I comunisti e la doppia lealtà
Roberto
Gualtieri
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La seguente relazione, con il titolo «Il Pci e la "doppia
lealtà". Per una periodizzazione della storia del comunismo italiano» è stata
presentata al convegno «Il Pci nellItalia repubblicana. Contributi per una storia
nazionale e internazionale», organizzato a Roma dalla Fondazione Gramsci nei giorni 25-26
maggio 2000. Ne pubblichiamo una versione non rivista e priva di note, da non citare senza
il consenso dell'autore.
Introduzione
Questo paper intende proporre una periodizzazione e una interpretazione schematica della
vicenda storica del Pci incentrate sul nesso nazionale-internazionale, ossia
sullinterazione tra il sistema politico italiano e il sistema internazionale.
Il legame del Pci con lUrss rende questa interazione particolarmente complessa. Da
un lato infatti le trasformazioni del sistema politico italiano sono sempre avvenute nel
quadro di un riassetto dei rapporti est-ovest e di quelli interni allarea
occidentale, e in particolare a ridosso di un mutamento degli indirizzi della politica
estera americana. Dallaltro, il legame con lUnione Sovietica ha determinato la
sostanziale subordinazione della strategia del Pci agli interessi e alle scelte di
politica estera dellUrss, garantendo la permanenza di quel partito
allopposizione e restringendo notevolmente la banda dei mutamenti possibili del
sistema politico.
Tutto ciò non significa affatto considerare la politica italiana una pura proiezione
nazionale degli sviluppi dello scenario europeo e mondiale o delle scelte compiute a
Washington e a Mosca. Gli studi più recenti che - conformemente ad un analogo
orientamento della storiografia internazionale - hanno indagato la storia dellItalia
postbellica sulla base del nesso nazionale-internazionale, hanno infatti messo in evidenza
come tra i due elementi del binomio esista una serrata dialettica che non vede mai la
netta prevalenza delluno sullaltro bensì un reciproco condizionamento, a
definire i termini del quale contribuiscono in misura rilevante proprio le classi
dirigenti nazionali.
Per questo, sia la categoria di "autonomia" che quella opposta di
"eterodirezione" risultano del tutto inadeguate alla comprensione della politica
dei partiti italiani, che può essere definita sulla base del concetto di "doppia
lealtà".
Naturalmente, il meccanismo della "doppia lealtà" ha operato in modo diverso,
se non opposto, per la Dc e per il Pci. Le ragioni sono ovvie: mentre la guerra ha
collocato lItalia nella sfera occidentale, la Dc non è mai stata organicamente un
"partito americano"; a sua volta, il Pci è stato invece fin dalle origini
strettamente legato allUrss, ma si è profondamente radicato in un paese situato al
di fuori della sfera di influenza sovietica.
La Dc ha così potuto (e saputo) interpretare e gestire i condizionamenti derivanti dalla
collocazione internazionale dellItalia garantendo la complementarietà e la
funzionalità tra esterno e interno secondo modalità coerenti ad un disegno di sviluppo
nazionale (oltre che agli interessi degli Stati Uniti e dellarea occidentale nel suo
complesso). Al contrario, il legame con una potenza come lUnione Sovietica ha reso
la "doppia lealtà" del Pci costitutivamente contraddittoria, riducendo al
minimo la possibilità di quel partito di governare gli elementi nazionali e quelli
internazionali della sua azione e di comporre le due "lealtà" in una
"figura" politica unitaria e coerente.
Di conseguenza, così come la "doppia lealtà" della Dc ha costituito il
fondamento della sua funzione dirigente e della sua egemonia sul sistema politico
italiano, la "doppia lealtà" comunista si è rivelata funzionale al
mantenimento di un ruolo subalterno del Pci, rappresentando una risorsa
probabilmente insostituibile per la tenuta di un partito condannato stabilmente
allopposizione, ma allo stesso tempo risultando un vincolo insuperabile per
lattuazione della sua strategia.
I caratteri divaricanti della "doppia lealtà" comunista ci hanno indotto a
muoverci allinterno di una duplice periodizzazione. Se infatti si individuano le
principali tappe dellelaborazione strategica del Pci, il nesso con le vicende
interne al mondo comunista e con la politica estera sovietica risulta del tutto evidente:
a)durante la Grande Alleanza il Pci propone la linea della "democrazia
progressiva", che sul piano internazionale prefigura unItalia neutrale (1944);
b)dopo il rifiuto sovietico del Piano Marshall e la costituzione del Cominform i comunisti
italiani si assestano su una linea di "difesa della democrazia" e della
"indipendenza nazionale", contrastando lalleanza con gli Stati Uniti
(1947-48);
c)dopo il XX congresso e lavvio della destalinizzazione il Pci rilancia la "via
italiana al socialismo" rimodulando il legame con lUrss prima con la proposta
del "policentrismo" poi con la linea della "unità nella diversità"
(1956);
d)dopo il XXIV congresso del Pcus e lavvio della distensione il Pci definisce la
strategia del "compromesso storico" e dell"eurocomunismo"
(1972-73);
e)gli avvenimenti in Afghanistan e in Polonia e lo scontro sugli euromissili fanno da
sfondo alla duplice svolta dell"alternativa democratica" e del cosiddetto
"strappo" con Mosca, che porta al suo limite estremo lo schema della
"unità nella diversità" (1980-81).
Una periodizzazione schematica della vicenda politica italiana ci riconduce invece
allevoluzione della politica estera americana e dei rapporti Usa-Europa (oltre che
naturalmente alle trasformazioni economiche e sociali interne):
1) lunità antifascista, che si realizza nel quadro della Grande alleanza;
2) il centrismo, il cui avvento è contestuale allo scoppio della guerra fredda e alla
definizione di un assetto "euro-atlantico" dello sviluppo;
3) il centrosinistra, che si realizza allindomani delle crisi di Berlino e Cuba, in
quella che potremmo definire la stagione del bipolarismo compiuto e della costruzione del
Mercato unico;
4) la "strategia dellattenzione" (un centro-sinistra aperto
allapporto del voto comunista), che culmina nella solidarietà nazionale e che
coincide con la crisi dellequilibrio di Bretton Woods e lavvento della
distensione;
5)il pentapartito, che si afferma nel quadro della "seconda guerra fredda" e
della politica economica reaganiana fino al crollo dellUnione Sovietica,
lunificazione tedesca e la firma del trattato di Maastricht.
Come tenteremo di dimostrare, se si prende come punto di riferimento la funzione del Pci
ed i risultati fondamentali della sua politica, si ricaverà uno schema che,
sia sul piano dei tempi che su quello dei contenuti, coincide con la periodizzazione del
sistema politico italiano (cioè con il modo con cui la Dc ha saputo interpretare il nesso
nazionale-internazionale) e non con la periodizzazione basata sulla strategia del Pci:
1) la nascita della repubblica, nel quadro dellunità antifascista;
2) lintegrazione negativa, durante il centrismo;
3) lallargamento del mercato interno, nella fase del centro-sinistra;
4) la costruzione dello stato sociale e la difesa delle istituzioni, nel periodo che va
dalla "strategia dellattenzione" alla solidarietà nazionale;
5) il consociativismo (cioè la difesa dei risultati conseguiti nelle fasi precedenti),
durante il pentapartito.
La conclusione che durante la guerra fredda la periodizzazione più attendibile della
storia del Pci ricalca quella della Dc e della politica estera americana, e che pur avendo
il Pci influenzato profondamente vita del paese la funzione da esso svolta fu assai più
una conseguenza della politica della Democrazia cristiana che il risultato della sua
elaborazione strategica, è solo apparentemente paradossale, e può costituire una
indicazione metodologica di qualche utilità per lo studio di un partito di opposizione in
un paese periferico nel secolo dellinterdipendenza.
Allo stesso tempo, essa ci sembra riassumere correttamente la caratteristiche (che in
linguaggio gramsciano potrebbero essere definite in termini di "rivoluzione
passiva") dello "scontro egemonico" che ha opposto gli Stati Uniti e
lUnione Sovietica e che sul piano interno è stato interpretato dalla Dc e dal Pci,
sulle cui origini e sul cui significato è possibile avanzare interpretazioni diverse, ma
sul cui esito non è lecito nutrire dubbi.
