
delle forze nazionali lungo le coordinate internazionali della guerra fredda e del
bipolarismo.
Sotto questa luce, appaiono insoddisfacenti le tesi storiografiche volte a insistere sui
margini di manovra conservati dal Pci nella sua "via nazionale" dopo la
fondazione del Cominform. Il punto di non ritorno fu una decisione di politica estera
dell'Urss: la scelta fatta da Stalin di respingere il Piano Marshall e di imporre ai PC
occidentali una proibitiva lotta di opposizione, destinata a compromettere le loro
credenziali nazionali e di governo.
Con questa mossa perdente, i sovietici mostrarono l'inconsistenza del loro autentico commitment
a impedire la divisione dell'Europa e invece la ferrea volontà di difendere la trincea
del "cordone sanitario" rovesciato nell'Europa orientale, seguendo i dettami di
una concezione aggressiva della sicurezza.
Tanto la brutale condotta nell'Europa orientale, quanto l'incomprensione della questione
della ricostruzione europea quale terreno centrale dell'egemonia misero a nudo la loro
miseria culturale: ma l'incapacità di leggere le trasformazioni del mondo nato dalla
seconda guerra mondiale coinvolgeva l'intero universo comunista, ancorato all'idea del
perpetuarsi di un mondo catastrofico e apocalittico.
L'antifascismo costituì una contraddizione in questo retaggio culturale, ma non giunse a
spezzarne la continuità, intrecciata con un tenace zoccolo identitario e funzionale al
regime totalitario dell'Urss. Ciò consentì che il rifiuto del Piano Marshall e il
riallineamento segnato dal Cominform venissero accolti da leadership comuniste tutt'al
più riluttanti ma soggettivamente inabili a concepire una condotta diversa.
Al tempo stesso, il duro richiamo all'ordine compiuto dai sovietici nei confronti dei PC
occidentali mostra quanto si fosse allentato negli anni precedenti il controllo su di essi
effettivamente esercitato da Mosca, malgrado il mantenimento di un costante flusso di
contatti.
La risposta rabbiosa e impotente dei sovietici all'iniziativa egemonica americana non
doveva però generare un'autentica strategia alternativa del comunismo europeo, ma
soltanto l'ultimo giro di vite monopolistico nell'Europa orientale, e un sostanziale
isolamento dei PC occidentali. La sfida del Cominform si rivelava assai più rivolta verso
il compattamento del blocco sovietico che non verso l'eversione del blocco occidentale,
smentendo l'esistenza di un piano di espansione rivoluzionaria del comunismo.
Il dato cruciale per il Pci fu che la sua dipendenza dall'Urss lo portò ad agire su un
terreno più arretrato di quello del 1944, in quanto il Cominform rimise in discussione la
principale conquista culturale dei comunisti nel dopoguerra: la scelta che il partito
comunista non fosse più il partito della guerra civile.
Nei mesi che precedettero le elezioni, l'eventualità di un conflitto civile si ripropose
sotto il condizionamento di un clima generale che anche nella percezione degli avversari
dischiudeva un simile possibile scenario. Tra i comunisti ciò richiamava in vita fantasmi
del passato e creava spaccature interne: una parte consistente di essi, sia nel contesto
interno (Secchia), sia sul piano internazionale (gli jugoslavi) si pronunciò più o meno
apertamente per il ripristino della tradizione insurrezionale.
Oggi sappiamo che l'opzione insurrezionale venne accantonata sia da Togliatti, sia da
Stalin in due precisi momenti di convulsa consultazione: nel dicembre 1947 (visita di
Secchia a Mosca) e nel marzo 1948, alla vigilia della prova elettorale. Vanno fatte, al
riguardo, due considerazioni.
La prima è che non si trattò di una scelta di principio: furono valutazioni sui rapporti
di forza internazionali dal punto di vista dell'Urss a dettare una simile scelta,
provocando un passo indietro rispetto ai motivi più radicali promossi pochi mesi prima
dal Cominform.
La seconda è che si verificò un certo grado di interazione tra i due partner: Togliatti
interpellò i sovietici circa i loro orientamenti (che apparivano alquanto nebulosi) ma
espresse anche il proprio parere fondamentalmente negativo, probabilmente perché egli
contava su uno spostamento dei rapporti di forza interni, tale da determinare un regime di
transizione che avrebbe collocato l'Italia in una posizione intermedia tra i due
"campi" prima di una loro compiuta divisione (e prefigurato il suo futuro
inserimento nel "campo socialista").
Tutto ciò lascia intravedere i tratti di una strategia che procedeva per tentativi, che
era pervasa da illusorie ambizioni, e che presentava contraddizioni interne: non i tratti
di un disegno coerente.
La collocazione del Pci nella sfera occidentale e il suo insediamento di massa nello
spazio della repubblica dovevano produrre effetti nella prassi politica, destinati a
orientare più saldamente i comunisti italiani verso una valorizzazione della legalità
democratica e verso un rifiuto dello scenario della catastrofe civile. Sotto questo
profilo, l'esperienza antifascista del Pci lasciò una traccia essenziale.
Ciononostante, la crisi del 1947-48 segnò la fine politica dell'antifascismo comunista
sulla scena internazionale. Il ripristino della separatezza sovietica dal resto del mondo
corrispose al ritorno del movimento comunista verso una tradizione di settarismo e di
isolamento. Il dato prevalente tornò a essere quello di una cieca propaganda
antimperialista.
Per il Pci, la preponderanza dell'elemento internazionale restava, ma si modificava il suo
significato: si era infatti dissolta l'impalcatura consensuale del sistema internazionale
che aveva consentito di connettere la presenza dell'Urss al destino dei paesi europei (o
almeno di evitare che venissero in primo piano le tensioni sottese), ed era ormai
stridente la contraddizione tra il legame con l'Urss e la "nazionalizzazione"
del partito.
Il nesso internazionale dei comunisti italiani smarrì un significato politico e si
incentrò sulla dimensione mitica dellUrss: una potente risorsa per la coesione del
partito e della sua base di massa, ma anche un marchio di emarginazione. Mentre per le
forze politiche filo-occidentali il 1948 segnava un passaggio decisivo verso la
"doppia lealtà", per il Pci esso segnava invece lo squilibrio profondo di un
carattere già acquisito.