1) Lunità antifascista: la nascita della repubblica
La stagione dellunità antifascista costituisce lunico momento in cui gli
aspetti nazionali e quelli internazionali della strategia politica del Pci non furono in
contraddizione tra loro né con lassetto complessivo dei rapporti internazionali.
Lesistenza di una elaborazione autonoma sui caratteri della storia dItalia e
sugli interessi del paese, e la coerenza tra lindirizzo politico che da tale
elaborazione scaturiva e la politica dellUnione Sovietica, impegnata nella
"Grande Alleanza" con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, rese infatti possibile
la realizzazione delle principali parole dordine lanciate da Togliatti (governo di
unità antifascista, Costituente, repubblica, partito di massa), determinando una
sostanziale coincidenza tra la strategia del Pci e il suo ruolo effettivo.
A differenza di quanto sarebbe avvenuto in seguito, in quella fase il Pci fu così un
protagonista dellevoluzione della situazione politica interna (dettandone tempi e
modi a partire dalla "svolta di Salerno"), partecipò al governo del paese e
svolse un ruolo rilevante nella definizione dellassetto istituzionale, ponendo le
premesse per un suo duraturo radicamento nella società italiana.
In questo quadro, il legame con lUnione Sovietica agì in una duplice direzione: da
un lato diede respiro internazionale ad unipotesi di sviluppo nazionale
rafforzandone la credibilità; dallaltro consentì a Togliatti di condurre il suo
partito e il movimento operaio su una linea moderata e parlamentare, attribuendo al leader
comunista lautorità e le risorse necessarie a "disciplinare" posizioni e
orientamenti interni di carattere ben più "estremista".
2) Il centrismo: lintegrazione negativa
Lo scoppio della guerra fredda e la contestuale crisi finanziaria europea, che fu alla
base del varo del Piano Marshall, colpirono irrimediabilmente gli aspetti internazionali
della proposta comunista di governo minandone alla radice il fondamento. Sul piano
politico il rapporto con gli Stati Uniti diveniva incompatibile con il mantenimento di
relazioni amichevoli con lUnione Sovietica; sul piano economico le modalità di
risanamento della bilancia dei pagamenti e i caratteri della collocazione internazionale
delleconomia italiana prefigurati dal Piano Marshall entravano in contraddizione con
lipotesi avanzata dai comunisti (e non solo da loro) di continuare ad assegnare un
forte ruolo allinterscambio commerciale con lEuropa centrale e orientale.
In questo contesto, la Democrazia cristiana tra il 1947 e il 1950 definì la propria
funzione dirigente e la propria centralità politica rendendosi garante e interprete della
collocazione "euro-atlantica" dellItalia. Sul piano politico ciò
implicava lottenimento della garanzia militare americana e lesclusione delle
sinistre dall"area della legittimità" (ma non da quella della
"rappresentanza") nel quadro di un assetto centrista del sistema politico
fondato sulla doppia pregiudiziale antifascista e anticomunista.
Sul piano economico, il "vincolo esterno" connesso alla partecipazione al Piano
Marshall, alla Ceca e allUnione europea dei pagamenti, rese possibile la
realizzazione di un ambizioso disegno di sviluppo di tipo "neomercantilista"
fondato contemporaneamente sui bassi salari, sul sostegno al ceto medio e al sud del
paese, e su un "drenaggio" pubblico di risorse per la modernizzazione
dellapparato produttivo ad alta intensità di capitale (assai poco gradito da parte
della maggioranza del mondo imprenditoriale), che fu alla base del successivo
"miracolo economico".
La risposta del Pci a questi sviluppi è coerente con la strategia dellUrss e del
movimento comunista internazionale. Mentre la costituzione al Cominform sanciva il
recupero di una funzione di controllo ideologico da parte di Mosca sui partiti comunisti
italiano e francese (il cui elemento centrale non fu tanto il ritorno ad un effettivo
coordinamento politico sul modello del Comintern, quanto lavvio di unazione
sistematica e massiccia di finanziamento, che negli anni precedenti era stata assente), il
Pci fece proprie le parole dordine sovietiche sia opponendosi al Piano Marshall, al
Patto atlantico e allintergazione europea; sia partecipando attivamente al
"ricompattamento" del "campo socialista" intorno alla funzione guida
del Pcus attraverso la lotta contro Tito e il sostegno delle "purghe" nei paesi
di democrazia popolare.
In contrasto con ampi settori del suo gruppo dirigente, Togliatti seppe interpretare
questo riorientamento della linea comunista in relativa continutà con i presupposti del
disegno di "democrazia progressiva" e con i caratteri assunti dal "partito
nuovo", ribadendo sempre ladesione del Pci al regime parlamentare e
lesigenza di tenere in piedi un partito di massa, e trasformando la lotta
allintegrazione euro-atlantica del paese e al neomercantilismo centrista in una
battaglia per la difesa e lapplicazione della Costituzione intorno alle parole
dordine della "pace", dell"indipendenza", del
"lavoro" e della "libertà".
Al centro della strategia comunista vi era però una proposta di politica estera e di
collocazione internazionale delleconomia italiana che, per quanto venisse variamente
modulata in stretto rapporto con levoluzione della posizione sovietica, risultava
del tutto irrealistica rispetto al contesto internazionale, ed assegnava alla politica del
Pci un carattere puramente agitatorio sancendo una scissione tra la strategia e la
"funzione" che non sarebbe mai più stata ricomposta.
In quegli anni, il ruolo del Pci si definì infatti essenzialmente in rapporto ai
caratteri dellassetto impresso dalla Dc al sistema politico, al modello di sviluppo
ed alla collocazione internazionale del paese, risultando conflittuale ma di fatto
complementare ad esso (e contribuendo quindi per questa via al radicamento della
democrazia italiana).
Daltronde, lavvio di un processo di sviluppo fondato su alti tassi di
disoccupazione e sullesclusione del movimento operaio, se penalizzava
inevitabilmente la sinistra non comunista, apriva invece uno spazio enorme proprio al
"partito nuovo" di Togliatti. Il Pci era infatti ben più attrezzato di
socialisti e socialdemocratici a garantire una "integrazione negativa" del mondo
del lavoro nel nuovo Stato democratico, unificando e disciplinando in una robusta ossatura
nazionale (e internazionale) la maggior parte delle diverse forze e subculture che
costituivano il variegato e turbolento mondo della sinistra italiana.
A sua volta, proprio il suo relativo monopolio a sinistra risultava funzionale alla tenuta
del complesso assetto centrista del modello di sviluppo e del sistema politico. E così,
quanto più la Dc si rendeva protagonista di una variante particolarmente
"estrema" di State-corporatism che respingeva il contrattualismo ed
affermava il primato dellesecutivo e degli enti pubblici, tanto più il Pci poteva
svolgere il duplice ruolo di rappresentante del mondo del lavoro e di garante delle
prerogative del parlamento nel complesso equilibrio istituzionale del paese. Divenendo
protagonista di una sorta di "riformismo passivo" che dallopposizione
sollecitava e rafforzava le correnti riformatrici interne al blocco centrista, ma
perpetuando al proprio interno un singolare intreccio tra riformismo e massimalismo,
pragmatismo e finalismo, che avrebbe sempre ostacolato la sua compiuta trasformazione
favorendo la costante riproposizione di una funzione subalterna nei confronti della Dc.
La peculiare "combinazione" tra nazionale e internazionale realizzata dalla Dc
non stabilizzò dunque solo il blocco centrista ma anche il fronte comunista, accentuando
la dipendenza di entrambi da un "vincolo esterno" decisivo per la loro
sopravvivenza.
Da questo punto di vista, così come la gestione della "doppia lealtà" da parte
del gruppo dirigente democratico cristiano fu decisiva per laffermazione della sua
strategia, allo stesso modo il "legame di ferro" con lUrss consolidò la
funzione di "partito dellintegrazione negativa" svolta dal Pci.
Se pure infatti la capacità di Togliatti di interpretare "creativamente" i
vincoli che scaturivano da quel rapporto ebbe un peso senza dubbio rilevante nel mantenere
la politica del suo partito sul terreno della democrazia, lUnione Sovietica
contribuì in modo determinante a consolidare (e congelare) la forza del Pci: in primo
luogo grazie alle ingenti risorse simboliche e finanziarie che essa mise a disposizione
del gruppo dirigente italiano; in secondo luogo mediante lazione di sostegno della
leadership "moderata" di Togliatti che essa esercitò sempre nei momenti
decisivi, opponendosi a qualsiasi "cedimento" di tipo socialdemocratico ma
soprattutto scoraggiando apertamente ogni suggestione insurrezionalista proveniente
dallinterno del partito italiano.
3) Il centrosinistra: lallargamento del mercato interno
Dal punto di vista della strategia comunista il 1956 costituisce unindubbia data
periodizzante. Mentre aveva inizio un cauto dialogo tra Dc e Psi, le novità provenienti
da Mosca autorizzavano una ripresa dellelaborazione sulla "via italiana al
socialismo" e il tentativo di mettere in crisi lequilibrio centrista.
Il principale presupposto di questo disegno era la prospettiva "policentrista",
strettamente connessa a unipotesi (che col senno di poi ci appare del tutto
irrealistica) di riforma dellUrss e di progressivo superamento del bipolarismo che
avrebbe potuto determinare condizioni nuove per la politica del Pci.
Allindomani del XX congresso del Pcus e della diffusione del "rapporto
segreto" di Kruscev, Togliatti legò così alla critica agli elementi di
"degenerazione" subiti dallUnione Sovietica una proposta di
riorganizzazione su base regionale del movimento comunista internazionale volta a dare ad
esso una struttura policentrica che ponesse fine alla sua unità ideologica intorno alle
linee guida elaborate a Mosca.
Prima ancora che i fatti di Ungheria si incaricassero di ribadire linevitabilità di
una netta "scelta di campo", la dura reazione sovietica alla posizione di
Togliatti pose immediatamente fine ad ogni ipotesi di un drastico allentamento dei vincoli
del "legame di ferro" (ribaditi dalla Conferenza di Mosca del 1957), inducendo
il leader italiano a ripiegare su un modello di relazioni bilaterali con il Pcus e sulla
formula della "unità nella diversità" che, variamente modulata e bilanciata,
avrebbe di fatto costituito il paradigma dei rapporti tra Pci e Unione Sovietica fino al
1989.
Si trattava di una formula che implicava la scissione tra gli aspetti nazionali e quelli
internazionali della politica comunista, in quanto mentre la "diversità"
consentiva una relativa flessibilità e capacità di innovazione politica e ideologica sul
terreno delle scelte di politica interna, l"unità" sanciva la persistenza
del legame con lUrss e garantiva la compatibilità di ogni proposta di politica
estera con gli obiettivi della diplomazia sovietica.
In questo modo, il Pci vincolava la prospettiva strategica della "via italiana al
socialismo" al superamento del bipolarismo proprio nel momento in cui esso si avviava
a conoscere la sua definitiva consacrazione, privandosi così di ogni possibilità di
incidere significativamente sullagenda politica del paese.
Per individuare un mutamento significativo della politica del Pci e dei suoi concreti
risultati si dovettero quindi attendere i primi anni Sessanta, quando un complesso
intreccio di fattori interni e internazionali fece precipitare la crisi del centrismo
aprendo la strada al centro-sinistra.
Al volgere del decennio infatti proprio il successo del "noeomercantilismo"
degli anni 50 aveva fatto venir meno le condizioni dellespansività di quel
modello: mentre il mercato comune intensificava la concorrenza internazionale, il
raggiungimento di un virtuale pieno impiego colpiva, per la prima volta nella storia
unitaria, i presupposti di un modello di sviluppo fondato sui bassi salari e sui bassi
consumi, e a loro volta queste trasformazioni mettevano in discussione gli equilibri
sociali e politici che avevano sorretto la centralità della Dc e del suo sistema di
alleanze.
Come è stato recentemente dimostrato da Leopoldo Nuti, tali fattori (essi stessi frutto
del processo di integrazione europea e di un determinato assetto dei rapporti Usa-Europa)
interagirono con una complessa evoluzione del sistema internazionale e in particolare
della poltica estera americana, che contribuì a dettare i tempi (e quindi a condizionare
i caratteri) dellapertura a sinistra.
Mentre infatti sul piano economico affioravano le prime avvisaglie di un contenzioso che
aveva come oggetto la ridefinizione delle gerarchie interne allarea occidentale, su
quello politico il riorientamento della politica estera americana intrapreso
dallamministrazione Kennedy delineava lavvio di un duplice processo di
distensione dei rapporti con lUnione Sovietica e di maggiore centralizzazione delle
funzioni di comando nellarea occidentale che era destinato a influire notevolmente
sugli equilibri politici interni a un paese come lItalia.
Nella crisi del centrismo si esprimeva dunque il problema della modernizzazione
dellapparato produttivo e dei rapporti sociali e quello, ad esso strettamente
connesso, della collocazione internazionale del paese in uno scenario in profondo
mutamento. Ben presto, la formazione di una maggioranza di centro-sinistra apparve come la
soluzione più adatta ad affrontare queste sfide. Si trattava però di una convergenza tra
prospettive diverse che riguardava solo la necessità di dar vita alla nuova formula, e
tra i diversi attori politici si sviluppò una dura "lotta per legemonia"
la cui posta in gioco era leffettivo contenuto da assegnare ad essa.
In questo quadro, il tentativo di Togliatti fu quello di assecondare la rottura
dellequilibrio centrista con lobiettivo ultimo di dividere la Dc e di
consentire la formazione di una nuova maggioranza comprendente il Pci intorno ad un
programma imperniato sulla distensione internazionale (in vista del superamento dei
blocchi) e sulle "riforme di struttura", concepite come larchitrave e
lessenza della "via italiana al socialismo".
Alla base vi era unanalisi secondo cui il centro-sinistra non era solo una manovra
anticomunista (e quindi dal suo punto di vista intimamente conservatrice) ma una soluzione
eterogenea "dove il positivo e il negativo si intrecciano e confondono": non
solo perché si sarebbe allargata la maggioranza ad una parte del movimento operaio, ma
perché il fatto che lItalia avesse acquistato "una capacità di competizione
internazionale che prima non possedeva", aveva "creato la tendenza di una parte
del mondo della produzione a sottrarsi alle direttive e ingiunzioni dei circoli dirigenti
delleconomia americana, nella ricerca di una via daffermazione autonoma".
Per queste ragioni, secondo Togliatti non bisognava opporsi pregiudizialmente alla nuova
maggioranza, ma incalzarla affinché essa realizzasse il suo programma adottando un
atteggiamento costruttivo e realista. Non si trattava però di un compito semplice: la
qualità delle trasformazioni in atto e dei problemi sul tappeto imponevano al Pci di
ridefinire profondamente il proprio ruolo aggiornando il suo bagaglio teorico e
acquistando una capacità di proposta politica e programmatica che fino a quel momento era
mancata. Ma soprattutto, la credibilità della posizione comunista si scontrava con la
persistente rigidità del quadro internazionale e con i caratteri assunti dal processo di
destalinizzazione.
Lapprezzamento per le nuove tendenze della politica estera italiana in tema di
distensione e di rapporti economici con lest si traduceva infatti in una piattaforma
che se pure trovava dei significativi punti di contatto con le iniziative e le posizioni
di alcuni dei protagonisti dellapertura a sinistra, risultava del tutto
incompatibile con leffettiva natura di un processo di distensione il cui significato
di fondo non era il superamento dei blocchi ma il consolidamento del bipolarismo (e,
allinterno di esso della collocazione euro-atlantica dellItalia).
Allo stesso tempo, le vicende interne sovietiche e il contrasto con la Cina invece di
riaprire la prospettiva "policentrica" procedevano inesorabilmente - nonostante
gli sforzi di Togliatti - verso una rottura che da un lato sanciva limpossibilità
per un partito comunista di sfuggire allalternativa tra lallineamento
allUrss e lo scontro aperto con essa, e dallaltro costringeva ad
unazione di contrasto ideologico e politico delle tendenze "maoiste"
(contrarie al principio della coesistenza pacifica) che inevitabilmente spingeva a
rafforzare i legami con Mosca.