Sul piano culturale, il rifiuto della tradizione del partito della guerra civile era la
premessa, ma non ancora il possesso, di una nozione di interesse nazionale: tanto più che
quel rifiuto non cancellava l'immagine della guerra civile interna e internazionale, sia
pure vissuta come una catastrofe da evitare, dalla psicologia dei comunisti.
Fallito sul nascere il tentativo di impedire il compattamento del "blocco"
occidentale, tra il 1948 e il 1949 i sovietici dovettero far fronte a una situazione che
essi non avevano previsto, pur avendo largamente contribuito a determinarla: la tenuta
politica della sfera occidentale era superiore a ogni loro aspettativa in Germania e anche
in Italia, mentre la speranza di una crisi economica del capitalismo si rivelava
illusoria; la presenza americana in Europa si consolidava non soltanto sul piano
economico, ma sul piano politico e militare; era invece la sfera orientale a rivelare una
tenuta precaria, con la defezione del principale alleato dell'Urss, Tito, e con
l'estensione delle epurazioni dal campo degli avversari a quello degli stessi comunisti al
potere, secondo una dinamica del terrore già sperimentata in Urss.
Nei suoi ultimi anni, Stalin si dimostrò incapace di fronteggiare il groviglio di
contraddizioni generato largamente dalla sua stessa politica di guerra fredda. La partita
decisiva si giocò, come oggi ci è più chiaro, nella prima fase della lotta di
successione a Stalin, tra il marzo e il luglio 1953. In questa contingenza si verificò
infatti una svolta di lungo periodo, attraverso le dinamiche di interazione tra contesto
interno e internazionale dell'Urss, nonché all'interno del blocco sovietico.
I tentativi sovietici di introdurre da subito cambiamenti nei regimi degli Stati satellite
e di modificare in parte gli assetti internazionali dell'Europa centro-orientale, sino a
ipotizzare la dissoluzione della Germania orientale, furono compromessi dalla stessa lotta
di successione interna (sincronia tra la disgrazia di Berija e le rivolte in Germania
orientale).
La conseguenza fu che i vincitori della lotta per la successione recedettero dagli scenari
più significativi di cambiamento, pur nel contesto di un allentamento della tensione
internazionale, tornando al two state approach verso la Germania. Questa doveva
essere una scelta senza ritorno, che anche le ulteriori lotte di successione non misero in
discussione: così l'Urss poststaliniana si orientò verso un approfondimento della
divisione dell'Europa e influenzò il consolidamento del sistema bipolare delle relazioni
internazionali.
Il riferimento a questo nodo è indispensabile, in quanto gli stessi cambiamenti emergenti
nella politica estera sovietica dal 1953 rendono evidente che il Pci continuava a
concepirsi come una componente del "campo socialista", sia pure nella versione
legalitaria e anticospirativa con la quale Togliatti aveva motivato a Stalin il proprio
rifiuto di accettare la leadership del Cominform all'inizio del 1951.
Sembra, in particolare, attendibile la sintonia tra Togliatti e Malenkov (per circa due
anni l'oligarca più accreditato alla successione) sotto la duplice opzione di un rilancio
della "coesistenza pacifica" e di una destalinizzazione "silenziosa",
depotenziata dei dirompenti effetti pubblici che doveva invece provocare la denuncia
chruscioviana dei crimini di Stalin.
Il nesso tra bipolarismo e distensione doveva però conoscere per un decennio una vita
tormentata e incoerente nella politica sovietica, con serie conseguenze sul Pci.
L'ancoraggio del Pci al sistema di relazioni facente capo all'Urss, più ancora che al
"modello" sovietico, trovò clamorosa conferma nel 1956, quando Togliatti
manifestò nella propria intervista a "Nuovi Argomenti" una limitata critica del
sistema (ma sufficiente a destare l'irritazione di Chruscev) e pochi mesi dopo si espose
più del necessario in una durissima presa di posizione contro "l'orientamento
reazionario" di Nagy, che avallava l'opportunità della repressione sovietica in
Ungheria.
Dal punto di vista sovietico, l'intervento militare rispondeva a una logica ferrea: la
difesa delle posizioni acquisite con la seconda guerra mondiale restava la stella polare
della strategia sovietica in Europa. La logica che dettò le scelte di Togliatti appare
anch'essa legata a una priorità di politica internazionale introiettata nel decennio
precedente, ma assai più contraddittoria. Il primato dell'elemento internazionale andava
con ogni evidenza a danno degli interessi del Pci nella società nazionale, se non altro
perché la cieca applicazione del principio di lealtà all'Urss voluta da Togliatti
giustificava in linea teorica l'adozione del medesimo principio nel campo occidentale.
E' probabile che la condotta di Togliatti venne dettata anche dalla percezione del
possibile collasso di un sistema di riferimenti essenziale alla sopravvivenza del Pci. Ma
ciò denota la chiusura in una visione priva di alternative e la perdurante influenza
dell'idea staliniana di una "guerra di posizione" tra le potenze occidentali e
l'Urss.
Il 1956 riproponeva così la logica del 1947. Con una importante differenza: nel sistema
bipolare, la politica dell'Urss sostenuta dal Pci non era più una politica che lo
investiva direttamente, ma soltanto indirettamente. La principale conseguenza era un
paradosso: il distanziamento provocato dalla divisione dell'Europa produceva il
consolidamento di un legame ideologico, privo di un esplicito contenuto politico.
Questo paradosso conteneva però anche i germi di una divergenza destinata a venire alla
luce.
Per i sovietici, nella configurazione delle posizioni di potenza cristallizzate dal
bipolarismo rientravano anche i principali partiti comunisti occidentali (ai quali, non a
caso, erano destinate quote largamente maggioritarie del finanziamento riservato da Mosca
ai partiti comunisti): le conferenze del comunismo internazionale svoltesi nel 1957 e nel
1960 riaffermarono questo dato, in un orizzonte di unanimismo e di retorica
dell'autodeterminazione dei singoli partiti.
Per il Pci, quale partito comunista più forte in occidente, la spinta bipolarista della
politica estera sovietica tendeva invece a costituire una camicia di forza, se
insufficientemente orientata verso una distensione internazionale: le tesi sul
"policentrismo" elaborate da Togliatti mostrano la sua consapevolezza del
problema. E' però difficile sostenere che esse furono al centro della sua politica.
La priorità di Togliatti rimase la sostanziale difesa della risorsa costituita dall'Urss.
Egli utilizzò consapevolmente il mito sovietico quale risorsa di consenso, senza vedere i
prodromi della sua disgregazione (anche a causa del carattere sempre più autoreferenziale
del mito, circoscritto ai ranghi del partito).
La sua ostinata reticenza sugli orrori del passato comunista e la sua insofferenza verso
le denunce dei crimini di Stalin (ribadita nel 1961, dopo il XXII Congresso del PCUS)
debbono essere viste alla luce di questo atteggiamento: non era sostenibile una
distinzione tra il mito di Stalin e il mito sovietico, e un autentico scavo del passato
avrebbe finito per svelare il carattere mitico dell'idea della "superiorità"
del sistema sovietico per la sua natura socialista. Ne derivava una pesante eredità nella
cultura politica del gruppo dirigente del Pci.
Il mutamento del quadro internazionale all'inizio degli anni Sessanta rappresenta soltanto
parzialmente un momento di passaggio verso un nuovo rapporto tra il Pci e l'Urss.
Esso venne soprattutto investito dalla crisi dei rapporti tra Urss e Cina, mentre le
relazioni tra le due superpotenze erano segnate da una piena conferma del bipolarismo in
Europa (seconda crisi di Berlino). In apparenza secondaria risultò invece l'influenza sul
Pci del mutamento nel sistema delle relazioni nel blocco occidentale, che pure presentava
implicazioni dirette per la collocazione dell'Italia con il nuovo rapporto tra Stati Uniti
e centro-sinistra.
Fu comunque questo il contesto nel quale la nuova crisi del comunismo internazionale
creata dalla divisione tra Urss e Cina pose le condizioni per una prima differenziazione
del Pci dall'Urss. Tale divisione rappresentava un evento critico per la visione
togliattiana che affidava le sorti del Pci a un contestuale sviluppo del "campo
socialista" e della coesistenza bipolare.
Per questo Togliatti fu attento a operare una distinzione tra il dissenso dalle posizioni
cinesi e la loro scomunica: la sua critica retrospettiva della rottura di Stalin con Tito
(che Suslov non mancò di stigmatizzare in un incontro con Longo del febbraio 1964)
rimandava a questa calibrata distinzione, e insieme rilanciava l'idea di una possibile
"via al socialismo" che non implicasse un'immediata adesione al "campo
socialista".
I comunisti italiani delinearono così una realistica presa d'atto della portata del
conflitto sino-sovietico, una critica dell'estremismo dei cinesi e un cauto posizionamento
volto a scongiurare una nuova rottura del movimento comunista. Al tempo stesso, è
indicativa l'insistenza con la quale Togliatti ricordò ai dirigenti del partito che il
Pci era parte di un "campo" e di un movimento reale, e che a partire da questo
esso doveva concepire la propria funzione.
Sotto questo profilo, la tesi dell'"unità nella diversità" quale strategia di
tenuta e di sviluppo del movimento comunista rimandava comunque al ruolo costituente
dell'Urss e sottovalutava la tendenza dei sovietici a riassorbire la funzione del
movimento comunista nel contesto della propria politica di potenza, con l'ambizione di
esercitare una leadership incontrastata del polo antimperialistico.
L'accento di Togliatti cadde sull'esigenza di preservare l'unità del movimento comunista
internazionale, come risulta non soltanto dal celebre memoriale di Jalta, ma anche dalla
corrispondenza con i sovietici nella primavera del 1964 e dagli appunti preparatori del
memoriale.
Questa documentazione mostra tanto il suo realistico pessimismo circa l'evoluzione dei
rapporti tra Urss e Cina, quanto il suo richiamo al legame con l'Urss quale componente
"dell'unità sia del gruppo dirigente che del partito". L'ultimo appello di
Togliatti doveva lasciare dopo la sua morte un solco molto più profondo di quanto non si
sia spesso ritenuto.
Distensione e bipolarismo: il legame debole
Questi dilemmi erano destinati ad acuirsi nell'arco di pochi anni. La nuova documentazione
d'archivio conferma che la repressione della "primavera di Praga" fu per i
sovietici la riaffermazione della legittimità di una difesa delle proprie posizioni in
Europa, invocata dai settori conservatori delle leadership comuniste del "campo
socialista".
Rivolta a sancire il principio della sovranità limitata degli Stati socialisti, la
"dottrina Breznev" esprimeva in realtà una sostanziale insicurezza, che può
essere fatta risalire all'epoca di Stalin.
E' in questa luce che va vista la pressante ricerca di una definitiva legittimazione
internazionale dell'Urss come potenza globale. I sovietici ritennero (non a torto) che le
conseguenze dell'intervento in Cecoslovacchia non avrebbero compromesso la strada della
distensione e sarebbero state un male minore rispetto ai pericoli di contaminazione delle
tendenze riformatrici nel "campo socialista": un'ottica, per altro verso,
scarsamente lungimirante, che eludeva il problema della strutturale instabilità del
dominio sovietico nell'Europa orientale.
La medesima combinazione di una diplomazia realistica e di una prognosi sul futuro
compromessa da distorsioni ideologiche si verificò nel parallelo atteggiamento dell'Urss
verso la guerra del Vietnam: i sovietici spesero il proprio ruolo per una localizzazione e
per una prima composizione del conflitto proprio nel 1968-69, al fine di rimuovere un
serio ostacolo alla distensione con gli Stati Uniti (e in competizione con la Cina), ma si
illusero anche che il Vietnam fosse il prologo di un declino della potenza imperiale
americana destinato ad aprire loro spazi su scala mondiale.