Se quindi ancora una volta il legame con lUrss e i limiti intrinseci della cultura
politica comunista privavano di respiro strategico lazione del Pci, specularmente la
complessa partita interna al centro-sinistra vedeva la progressiva affermazione della
prospettiva morotea: cioè della scommessa sulla capacità della Dc di governare il
complesso mutamento in atto rifondando su basi nuove la propria centralità nel sistema
politico italiano.
Anche in questo caso, a determinare tale esito concorsero fattori di ordine interno e
internazionale. Da un lato lintreccio pervasivo tra modernità e arretratezza che
caratterizzava lassetto economico sociale del paese mostrò ben presto tutta la sua
vischiosità di fronte alla fragilità di un fronte riformatore che non poteva contare
neanche sullappoggio pieno dellinsieme del mondo del lavoro. Dallaltro,
la chiusura di una convulsa fase di movimento del sistema internazionale intorno a un
equilibrio incentrato sul carattere rigidamente bipolare del processo di distensione,
oltre che sulla riproposizione dellasse franco-tedesco (trattato dellEliseo) e
di quello anglo-americano (conferenza di Nassau), riduceva al minimo gli elementi di
novità del quadro esterno, favorendo una sostanziale "tenuta" del modello di
integrazione internazionale dellItalia definito negli anni Cinquanta a tutto
svantaggio delle componenti riformiste del centro-sinistra.
Con la "stretta" creditizia del 1963-64 (che non a caso riproponeva un schema
consolidato di gestione del nesso nazionale-internazionale), il ripristino in un contesto
ormai mutato dello schema degli anni Cinquanta apriva così la stagione della
"crescita senza sviluppo" (riduzione degli investimenti, aumento
dellesportazione di beni, uomini e capitali, peso crescente delle banche pubbliche
nel finanziamento allimpresa, segmentazione del mercato del lavoro, aumento dei
trasferimenti al sud e verso il ceto medio), in cui lassetto economico-sociale
raggiunto rispecchiava quello di un sistema politico caratterizzato da una sorta di
centrismo allargato.
In questo equilibrio, mentre il Psi pagava con una consistente scissione e con una
crescente subalternità nei confronti della Dc il fallimento delle proprie ambizioni
riformatrici, al Pci si apriva lo spazio consistente ma delimitato di principale sostegno
e punto di riferimento delle spinte allallargamento del mercato interno che
scaturivano delle vertenze salariali del mondo del lavoro dipendente e dalle lotte nel
Mezzogiorno, il che si rifletteva nel rafforzamento del suo peso elettorale e nel
consolidamento del suo ruolo di opposizione.
Non era certo una funzione di poco rilievo, che andava oltre la semplice
"integrazione negativa" e che dava concretezza e forza a quellobiettivo di
una "liberazione dal bisogno" che era al centro del progetto dello stesso Moro.
Rispetto allorizzonte della "via italiana al socialismo" si trattava però
indubbiamente di una sconfitta, della cui consapevolezza sono intrisi gli ultimi
interventi di Togliatti.
Tracciando un bilancio dellazione di quegli anni, egli riconosceva infatti che
"la sola azione sistematica volta a intaccare le strutture coronata da successo non
trascurabile" era stata "la lotta dei sindacati per laumento dei salari e
laccrescimento del loro potere contrattuale".
E se probabilmente vi è una parte di verità nella successiva affermazione
dellimpossibilità di un "riformismo borghese" in Italia, ciò non toglie
che il legame con lUrss aveva privato il paese del potenziale apporto riformatore di
una consistente parte del mondo del lavoro in una congiuntura decisiva che avrebbe
condizionato profondamente il suo futuro.
4) "Attenzione" e "solidarietà": stato sociale e difesa delle
istituzioni
Nei primi anni successivi alla morte di Togliatti lemergere di una dialettica
politica interna non aveva portato significative innovazioni né della strategia né della
funzione del Pci, che erano rimaste quelle fissate, rispettivamente, allVIII
congresso e al momento della nascita del centro-sinistra "organico".
Per registrare un mutamento di un certo rilievo si dovettero attendere ancora una volta
degli eventi esterni (lotte studentesche e operaie e crisi del centro-sinistra, intervento
sovietico a Praga e conflitto aperto Cina-Urss, fine dellordine di Bretton Woods e
"conflitto economico mondiale", sviluppo della distensione est-ovest), che in
pochi anni trasformarono profondamente il quadro interno e internazionale entro cui si era
svolta la politica comunista.
Il percorso per la definizione di una nuova linea politica fu complesso e accidentato
(almeno altrettanto quanto il contesto entro cui si sviluppò), ma esso sfociò in una
strategia che non usciva dal tradizionale orizzonte di quella "via italiana al
socialismo" che Togliatti stesso aveva giudicato pericolosamente inadeguata di fronte
ai mutamenti avviatisi nei primi anni Sessanta.
Ridimensionati i toni radicali che avevano accompagnato le lotte del 1968-69 e la critica
allintervento sovietico a Praga e sullUssuri (spingendo il Pci a parlare di
"rivoluzione socialista" come unica via di uscita di fronte alla "crisi del
capitalismo" e a rilanciare la parola dordine delluscita immediata
dellItalia dalla Nato), la proposta di "alternativa democratica al
centro-sinistra" era stata articolata intorno ai suoi tre assi tradizionali: la
collaborazione tra comunisti, socialisti e cattolici, la "programmazione
democratica", la politica estera di distensione tendente al superamento dei blocchi.
Naturalmente su tutti e tre i punti si registrarono delle novità, che furono spesso il
frutto di accese discussioni interne al vertice del partito, ma limpianto di fondo
della strategia comunista rimase sostanzialmente intatto e di conseguenza le sue aporie ne
risultarono ulteriormente accentuate.
La proposta di politica economica fu infatti sensibilmente affinata ed arricchita, e
tuttavia la sua base analitica si fondava sullidea che le lotte operaie e
laumento delle materie prime stessero facendo esplodere una "crisi del
capitalismo", che in Italia si manifestava con particolare intensità a causa dello
"sviluppo distorto" delleconomia del paese e che richiedeva perciò una
"direzione programmata delleconomia" incentrata su una "espansione
del settore pubblico" e su un "patto tra i produttori" che introducesse
nella società degli "elementi di socialismo".
Veniva in sostanza riproposta una visione statalistica dellintervento pubblico che
di per sé non si discostava troppo dal tradizionale keynesismo nazionale di stampo
socialdemocratico, ma che non teneva conto della reale natura assunta degli apparati
riproduttivi di una società complessa né dellimpraticabilità di ogni ipotesi di
sviluppo nazionale che prescindesse dalla complessa rete di interdipendenze in cui era
inserita leconomia italiana.
Anche la proposta politica subì una significativa evoluzione. Se infatti inizialmente
Giorgio Amendola fu isolato nel chiedere lingresso del Pci nella maggioranza, già
al XIII congresso (marzo 1972) tale eventualità fu legata allesistenza di una
"emergenza democratica" e di un "programma riformatore", anticipando
così quella proposta di un "compromesso storico" tra "tutte le forze
popolari e democratiche" prefigurata nel saggio del 73 sui fatti cileni ed
avanzata formalmente al XIV congresso (marzo 1975).
Torneremo più avanti sulla questione della praticabilità politica di questa ipotesi.
Ciò che occorre sottolineare fin dora è che la proposta di una maggioranza con tutta
la Dc se da un lato dimostrava la centralità nella cultura berligueriana di una visione
"organicistica" dei rapporti tra politica e società (che ci sembra
riconducibile alla crescente influenza del pensiero di Franco Rodano assai più che
alleredità togliattiana) del tutto in controtendenza con i mutamenti innescati dal
68, dallaltro impliceva una scommessa sulla possibilità di condizionare in
senso riformatore la politica del partito cattolico.