L'orizzonte delle strategie di potenza dominava l'enigmatica visione di Mosca sul ruolo
del comunismo internazionale. I sovietici ignorarono sistematicamente il problema
costituito dal carattere sempre più residuale delle forze comuniste raccolte attorno
all'Urss, e nel corso degli anni Settanta la loro condotta fu caratterizzata da due
indirizzi tra loro apparentemente contraddittori: quello volto alla pura e semplice
conservazione di quanto restava delle fedeltà tradizionali, e quello volto ad
avventurarsi in una politica espansionistica, tramite l'appoggio strumentale a movimenti
rivoluzionari nel Terzo Mondo.
In questo contesto, l'orientamento del Pci di porre fine all'ambigua eredità del suo
ruolo di avamposto del "campo socialista" in occidente poteva essere tollerata
dai sovietici, a condizione che essa non originasse una nuova eresia. E così doveva
essere, malgrado che le contraddizioni della politica internazionale comunista evolvessero
potenzialmente verso una forma conflittuale anche nelle relazioni tra Pci e Urss.
Il dato più evidente del dopo Togliatti è il disorientamento del gruppo dirigente del
Pci nei suoi riferimenti internazionali. La sensibile ripresa del motivo antimperialistico
nellanalisi dei comunisti italiani non fu priva di ragioni concrete: il primo anno
dopo la morte di Togliatti fu un passaggio decisivo dellescalation della guerra in
Vietnam, prima con linizio dei bombardamenti massicci sul Nord, poi con la decisione
americana di passare allintervento diretto.
Questi drammatici eventi determinarono però tra i comunisti italiani
lenfatizzazione di una "cultura della crisi" ad essi preesistente,
tendente a irrigidirsi in una tradizionale lettura in chiave classista dei rapporti
internazionali, in un violento antiamericanismo e in una indefinita prospettiva
terzomondista: un panorama che tendeva a eludere la questione centrale del rapporto con
l'Urss.
Questo nodo venne riportato al centro dal mutamento internazionale verificatosi alla fine
del decennio, che assieme alla nuova crisi del blocco sovietico registrò una nuova fase
di movimento in Europa e invece un logoramento della realtà del movimento comunista
internazionale (invasione sovietica della Cecoslovacchia; lancio della Ostpolitik; inizio
della distensione tra le superpotenze; definitiva rottura tra Urss e Cina).
La decisione del gruppo dirigente post-togliattiano di respingere nel 1968 la medesima
logica del 1956 affiancò infine, alla moderata critica del modello, un distacco dal
sistema sovietico delle relazioni internazionali, con sensibili implicazioni per l'intera
struttura identitaria e politica del Pci. Ma il dato da evidenziare è piuttosto la
persistenza del rapporto con l'Urss anche dopo la crisi cecoslovacca.
Sotto questo profilo, la nascita di una nuova ambiguità può essere ricavata dai
lineamenti stessi del dibattito interno al gruppo dirigente. Per la prima volta emerse tra
i dirigenti del Pci una seria critica della politica estera sovietica, quale politica
incoerente rispetto all'obiettivo della "coesistenza pacifica" (avanzata
soprattutto da figure diverse quali Ingrao e Bufalini).
E' però indicativo che, all'indomani dell'invasione della Cecoslovacchia, ci si riducesse
alla realistica presa d'atto della "normalizzazione" e si ponesse la questione
sul medesimo piano, quanto a rilevanza, della definitiva rottura tra Urss e Cina: ciò
segnala che la prima critica della politica estera dell'Urss subiva la sovrapposizione di
un motivo ormai tradizionale, quale la preoccupazione per la tenuta del movimento
comunista internazionale e del "campo socialista".
Giocava evidentemente un ruolo la distinzione tra il 1968 e il 1956 e la volontà di
difendere le scelte fatte allora, un argomento avanzato da Berlinguer nel primo incontro
con una delegazione sovietica dopo l'invasione: con la conseguenza di ignorare la
persistenza e l'insostenibilità dell'oppressione sovietica nell'Europa orientale. Ma il
punto di fondo è la consapevole riaffermazione della necessità del legame con l'Urss
nell'intero gruppo dirigente del Pci.
La decisione di prendere parte alla conferenza dei partiti comunisti riunita a Mosca nel
giugno 1969 (che nelle intenzioni sovietiche rappresentava un'esibizione formale di unità
del comunismo sotto l'egida dell'Urss) si configurò perciò come una scelta strategica.
Fu Berlinguer a definirne il contenuto, basato su una posizione defilata del Pci nella
firma del documento conclusivo: egli insistette sulla volontà di evitare una rottura e
sul fatto che questa non rientrava negli interessi degli stessi sovietici, mentre il
confronto doveva restare nei confini di "diverse concezioni" del movimento
comunista.
Si aprì allora tra Breznev e Berlinguer un decennio segnato da numerosi incontri, la cui
tipologia fu quella del tacito accordo a non insistere troppo sulle divergenze di politica
internazionale: da questo momento in avanti, il Pci considerò quale obiettivo primario
quello di tenere salde le proprie posizioni politiche senza giungere a una rottura.
A nostra conoscenza, il solo momento nel quale si giunse singolarmente ad affacciare
lipotesi di una soluzione di continuità fu una riunione della Direzione del Pci
svoltasi allinizio del 1971.
In quella circostanza, Terracini sostenne che il sistema sovietico non poteva essere più
definito come un "sistema socialista" e provocò una brusca replica di Amendola,
secondo il quale ogni critica sarebbe rimasta velleitaria se non si fosse confrontata con
il problema dell"autonomia organizzativa", e perciò anche finanziaria,
dallUrss, accompagnata da un aggancio con "il movimento operaio
delloccidente": una prospettiva che Amendola riteneva possibile e sulla quale
addirittura si dichiarava daccordo, avendo però anche accortamente elogiato la
"duttilità" della politica sovietica nel processo di distensione e sostenuto
che questa politica non poteva essere liquidata "con poche battute".
Emblematica dellorientamento prevalente appare la conclusione di Pajetta: compito
del Pci doveva essere quello di contribuire a ricomporre la scissione "tra la
politica di Stato e la politica verso i partiti" dellUrss, con un implicito
giudizio positivo sulla prima e negativo sulla seconda.