Una sfida che presupponeva la capacità del Pci di rinnnovare la propria cultura, il
proprio insediamento e la propria organizzazione di fronte ai colossali mutamenti
determinati dalla diffusione della società dei consumi e dallo sviluppo degli apparati
della riproduzione, e rispetto alla quale una forza organizzata ancora sul modello del
"partito nuovo" (centralismo democratico, primato della territorialità e della
mediazione parlamentare) era assai poco attrezzata.
Le innovazioni apparentemente più consistenti si registrarono comunque sul terreno della
politica estera. La "disapprovazione" dellintervento sovietico in
Cecoslovacchia, ribadita e formalizzata (pur con toni più smorzati) lanno
successivo in sede congressuale, fu loccasione per lavvio di una riflessione
critica sul bipolarismo e sulle prospettive del movimento comunista che sarebbe sfociata
nella proposta dell"eurocomunismo", ma che non portò ad una rottura dei
rapporti con lUnione Sovietica né al superamento dello schema consolidato della
"unità nella diversità".
Da un lato infatti pesò la consapevolezza che lisolamento da Mosca avrebbe avuto
come conseguenza delle "gravi limitazioni politiche e materiali",
dallaltro prevalse lorientamento, forte soprattutto nella "destra"
del partito, che concepiva il rapporto con lUrss come una garanzia contro
laffermazione di posizioni più massimaliste e considerava una eventuale rottura un
ostacolo per la politica di distensione e, sul piano interno, per quella delle alleanze.
Il XXIV congresso del Pcus fu così loccasione di una riconciliazione sancita dalle
inequivocabili parole di Berlinguer al suo ritorno da Mosca ("limpressione [del
congresso] è di grande forza e grandi potenzialità [
]. Accentuazione della
politica di pace e del ruolo dellUrss come grande potenza [
]. Risulta
confermato il legame - anche per quel che questo legame ci dà - e il nostro sforzo
autonomo").
La conseguenza non fu solo un sostanzioso incremento del finanziamento sovietico, ma anche
lavvio di una revisione delle posizioni di politica estera del partito che venne
sollecitata da Amendola e Bufalini proprio sulla scia dellevoluzione della politica
di Breznev ("rispetto a certe accentuazioni un po dogmatiche ed estremistiche
nostre verso gli Usa, la politica dellUrss è più moderna e avanzata di noi")
e che portò ad archiviare la richiesta di unuscita dellItalia dalla Nato.
Non deve quindi stupire che le nuove posizioni di politica estera del Pci abbiano
incontrato lesplicita approvazione dei sovietici per tutto quello che riguardava i
rapporti con gli Stati Uniti e laccettazione dellalleanza atlantica, in quanto
esse erano del tutto coerenti con i caratteri di un processo di distensione che
lUrss apprezzava soprattutto per lapproccio "realistico"
kissingeriano teso a riconoscere gli assetti delle reciproche sfere di influenza.
Non a caso, in quella fase le uniche perplessità e riserve sovietiche riguardarono lo
sviluppo della dimensione europea occidentale della politica dei comunisti italiani, vista
la comune ostilità con cui a Washington e a Mosca si guardava al rilancio del processo di
integrazione.
La nota intervista di Berlinguer sul Patto atlantico del giugno 1976 (che riprendeva in
termini più netti una posizione già espressa al XIV congresso e che per questo non
suscitò un dibattito interno al gruppo dirigente) non costituì dunque in alcun modo un
atto di rottura nei confronti dellUnione Sovietica, né tanto meno uno scioglimento
della "doppia lealtà" del Pci o una rinuncia al "finalismo" implicito
nellidentità comunista di quel partito.
E tuttavia, come ha bene illustrato Silvio Pons nella sua relazione, il rapporto con
lUrss si trasformava da un elemento "forte" in un elemento
"debole" della strategia comunista, in quanto se da un lato esso cessava di
essere il fondamento di una prospettiva internazionale (per quanto irrealistica essa
fosse) che collegava la "via italiana al socialismo" al superamento dei blocchi,
dallaltro la sua persistenza impediva lassunzione di una diversa e più
credibile linea di politica estera, divenendo fino in fondo una garanzia e una sanzione
della permanente funzione subalterna del Pci nella vita politica italiana.
Proprio la realistica accettazione di una distensione graduale e incentrata sui blocchi
rendeva infatti illusorio pensare che un partito legato allUnione Sovietica potesse
accedere al governo dellItalia, mentre lassenza di una prospettiva
internazionale differente da quella tradizionalmente connessa alla "via nazionale al
socialismo" (unItalia aperta al commercio con lest in unEuropa
senza blocchi) accentuava il carattere angustamente "nazionale" della proposta
comunista di governo.
Su queste basi, il disegno di un "compromesso storico" che aprisse la strada ad
una "alternativa democratica" al centro-sinistra non poteva che risultare del
tutto velleitario di fronte alla reale natura dei processi interni e internazionali,
accentuando ulteriormente la fragilità della stretegia comunista e aprendo la strada alla
sua inevitabile sconfitta.
Se infatti dal piano della strategia passiamo a quello dei risultati della politica
comunista, possiamo agevolmente constatare che, anche in questo caso, tempi e modi della
ridefinizione del ruolo del Pci furono governati da altri attori, innanzitutto dalla Dc. A
differenza che in altre circostanze però questa volta la gestione del nesso
nazionale-internazionale da parte del partito cattolico risultò difficile e poco lineare,
il che costituisce una delle manifestazioni più evidenti della profondità della crisi
italiana degli anni settanta.
Da questo punto di vista, il confronto con lesperienza tedesca ci sembra
particolarmente illuminante. In Germania infatti di fronte alla svolta nei rapporti
internazionali segnata dalla presidenza Nixon il governo socialdemocratico di Brandt,
rovesciando la tradizionale Wespolitik inaugurata da Adenauer, seppe costruire
intorno alla linea della Ostpolitik un blocco di forze capaci di dare forma a una
nuova combinazione di politica interna e politica estera in grado di legare tra loro
sviluppo del welfare, moderazione salariale, bassa inflazione, aumento di competitività
delle imprese, rivalutazione del marco e rafforzamento della presenza internazionale della
Repubblica federale sugli scenari centro-orientale e mediterraneo.
In Italia invece, coerentemente con il carattere "centripeto" del sistema
politico, il confronto tra diverse prospettive di politica estera e di politica interna
non fu sciolto in maniera univoca, e il tentativo di svolgere una autonoma politica
mediterranea funzionale alla riduzione della dipendenza energetica del paese realizzando
contemporaneamente con il movimento operaio uno scambio tra moderazione salariale,
riduzione degli sprechi e welfare state, coesistette con una linea del tutto opposta che
si tradusse nella svalutazione della lira e nel suo aggancio al dollaro piuttosto che al
marco.
Da questo punto di vista, una parte consistente dei gruppi dirigenti del paese (a
cominciare da Moro e La Malfa) concepì la cosiddetta "strategia
dellattenzione", ossia il crescente coinvolgimento del Pci negli indirizzi
legislativi (ma assolutamente non nel governo), come funzionale allaffermazione di
una delle due linee in campo (che per semplicità possiamo assimilare, fatte le debite
differenze, a quella seguita in Germania da Brandt).
In realtà, il risultato di quella politica contribuì a realizzare una sorta di
"intreccio perverso" tra le due linee, determinando lattivazione di un
circolo vizioso tra spesa pubblica, inflazione, bassa competitività, svalutazione,
sganciamento dal sistema monetario europeo e basso profilo internazionale del paese, che
garantì la "tenuta" del modello di sviluppo italiano e del sistema politico
fondato sulla centralità della Dc (oltre che, occorre ricordarlo, delle istituzioni
democratiche), ma pose le basi per una profonda quanto inevitabile degenerazione di
entrambi, che sarebbe esplosa drammaticamente un decennio dopo.
Nonostante lasprezza dello scontro interno alla Dc tra i sostenitori della linea del
neocentrismo e quelli del centro-sinistra, grazie anche al nuovo regolamento parlamentare
varato nel 1971 il coinvolgimento comunista nellazione legislativa fu infatti
relativamente costante in tutta la prima metà del decennio, e proprio uno dei principali
avversari di Moro, Giulio Andreotti, fu tra coloro i quali diedero un maggiore contributo
alla "strategia dellattenzione" teorizzata dallo statista pugliese.
I risultati di questa azione, che si combinò con quella tradizionale di carattere
sindacale, se da un lato consentirono una nuova e ondata di incrementi salariali e il varo
o la riforma di alcuni importanti istituti del welfare, dallaltro lato contribuirono
significativamente ad un incremento complessivo della spesa pubblica che, non accompagnato
da un consistente aumento delle entrate, diede alla politica economica del periodo una
indubbia efficacia anticiclica che fu però raggiunta al prezzo dellattivazione di
quel "circolo vizioso" sopra sommariamente delineato e di una drastica perdita
di competitività del "sistema-paese".
Lesito del referendum sul divorzio e delle elezioni del 1975-76 resero inevitabile
un salto di qualità di questa strategia, nella ricerca di un più organico compromesso
con il Pci volto a garantire la governabilità, a rafforzare le istituzioni di fronte alla
minaccia terroristica ed a consentire una stabilizzazione consensuale della situazione
economico-sociale.
Ancora una volta la linea proposta da Moro ("leader inevitabile, non leader
prescelto") veniva ad essere imposta dalle cose, ed ancora una volta essa sarebbe
stata realizzata da un partito che si riconosceva solo in parte nelle sue posizioni. In
ogni caso, si trattava anche in questo caso di una linea che non implicava alcuna
legittimazione politica verso il Pci, ed aveva come presupposto la conservazione della
centralità della Dc e la chiara delimitazione dei confini della collaborazione con i
comunisti, con i quali, secondo Moro, poteva realizzarsi una "convergenza
parallela" ma non una alleanza politica innanzitutto in virtù di considerazione di
carattere internazionale (come dimostrò lesclusione delle questioni di politica
estera dallaccordo programmatico del 1977).
In ciò vi era daltronde una piena sintonia con gli indirizzi della nuova
amministrazione Carter, che come è stato recentemente dimostrato era disponibile ad
accettare un coinvolgimento del Pci in funzione di contenimento della grave crisi
economico-sociale ma si sarebbe opposta fermamente ad ogni ipotesi di partecipazione
diretta dei comunisti al governo.
Inoltre, contrariamente a quanto da molti ritenuto allepoca, la "new foreign
policy" di Carter pur mirando alla distensione costituiva per certi aspetti "un
ritorno agli obiettivi e ai principi fondamentali del containment" dopo la
"anomalia" del "realismo" dellera Kissinger, e la sua costante
"sfida" allUrss su temi apparentemente secondari come il commercio, le
tecnologie e i diritti umani sarebbe ben presto risultata assai poco gradita a Mosca,
soprattutto nella sua versione più "assertiva" inaugurata nel corso del 1977.
Non a caso, proprio in quellanno i sovietici iniziarono ad esprimere un crescente
malumore per le posizioni del Pci, soprattutto in tema di diritti umani ma anche sulle
questioni di politica internazionale, dimostrando esplicitamente che il precedente
consenso allaccettazione comunista della Nato era connesso ad una fase del processo
di distensione che essi ritenevano minacciata sia dalla politica dellamministrazione
Carter sia dalla prospettiva di un ingresso al governo del Pci (anche perché in
quellanno i comunisti italiani, nel tentativo di restituire respiro strategico alla
collaborazione con la Dc, tornarono a introdurre nella loro elaborazione alcuni
riferimenti ad un superamento dei blocchi).
In questo quadro, lingresso dei comunisti nella maggioranza sancito nel febbraio del
1978 non solo non avrebbe fatto venir meno i limiti intrinseci della strategia del
compromesso storico, ma per di più avvenne in ritardo rispetto allevoluzione del
processo di distensione, finendo con il coincidere con un raffreddamento delle relazioni
tra i blocchi che rese entrambe le superpotenze estremamente diffidenti verso il nuovo
governo Andreotti.
I risultati del triennio della solidarietà nazionale furono quindi, e non poteva essere
diversamente, assai diversi dagli obiettivi politici e programmatici che il Pci si era
prefisso, e la Dc dimostrò ancora una volta una capacità egemonica nettamente superiore
a quella dei suoi interlocutori politici.
Il Pci svolse comunque una funzione determinante per unazione di stabilizzazione di
indubbia efficacia, che oltre a respingere lassalto brigatista consentì di porre
sotto controllo le principali variabili economiche ristabilendo i margini di profitto
delle imprese e rimettendo in moto la crescita dopo la grave recessione del 1975.
Il contenuto fondamentale di tale azione fu però quello di un sostegno agli assetti
tradizionali del sistema produttivo del paese e di una accentuazione dei caratteri
particolaristici del welfare italiano, che avrebbero determinato una complessiva perdita
di competitività delleconomia e un arretramento della "frontiera
tecnologica" simboleggiato dallentità della svalutazione subita dalla lira nel
corso del decennio.
Lincapacità di realizzare i propri obiettivi, i segnali di una perdita di consenso
nel proprio elettorato e la sempre minore sintonia con un quadro internazionale segnato da
crescenti tensioni indussero così Berlinguer a lasciare la maggioranza di solidarietà
nazionale, e non a caso ciò avvenne proprio su un tema, ladesione allo Sme, che
incorporava quel nesso nazionale-internazionale che il Pci aveva tentato inutilmente di
eludere.
Nonostante la sconfitta della strategia del "compromesso storico",
lesperienza della solidarietà nazionale segnò profondamente i caratteri del Pci.
Per la prima volta dal 1947 il gruppo dirigente del partito comunista aveva dovuto
misurarsi concretamente (anche se indirettamente) con il tema del governo e con i compiti
e le responsabilità ad esso connessi, stabilendo una piena identificazione con lo Stato e
le istituzioni che impresse una profonda discontinuità nella sua storia e nel senso
comune dei suoi militanti.
Le modalità della partecipazione del Pci alla maggioranza, che ne fecero una sorta di junior
partner non legittimato a governare in prima persona (e che erano state rese
inevitabili dal mancato scioglimento delle aporie della "doppia lealtà" e del
tema dellidentità), avrebbero però contribuito a conservare nella cultura politica
di quel partito una persistente difficoltà a definire in forme nuove il proprio ruolo nel
sistema politico italiano, ponendo le premesse del lungo immobilismo degli anni ottanta.
5) Il pentapartito: consociativismo e arroccamento
La fine della solidarietà nazionale e lavvio della stagione del pentapartito
coincide con un profondo mutamento del quadro internazionale aperto dal riacutizzarsi
delle tensioni est-ovest e segnato dalla svolta con cui a partire dal 1979 gli Stati Uniti
iniziarono una politica di alti tassi di interesse (che portò alle stelle il prezzo del
dollaro facendo affluire in quel paese capitali da tutto il mondo) e promossero un
massiccio riarmo per sostenere linnovazione tecnologica e la riconversione
"postfordista" della loro economia.
Le politiche di sostegno alla domanda e il compromesso sociale e politico su cui si era
retto lo sviluppo postbellico venivano così messe in discussione dai costi di una
ristrutturazione da compiersi in condizioni di disordine sistemico ed alto costo del
denaro, oltre che dalla sempre minore sostenibilità finanziaria degli istituti dello
stato sociale e dalla loro incapacità di includere nelle loro maglie le nuove figure
sociali prodotte dalla "terza rivoluzione industriale".
In Italia, il compito di porre fine al regime inflattivo fu affrontato dai governi di
pentapartito, una formula inevitabile che scaturiva delle scelte opposte e complementari
del "preambolo" e della "alternativa".
La scelta di aderire allo Sme ed il "divorzio" fra Tesoro e Banca dItalia
lasciavano intendere la prevalenza di unopzione per il "rigore", il
rafforzamento del cambio e il riavvicinamento ai partners europei nel quadro di uno sforzo
volto a recuperare un profilo autonomo alla politica estera italiana negli scenari
mediterraneo e mediorientale. A sua volta, la fine dellaccordo con il Pci poteva
essere indicativa del tentativo di realizzare una "stabilizzazione conflittuale"
analoga a quella avviata in Inghilterra in quegli anni in alternativa al modello
"concertato" promosso in altri paesi europei.