L'altra faccia di questo orientamento era il sostanziale isolamento internazionale del Pci
dopo la morte di Togliatti. Questo è il dato che emerge con maggior forza dagli archivi,
sia sul piano della coscienza soggettiva, sia sul piano delle politiche rivolte a porvi
rimedio.
Vanno visti in questa luce molta parte dei contatti presi dal Pci nella seconda metà
degli anni Sessanta, e in particolar modo quelli rivolti ad assicurare ai comunisti
italiani una funzione di "ponte" tra Est e Ovest (a partire dai rapporti tra le
due Germanie). D'altro lato, i collegamenti del Pci con il socialismo europeo erano
limitati dall'appartenenza al movimento comunista internazionale, ma anche da orientamenti
politici che tendevano a gravitare ancora nell'orbita della politica estera dell'Urss.
Il caso delle posizioni del Pci sull'Europa appare emblematico dei dilemmi del dopo
Togliatti. Nel corso degli anni Sessanta i comunisti italiani approdarono al
riconoscimento delle basi reali del Mercato Comune, quale entità distinta dall'Alleanza
atlantica. Si ripeté l'illusione di poter operare una distinzione politica tra europeismo
e atlantismo (risalente alla battaglia di dieci anni prima contro la Comunità europea di
difesa), ma si verificò comunque una prima realistica presa d'atto della collocazione di
fatto del Pci nel sistema occidentale delle relazioni internazionali.
Il significato dell'apertura sul MEC doveva anzi configurarsi come un tentativo di evitare
il medesimo errore compiuto all'epoca del Piano Marshall, fissando una posizione di
politica internazionale coerente con una nozione di interesse nazionale e con la
prospettiva dello sviluppo del paese. Ciò comportava di evitare, a differenza che nel
1947, un abbraccio letale con le posizioni sovietiche.
Eppure, le posizioni filo gaulliste assunte dai comunisti italiani mossero nel senso
opposto, nella persuasione che De Gaulle costituisse la sola alternativa europeistica
allatlantismo e allegemonia americana in Europa. In questa posizione del Pci
si manifestava un riflesso della politica estera dell'Urss (lidea gaullista di
unEuropa "dallAtlantico agli Urali" presentava una sintonia con i
motivi ufficiali della propaganda sovietica) e un'evidente incoerenza rispetto
all'obiettivo di fare ingresso nel gioco politico delle forze principali della sinistra
europea.
Fu subito dopo il 1968 che i comunisti italiani si proposero di liquidare questa
ambiguità mediante una più netta scelta europeista. Già nel 1969 Berlinguer pose
l'obiettivo di coagulare un polo comunista occidentale quale punto di riferimento
politico. Il problema è che nel decennio successivo questa strategia si mostrò
essenziale alla graduale legittimazione del Pci in Europa, ma anche lenta e insufficiente
a delineare un diverso posizionamento internazionale dei comunisti italiani.
Ciò rivela la prevalenza di un'ottica ancora imperniata sul nesso bipolare e sulla
prospettiva di un contestuale processo di distensione, relegando in secondo piano la
coscienza della crisi latente del sistema bipolare, implicita nell'orientamento
europeista.
A partire dal 1968, il Pci assunse progressivamente un profilo più distintamente autonomo
dall'Urss, senza che ciò preludesse allo scioglimento della "doppia lealtà". I
tentativi di ricostruire un riferimento internazionale senza compromettere le strutture
identitarie del Pci appaiono significativi tanto dell'esistenza del problema, quanto della
estrema difficoltà soggettiva di risolverlo.
La lealtà del Pci verso l'Urss presentò da quel momento un carattere condizionale: con
sensibile ritardo, il Pci si serviva del bargaining power garantito dal suo peso
per far valere un diritto di veto e per esprimere alcune delle proprie ragioni.
Parallelamente, il sostegno alla Ostpolitik di Brandt parve assicurare al Pci una funzione
nuova nei confronti dell'Urss, svincolata dalle tradizionali appartenenze. Ma la
Ostpolitik "interna" del Pci si rivelò un esercizio scarsamente incisivo. I
margini di manovra erano limitati dal permanere della dipendenza finanziaria da Mosca,
mentre l'interesse sovietico per un Pci protagonista sulla scena nazionale e
internazionale tendeva paradossalmente a declinare proprio con i progressi della
distensione attorno alla metà degli anni Settanta.
I sovietici lessero Helsinki come una nuova Jalta, che riconosceva non solo sul piano
territoriale, ma sul piano politico la loro dominazione su metà dell'Europa. Dal punto di
vista di Mosca, l'eventualità di un ingresso del Pci nel governo nazionale e di un
abbandono del suo ruolo di opposizione rappresentava una minaccia ai nuovi equilibri
internazionali, e anzitutto un pericoloso messaggio di destabilizzazione per i regimi
dell'Europa orientale.
Emerge qui un punto potenziale di forte divergenza politica: mentre per i sovietici la
distensione era un processo che nasceva dalla loro acquisizione definitiva del rango di
potenza globale e che legittimava lo status quo, per i comunisti italiani tale processo
doveva invece aprire una nuova situazione di movimento in Europa.
Tuttavia, questo nodo non fu mai compiutamente esplicitato dai dirigenti del Pci, sotto il
condizionamento di un legame irrisolto: in questo senso, il Pci continuò a soggiacere a
una precisa compatibilità internazionale. Nello stesso tempo, esso si mosse entro
un'ottica essenzialmente nazionale, che evitava di confrontarsi con i vincoli del sistema
internazionale.
Il punto culminante dell'evoluzione del Pci fu la celebre intervista di Berlinguer al
"Corriere della sera" del giugno 1976, alla vigilia dell'esperienza
dell'"unità nazionale". Berlinguer non si limitava infatti a prendere atto
della collocazione e delle alleanze internazionali dellItalia, rinunciando a
chiedere la sua uscita dalla NATO (un passo già compiuto nei due anni precedenti), ma
riconosceva la funzione positiva svolta dalle alleanze internazionali ai fini della
sicurezza e della sovranità dei paesi dellEuropa occidentale.
L'aspetto da rilevare è che nell'immediato un passaggio così significativo ebbe sui
rapporti con i sovietici un impatto assai meno robusto di quanto si potrebbe ritenere. Ne
sono una prova gli incontri tra Breznev e Berlinguer del marzo 1976 e del novembre 1977,
nei quali emersero serie frizioni riguardo alle posizioni del Pci in tema di democrazia,
di pluralismo e di diritti umani (che ebbero una eco pubblica), ma i contenuti di politica
estera vennero sfumati e marginalizzati dagli stessi comunisti italiani, invece di
occupare un posto centrale.
La conferenza dei partiti comunisti riunita a Berlino nel giugno 1976 registrò la
partecipazione del Pci, che sia pure nella veste di una componente anomala si vincolava
all'appartenenza a ciò che restava del movimento comunista.
Contestualmente, l"eurocomunismo" si rivelava un"effimera
stagione": un espediente impiegato dai comunisti italiani al fine di rafforzare la
credibilità dellinnovazione politica da essi promossa, che tuttavia aveva basi e
scenari essenzialmente nazionali. La formula finì per esprimere soprattutto
lorientamento europeista del Pci e la sua ambizione di intraprendere una "terza
via" tra "socialismo reale" e socialdemocrazia: nello stesso tempo, però,
essa presentava anche la sottile implicazione di eludere il nodo della "doppia
lealtà".
Questa stessa equiparazione mostra tutta la difficoltà di sviluppare una critica
sistemica dell'Urss e di riconoscere la sua natura totalitaria, malgrado che la difesa di
posizioni di principio sui diritti umani e sulla libertà di espressione avesse messo
serie radici tra i comunisti italiani. In effetti, essa non si accompagnò a una piena
innovazione sul terreno più ricco di implicazioni per la loro identità, quello dei
riferimenti internazionali.
Proprio il nesso tra vincoli identitari, politica internazionale e caratteri del
"comunismo riformatore" di Berlinguer costituisce un problema ancora
sorprendentemente trascurato in sede di riflessione storica.
Non debbono essere sottovalutati i gravi condizionamenti interni e internazionali
conosciuti dalla politica del Pci nella crisi italiana di questi anni, che abbassano
sensibilmente la soglia di tolleranza dellinnovazione possibile e che determinano
molti caratteri di una sconfitta politica destinata a rivelarsi decisiva per il suo stesso
ruolo nella storia del dopoguerra.
Nessuna delle due grandi potenze guardava con favore allavvicinamento del Pci alle
responsabilità di governo. Non ci è dato sapere se tra i sovietici si siano manifestati
sulla questione orientamenti diversi e più o meno intransigenti, come accadde tra gli
americani.
Sta di fatto che i sovietici anticiparono gli americani, evolvendo da un iniziale
attendismo a una vera e propria controffensiva politica già nel 1977: essi manifestarono
un'evidente ostilità all'eventuale ingresso del Pci nel governo nazionale, e la loro
martellante polemica ideologica contro le posizioni del Pci sulla NATO (che vide
Napolitano nella situazione di bersaglio privilegiato) mostrò l'assenza di un autentico
margine di manovra.
Nel 1978, il conflitto investì direttamente le figure di Breznev e di Berlinguer, con il
leader sovietico nel ruolo aggressivo dell'accusatore a tutto campo (sia sulle questioni
della "terza via" e dell'"eurocomunismo", sia su quelle della politica
internazionale, incluso il dialogo dei comunisti italiani con i cinesi) e quello italiano
fermo nella difesa delle proprie posizioni, ma attento a evitare il precipitare di una
rottura.
Contemporaneamente, Mosca esaminò lopzione di provocare una scissione nel Pci, e la
recente documentazione venuta alla luce sulle attività del KGB in Italia (la cui
attendibilità resta tutta da dimostrare) sembra confermare clamorosamente l'obiettivo di
colpire Berlinguer.
E tuttavia, il conflitto latente tra il nuovo orientamento occidentale del Pci e il legame
con lUrss restò sospeso e privo di prospettive di risoluzione sin dal 1976. Anche
la successiva reazione allarmata e ostile di Mosca non indusse una risposta rivolta a
rimarcare le differenze nel campo della politica estera.
La crisi della distensione colse i comunisti italiani in questo passaggio, senza che essi
avessero articolato la propria politica e modificato su questa base il loro posizionamento
nel sistema internazionale, o meglio, delineato unautentica fuoriuscita dal loro
sostanziale isolamento.
Si può chiamare in causa il carattere scarsamente realistico della concezione dinamica, e
non statica, della distensione propria del Pci. La debolezza del Pci va però vista
soprattutto nella tendenza a pensare la distensione come una cornice nella quale un
mutamento degli equilibri politici interni potesse avvenire in Italia senza costituire
unalterazione dei rapporti di potenza del sistema bipolare, ricreando le condizioni
dellepoca della coalizione antifascista del 1944-47.
In questa ottica, il problema della partecipazione al governo del Pci venne in gran parte
circoscritto a un orizzonte nazionale e venne ingiustificatamente svincolato dal rapporto
con il sistema internazionale, evitando così di dover fronteggiare la prospettiva di
modifiche radicali negli orientamenti e nelle appartenenze, e non soltanto quella di un
calibrato adeguamento di posizioni.
Rilancio e fine della guerra fredda: fine del legame e del Pci
La crisi della distensione costituì un fattore bloccante e determinò il congelamento
della politica del Pci sulle posizioni di transizione assunte nel 1975-76. La risposta del
Pci alla crisi interna e internazionale del 1978-79 fu una scelta di arroccamento non
soltanto nella politica italiana (fine dell"unità nazionale") ma anche,
per molti aspetti, nella politica internazionale.
La controffensiva dei sovietici contribuì a questo esito, nella misura in cui il gruppo
dirigente del Pci non aveva ritenuto possibile e necessario spingere la propria
transizione più avanti della fragile opzione "eurocomunista".