In realtà, le politiche degli anni 80 furono caratterizzate da un intreccio tra la
linea del "rigore" e quella della "spesa" (che coesistevano sia nella
maggioranza che nellopposizione), realizzato nel quadro di una sorta di
"conflittualità consociativa" con il Pci e il movimento sindacale e di una
difficoltà (comune a tutto il continente) a dare nuovo respiro al processo di
integrazione europea.
Il risultato fu una stabilizzazione fondata su una riduzione solo parziale
dellinflazione, su una politica del cambio più rigorosa ma aperta a frequenti
svalutazioni competitive, e soprattutto su un costante aumento della spesa e del debito
pubblico che avrebbe dato vita a una nuova "modernizzazione senza sviluppo"
dellapparato produttivo ponendo le premesse per quella frattura tra settori protetti
e settori esposti alla concorrenza internazionale e tra "garantiti" e
"esclusi" che si sarebbe clamorosamente rivelata negli anni Novanta di fronte
allineludibilità dellappuntamento con il "vincolo esterno".
Se lincapacità della maggioranza di comporre in una linea univoca e coerente la
pluralità delle opzioni e degli interessi presenti al suo interno contribuì naturalmente
in misura decisiva a determinare questo sbocco, il modo con cui il Pci interpretò la
nuova fase si rivelò a sua volta del tutto funzionale alla tenuta dellassetto
politico, economico e sociale che caratterizzò la politica del pentapartito negli anni
ottanta.
Il perno della nuova strategia comunista furono le due "svolte" con cui
Berlinguer annunciò la politica dell"alternativa democratica" e lo
"strappo" da Mosca a ridosso rispettivamente delle polemiche sul terremoto
nellIrpinia e del colpo di stato in Polonia. Ma nonostante lenfasi e il
clamore che accompagnarono queste scelte, la loro principale caratteristica fu la
difficoltà a superare lorizzonte culturale che aveva sorretto la politica del Pci
negli anni settanta, e lintento essenzialmente difensivo con cui si assegnò loro il
compito di tutelare il ruolo tradizionale del Pci nel sistema politico e nella società
italiana.
Nonostante infatti nelle tesi del XVI congresso (marzo 1983) i caratteri del "circolo
vizioso della rendita" fossero individuati correttamente e si affermasse che "le
politiche espansive del vecchio tipo non sono più proponibili" ed era necessario
quindi promuovere "una politica rigorosamente selettiva" che fosse capace di
"scomporre e dislocare" il blocco di interessi della Dc attraverso una
"programmazione non statalistica", quegli spunti rimasero del tutto isolati.
E così essi da un lato convissero con un impianto tradizionale in cui la
"ricomposizione del lavoro dipendente" era concepita come indistinta
giustapposizione di interessi da difendere e la spesa pubblica e le partecipazioni statali
apparivano le leve principali di unazione mirata ad "allargare le basi(...) del
processo di accumulazione" per realizzare il "superamento del sistema
capitalistico". E dallaltro non intaccarono una concreta azione politica e
rivendicativa a livello nazionale e locale che schiacciava il Pci sul proprio blocco
tradizionale (come avrebbe dimostrato la vicenda del referendum sulla scala mobile),
facendone sempre più, come fu rilevato criticamente, "il partito [
]
dellarticolazione dello stato sociale in crisi".
Ma era soprattutto sul piano politico che la proposta dellalternativa democratica
mostrava la sua fragilità. Dopo aver respinto una pur vaga offerta di dialogo avanzata da
Bettino Craxi sulla base di una lettura della politica socialista che la paragonava
all"opera dei partiti socialdemocratici europei che con i loro errori hanno
aperto la strada alla reazione e al nazismo", Berlinguer escluse infatti con nettezza
la praticabilità di una strada "mitterandiana" in Italia.
Successivamente, con la nota intervista a Scalfari con cui pose la "questione
morale" al "centro del problema italiano", il segretario comunista spostò
ulteriormente lasse della politica di alternativa accentuando i tratti di
"diversità" del Pci (una diversità etica che veniva fatta poggiare sulla
"coscienza anticapitalista" dei comunisti) da tutti gli altri partiti italiani,
mentre la speculare virata neocentrista compiuta dal Psi garantì il protrarsi per tutto
il decennio dello scontro frontale tra i due partiti.
Contemporaneamente, il Pci si oppose con decisione ad ogni ipotesi di riforma
costituzionale e di modificazione del sistema elettorale, ribadendo con chiarezza la
propria contrarietà al principio del bipolarismo e, allindomani dellelezione
di De Mita a segretario della Dc, stabilì unanimemente di circoscrivere il dialogo
istituzionale al terreno della riforma del processo legislativo e
dellamministrazione della giustizia.
Al di là delle ragioni dettate dalla contingenza politica, alla base del duplice
arroccamento (politico e istituzionale) del Pci sembrava esservi innanzitutto la chiara
consapevolezza che una alternativa di governo, e quindi la trasformazione del sistema
politico italiano in senso bipolare, avrebbe inevitabilmente determinato una profonda
trasformazione del partito: del suo ruolo, del suo insediamento sociale, della sua
organizzazione interna e quindi della sua identità.
Nonostante nelle discussioni interne si affacciasse la consapevolezza dellesigenza
di "ridefinire i caratteri costitutivi, culturali, il ruolo nazionale" di un
blocco di forze che non hanno più "i caratteri del dopoguerra" e che per questo
"non possono essere tenute insieme se non sulla base di programmi, di grandi opzioni
interne e internazionali", risultò infatti di gran lunga più forte la convinzione
che al di fuori dello schema entro cui si era sviluppato dopo il 1945 il Pci avrebbe
esaurito la propria funzione e sarebbe stato quasi certamente condannato alla scomparsa o
comunque alla marginalizzazione.
Indipendentemente dalle altre difficoltà che lipotesi "mitterandiana"
incontrava, quella prospettiva venne insomma respinta soprattutto perché, come fu
affermato, "se cade il nostro ruolo la "ditta" chiude" per
"mancanza di ragioni sociali". Ed analogamente, ogni ipotesi di premio di
maggioranza fu rifiutata perché si riteneva che "lanomalia italiana (il Pci)
verrebbe meno se venisse meno la proporzionale", mentre quel sistema "ha
permesso che vi sia lunico partito comunista in Europa con una base di massa".
Sulla base di queste premesse, la linea dellalternativa non poteva che divenire uno
strumento attraverso cui "saldare il nostro schieramento sociale fondamentale",
difendendo la forza organizzata del Pci e "ricompattando" un partito che si
riteneva incapace di "reggere" la prova del governo.
Negli anni successivi quellobiettivo fu così al centro della strategia comunista, e
venne perseguito, in un crescendo che raggiunse il culmine con il referendum sulla scala
mobile, attraverso un inasprimento dellopposizione sociale e mediante luso
accorto degli strumenti del governo locale e dei notevoli spazi di manovra che il
claudicante sistema politico-istituzionale italiano offriva a una sapiente azione
parlamentare di tipo "consociativo".
In questo quadro, si comprende dunque meglio perché il Pci, se accentuò il proprio
atteggiamento critico nei confronti dellUnione Sovietica fino a dichiarare
lesaurimento di unintera fase della vicenda storica del movimento operaio
apertasi con la rivoluzione dottobre, non condusse però questa revisione alle sue
estreme (e logiche) conseguenze mantenendo in piedi quel simulacro di "doppia
lealtà" che consentiva di riproporre una conventio ad excludendum sempre meno
credibile dopo laccettazione della Nato del 76.
Non cè dubbio infatti che lo "strappo" costituì un atto coraggioso e di
grande rilievo politico, che contribuisce a spiegare la sostanziale "tenuta" del
Pci nel corso del decennio marcandone la differenza sostanziale con il Pcf. E tuttavia
anche in questo caso lazione del gruppo dirigente comunista appare motivata
soprattutto dallesigenza di riaffermare, aggiornandole alla luce delle novità dei
primi anni 80, le posizioni assunte nel corso degli anni 70, evitando però di
impegnarsi in uno sforzo di ridefinizione dellidentità e della collocazione
internazionale del partito che si riteneva avrebbe fatto pagare dei prezzi troppo alti.