La ricerca di uninfluenza del Pci sulle posizioni sovietiche si risolse perciò in
un nulla di fatto e rivelò i suoi caratteri illusori, proprio nel momento in cui nella
situazione internazionale veniva al pettine il nodo dell'insanabile contrasto tra la
sicurezza dellEuropa occidentale e la politica di potenza sovietica. Al tempo
stesso, tale ricerca venne pagata a caro prezzo: quello di tenere in piedi un legame che
impediva di collocare le posizioni del Pci in un contesto di "autonomia" non
più riferita al movimento comunista, bensì alla sinistra europea, quale punto di arrivo
logico e ineludibile.
Nel 1979 gli orientamenti dellAlleanza Atlantica sugli "euromissili"
compromisero ulteriormente i precari equilibri internazionali dei comunisti italiani, ai
quali faceva ancora velo una tradizionale visione in chiave imperialistica del ruolo degli
Stati Uniti. L'inizio della "seconda guerra fredda" provocò nel Pci una specie
di riflesso condizionato verso le logiche più rigide del bipolarismo, tendenti a
replicare un accostamento alla politica dell'Urss malgrado l'invasione dell'Afghanistan.
Questa deriva inerziale poté essere evitata perché il patrimonio critico verso l'Urss e
verso il "socialismo reale" accumulato negli anni Settanta fu sufficiente a
provocare una seria reazione dinanzi al colpo di Stato in Polonia del dicembre 1981.
Ciononostante, all'inizio degli anni Ottanta la disposizione del gruppo dirigente del Pci
era largamente irrisolta: le modalità con cui si realizzò il distacco da Mosca furono
frutto più di una crescente incomunicabilità che non di un lucido chiarimento politico.
Significativa di questa ambiguità appare anche la vicenda del finanziamento sovietico,
che continuò a essere erogato ancora per almeno due anni dopo la tormentata decisione di
rinunciare agli aiuti provenienti dal Fondo di solidarietà del Pcus.
Così la vicenda che produsse lo "strappo" non venne governata da un gruppo
dirigente fermamente avviato verso la risoluzione del suo rapporto con lUrss, ma
invece riluttante a porsi su questa strada sino ad assumere la prospettiva definitiva di
una rottura.
L'arsenale ideologico scatenato dai sovietici all'indirizzo dei comunisti italiani (questa
volta anche pubblicamente) in difesa del "modello" del "socialismo
reale" venne integrato da un cospicuo elenco di problemi internazionali (dalla
Cecoslovacchia all'intervento cubano e sovietico in Africa, fino all'Afghanistan e al
dialogo tra i comunisti italiani e quelli cinesi). Secondo un tipico riflesso della
psicologia dell'assedio, il Pci veniva accusato non soltanto di aver preso "posizioni
negative" e contrarie agli assiomi della "solidarietà" di classe, ma di
avere aderito a quelle dei nemici dell'Urss, a cominciare dalla tesi che l'Urss e la
Polonia avevano violato gli accordi di Helsinki.
La risposta di Berlinguer (in polemica con le posizioni di Cossutta) fu rivolta a
distinguere tra identità e politica. Egli riconobbe all'Urss il ruolo di un "punto
di riferimento" per il passato: ma per il presente, l'Urss non era più un modello di
società proponibile alle masse occidentali, e la sua condotta finiva per ostacolare,
invece di favorire, il processo di distensione, pur svolgendo la funzione di un
contrappeso all'"imperialismo americano".
In altre parole, Berlinguer si spingeva lungo la logica delle sue posizioni più avanzate
degli anni Settanta, mantenendo fermo il proposito di non compromettere le basi
identitarie del Pci. La sua scelta fu quella di rilanciare l'autonomia del Pci, appannata
negli ultimi due anni. Non era una scelta di rottura, anche se i sovietici giunsero fino
al limite di provocarla.
I margini per ricucire lo "strappo" esistevano e furono utilizzati nei mesi
successivi, soprattutto, a quanto ci consta, per iniziativa sovietica, facendo leva
sull'appello alla comune apprensione per i pericoli della corsa agli armamenti. Alla fine
del 1982 i rapporti vennero ripristinati tramite un incontro di delegazioni
rispettivamente guidate da Pajetta e da Zagladin.
Nella dinamica di interazione con il sistema internazionale sin qui seguita, la novità
era che il ripristino di un nesso tra guerra fredda e bipolarismo non determinava un
appiattimento del Pci sull'Urss, e al contrario registrava il massimo di autonomia del
dopoguerra. In altre parole, il Pci non subiva come in passato un rigido vincolo
internazionale e delineava una libertà di manovra, destinata ad accentuarsi con il
ripristino della distensione.
A partire da questo momento, i comunisti italiani si sforzarono di conciliare il loro
crescente orientamento verso la sinistra europea con il mantenimento di un rapporto con
l'Urss, incontrando nei sovietici risposte diverse e contrastanti.
Questo orientamento venne rafforzato dall'avvento di Gorbacev, che fece registrare il
prevalere a Mosca delle tendenze concilianti e persino rivolte a vedere nel
"comunismo riformatore" del Pci una fonte d'ispirazione. Ciò provocò una nuova
stagione nei rapporti tra Pci e Urss, che retrospettivamente non può non apparire come la
coda irrisolta di una lunga storia.
Gorbacev superò le comprensibili diffidenze iniziali dei comunisti italiani nell'incontro
con Natta del gennaio 1986, tramite un'autentica strategia dell'attenzione verso il Pci.
Le tracce ancora cospicue di una concezione che Natta definiva "tolemaica" dei
rapporti tra l'Urss e i partiti comunisti cedettero il passo al tentativo di ridefinire le
relazioni tra i due partiti nel contesto della sinistra europea.
In questa luce, il gruppo dirigente del Pci prese a vedere la propria
"autonomia" come base di un "nuovo tipo di relazioni" che non
privilegiava necessariamente l'Urss. Ciò non risolveva però il problema
dell'appartenenza al movimento comunista e si configurava come un modo per diluire il
legame storico con l'Urss senza dichiarare un'autentica soluzione di continuità.
Nello stesso tempo, il serio mutamento del ruolo internazionale dell'Urss provocato dalla
politica estera di Gorbacev creò in Europa una situazione di movimento senza precedenti,
ma ebbe anche il paradossale effetto di accrescere le illusioni dei comunisti italiani
circa la riformabilità del sistema sovietico, esercitando di fatto un vincolo sulla loro
libertà di manovra.
Il dibattito svoltosi nel gruppo dirigente all'indomani dell'incontro tra Gorbacev e
Occhetto del febbraio 1989 può essere considerato indicativo di gran parte dei dilemmi
insoluti dei comunisti italiani: la volontà di operare "fuori dagli schemi del
passato" nei rapporti con i partiti comunisti non era ancora una direttiva strategica
che permettesse di posizionare il Pci su un terreno meno scivoloso di quello
dell'appartenenza a un movimento residuale, mentre i rapporti con il socialismo europeo si
presentavano tanto intensi, quanto tuttora allo stato fluido.
Il bagno di sangue di Tienanmen e il crollo dei regimi comunisti nell'Europa orientale
dovevano abbattersi su questo stato di incertezza, determinando assieme la fine degli
ultimi legami con l'Urss e la fine del Pci.
Conclusioni
Nel lungo dopoguerra, il rapporto tra Pci e Urss si trasforma da un elemento forte (alle
origini insieme di carattere identitario e politico, poi sempre più palesemente
metapolitico) in un elemento debole (con la progressiva presa di distanza dei comunisti
italiani dal modello sovietico, e, in seguito, dal sistema sovietico delle relazioni
internazionali), seguendo una deriva inerziale e senza che si delinei una soluzione di
continuità sino al crollo del muro di Berlino.
L'intervento soggettivo dei comunisti italiani su questa evoluzione assume in modo
ricorrente il carattere della presa d'atto di una crescente divergenza, piuttosto che il
carattere di una decisa volontà di separare i rispettivi destini. La spoliticizzazione
del rapporto con l'Urss e lo sgretolamento dei miti sovietici non configurano la fine del
legame, che rivela un fondo identitario sempre più tenue, ma indelebile.
Sotto questo profilo, il condizionamento esercitato sul Pci dalle compatibilità
internazionali della guerra fredda appare complesso e contraddittorio, nella sua duplice
connessione con i riferimenti diretti e indiretti della politica dell'Urss e con la
collocazione nel campo opposto del sistema bipolare: una duplice connessione che presenta
qualità ed equilibri diversi nelle diverse fasi internazionali del dopoguerra, ma che è
fortemente persistente e dà rilievo alla peculiare dimensione internazionale del Pci fino
alla fine della guerra fredda.
Si sviluppa contestualmente nella cultura del Pci il sistema delle "identità
negative", nate su base internazionale: mentre quelle più tradizionali
(antifascismo/anticapitalismo) si svuotano gradualmente di efficacia, malgrado la presenza
di aleatori momenti di rilancio nella vicenda italiana del dopoguerra, emergono altre
identità negative, riassumibili nell'idea della "diversità" del Pci sia dal
"socialismo reale", sia dalla socialdemocrazia.
In questo passaggio si verifica però un rilevante slittamento da un nesso che presenta
fondamentalmente dimensione internazionale (significato generale dell'antifascismo in
Europa alla fine della seconda guerra mondiale; dipendenza di tutti i partiti comunisti
dagli orientamenti sovietici nella divisione dell'Europa e nella formazione del
"campo socialista"; rilancio dell'ideologia antimperialista nel comunismo della
guerra fredda) a un orizzonte sostanzialmente nazionale (assunzione come un valore della
nozione di "anomalia" del Pci, opposta e speculare a quella coniata dagli
avversari politici con la teoria del "fattore K").
E' lecito ritenere che questo ripiegamento debba essere visto anche come una conseguenza
del condizionamento della realtà politica italiana, vale a dire della combinazione tra
l'emarginazione del Pci dai processi decisionali di politica estera e il basso profilo
della politica estera dell'Italia nel sistema bipolare delle relazioni internazionali.
Questo condizionamento presenta anzi un risvolto profondo: i comunisti italiani
contribuiscono a perpetuare le divisioni dell'identità repubblicana, ricorrendo a
un'opera di "invenzione della tradizione" tutta rivolta a marcare una propria
peculiarità e un proprio primato sia in chiave nazionale che internazionale.
La transizione così descritta pone in evidenza, in realtà, l'isolamento internazionale
del Pci, quale emerge appieno dopo la morte di Togliatti. L'isolamento del Pci non
riflette semplicemente una parabola politica, segnata dagli imperativi del sistema
bipolare e dalla definitiva disgregazione del movimento comunista internazionale, ma anche
un problema culturale: la difficoltà a orientarsi nella complessità e nelle
interdipendenze del mondo occidentale.
Le trasformazioni sociali e internazionali degli anni Sessanta mettono a nudo
l'inadeguatezza affiorata da tempo negli apparati concettuali applicati dai comunisti alla
nuova politica e alla nuova economia del mondo postbellico, che tradiscono la loro
sostanziale origine nell'epoca precedente la seconda guerra mondiale.
La risposta più significativa fornita dal gruppo dirigente post-togliattiano è
l'orientamento verso l'Europa e, più tardi, verso il socialismo europeo: una risposta
importante per i suoi riflessi innovativi sulla cultura politica del Pci e sugli stessi
orientamenti pubblici del paese, ma che non rimuove davvero l'isolamento internazionale
dei comunisti italiani (la faticosa costruzione di rapporti con i socialisti europei
giunge al traguardo di un'istituzionalizzazione soltanto dopo la fine del Pci).
La progressiva liquidazione dell'originaria preponderanza dell'elemento internazionale
approda a una forma di "nazionalizzazione" priva di un solido riferimento
internazionale, sia sotto il profilo della politica estera, sia sotto quello del modello
di civiltà al quale guardare.
Nel lungo dopoguerra, i limiti del Pci come forza "nazionale" sembrano perciò
rimandare all'inconsistenza dei propri rapporti internazionali: prima, perché proprio la
forza del legame originario è incoerente e contraddittoria con una politica nazionale;
poi, perché quel legame viene consumato senza essere sostituito da unalternativa
credibile. La persistenza del legame con l'Urss è fonte e indice di conservazione
identitaria e di isolamento politico.
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