Per questo nello schema "dialettico" con cui motivò "lesaurimento
della spinta propulsiva" della rivoluzione di ottobre Berlinguer ribadì anche il
"superamento" della socialdemocrazia giustificando il valore di una collocazione
solitaria che consentiva al Pci di essere "uno dei pochi punti di legame tra i Paesi
socialisti [...], il movimento operaio, comunista, socialista, socialdemocratico e i Paesi
del terzo mondo".
E per questo, nonostante nelle tesi del congresso dell83 si ponesse apertamente
lobiettivo della "ricomposizione del movimento operaio dellEuropa
occidentale" (un riferimento che comunque scomparve dalla relazione di Berlinguer,
che spostò laccento sullesigenza di dialogo con i movimenti cattolici),
lintensificazione del confronto con i principali partiti dellInternazionale
socialista continuò a convivere con la riproposizione di unirriducibile
"diversità" ideologica nei confronti di quelle forze.
Naturalmente esistevano delle difficoltà oggettive che rendevano problematica una rottura
definitiva con Mosca, a cominciare dal rischio di vedere affermarsi unopposizione
interna sostenuta apertamente dallUrss (il che comunque avvenne lo stesso). E
tuttavia questa reticenza ad affrontare la questione dellidentità comunista era
assai più la conseguenza che la causa di un atteggiamento difensivo, le cui
motivazioni erano innanzitutto interne.
Più precisamente, il paradosso evidente di uno "strappo" che ribadiva la
precedente collocazione internazionale del Pci rifletteva limpasse più
generale di una linea di "alternativa" che si traduceva di fatto (sul piano
politico, istituzionale e programmatico oltre che su quello ideale) nella strenua difesa
del ruolo del Pci nel vecchio sistema politico.
Per queste ragioni, nonostante dopo la morte di Berlinguer le sconfitte e i sintomi
evidenti di un declino elettorale ed organizzativo si facessero sempre più evidenti, il
processo di revisione avviato nel 1986 non sciolse i nodi di fondo che paralizzavano il
partito, nonostante la prospettiva duplice di un tramonto della guerra fredda e di un
rilancio del processo di integrazione sotto limpulso di alcune forze del socialismo
europeo delineasse un quadro internazionale meno "ostile" di quello della prima
metà del decennio.
La decisione presa al XVI congresso di definire il Pci un "partito di programma"
che fosse "parte integrante della sinistra europea" si accompagnò infatti ad
unazione tesa essenzialmente a ricostituire ununità del gruppo dirigente
(messa a dura prova dallultimo periodo della segreteria di Berlinguer), che fu
cementata proprio dallassenza di scelte nette sui principali nodi politici e
culturali sul tappeto, a cominciare dal problema del nome del partito.
Da questo punto di vista anzi, proprio lascesa al potere di Gorbaciov, che
nellincontro avuto in gennaio a Mosca con Natta aveva esplicitamente chiesto di non
affrontare il tema, risultò di ostacolo allavvio di dibattito sul comunismo
rinverdendo le speranze in una "riformabilità" dellUrss e rilanciando lo
schema dell"unità nella diversità".
Dopo la sconfitta alle elezioni del 1987, lascesa al vertice del partito di una
nuova generazione di dirigenti impresse unaccelerazione al processo di rinnovamento,
e nel novembre dello stesso anno il nuovo vicesegretario Achille Occhetto affermò
lesigenza di introdurre una netta "discontinuità" nel ruolo
tradizionalmente svolto dal Pci, riconoscendo che "la difesa dello statu quo non
garantisce la salvaguardia reale dei principi fondamentali che si vogliono
preservare" e che occorreva chiudere la stagione della "democrazia
consociativa" proponendo una "organica riforma istituzionale" che desse
sostanza alla linea di alternativa democratica.
Nonostante ciò, nei mesi successivi la "svolta di novembre" non diede luogo ad
alcuna iniziativa politica di rilievo, e il Pci ripropose il tradizionale impianto
proporzionalista e parlamentarista accantonando nei fatti la linea approvata
nellautunno. La sconfitta elettorale ad un turno amministrativo minore nel maggio
del 1988 e la malattia di Natta indussero allora i "giovani" a rompere gli
indugi, sollecitando un ricambio al vertice del partito che portò il 22 giugno
allelezione a segretario di Achille Occhetto e un mese dopo alla convocazione di un
congresso straordinario.
Sia nelle tesi elaborate in autunno sia nella relazione introduttiva di Occhetto al XVIII
congresso (marzo 1989), la presenza di novità importanti su tutti i principali punti
della piattaforma del "neorevisionismo socialista" e gli accenni alla possibile
modifica della legge elettorale si accompagnarono però ad unambiguità di fondo
sugli aspetti più delicati dellidentità comunista e sulleffettiva
disponibilità del "nuovo Pci" a rientrare nel gioco politico, che si tradusse
nella ricerca di un consenso largo (da Ingrao a Napolitano) giustificato
dallesigenza prioritaria di legittimare la nuova leadership e di ricompattare il
partito per "resistere" alloffensiva socialista alle imminenti elezioni
europee.
Nonostante limpegno del nuovo gruppo dirigente dunque, il "nuovo Pci"
risultava alla fine assai simile al vecchio, mentre dietro lapparente unanimità
covavano tensioni e contrasti di fondo non sciolti che non avrebbero tardato a
manifestarsi.
E così, di fronte al crollo del muro di Berlino, il problema non più rinviabile del
cambio del nome divenne il catalizzatore di divisioni latenti da tempo, con il risultato
che linevitabile chiarimento interno assunse un carattere tutto ideologico:
relegando in secondo piano questioni rilevantissime per la cultura politica ed il
programma del futuro partito, ed impedendo una compiuta "elaborazione"
dellesperienza storica del comunismo (italiano e mondiale) che avrebbe favorito una
perdurante incompiutezza della sua trasformazione del tutto speculare a quella della lunga
"transizione italiana".
Il profondo radicamento e la perdurante forza del Pci nellintero arco della storia
repubblicana, oltre che la vitalità e i successi del partito che nacque dalle sue ceneri,
costituiscono la migliore prova dellinconsistenza delle tesi che hanno teso a
ridurre la storia del comunismo italiano a mera proiezione della politica e
dellideologia sovietica.
Il Pci è stato parte integrante della storia dItalia, e proprio per questo la sua
politica ha influenzato costantemente e in misura rilevante la vita del paese e
lazione delle altre forze politiche. Allo stesso tempo, la sua incapacità di
"fuoriuscire" dal comunismo prima del 1989 dimostra limpossibilità di
considerare il Pci un partito "autonomo".
Per effetto dei caratteri e delle aporie della sua "doppia lealtà" infatti il
Pci non fu in realtà mai autonomo dallUnione Sovietica, e allo stesso tempo, come
abbiamo visto, non fu mai veramente "autonomo" neanche dalla Dc, nel senso che a
partire dal 1947 la sua funzione fu complementare o subalterna ad un assetto del sistema
politico incardinato sulla centralità del partito cattolico e da esso sapientemente
governato.
Proprio gli anni ottanta sono particolarmente emblematici di questa doppia assenza di
autonomia. In quel decennio infatti i dirigenti del Pci furono incapaci di divincolarsi
dal legame con una realtà ed unideologia (quella del comunismo) ormai morenti
(oltre che moralmente e storicamente indifendibili), e con le quali avevano potuto
continuare a coesistere come una sorta di "separati in casa" proprio grazie allo
schema della "unità nella diversità"; ed allo stesso tempo la loro azione (o
meglio: la loro immobilità) contribuì a "congelare" un equilibrio politico,
economico e sociale che i sommovimenti degli anni settanta parevano aver irrimediabilmente
minato nelle fondamenta.
Nel determinare questo risultato ebbe senza dubbio un peso importante la forza di inerzia
e la "vischiosità" di unorganizzazione e di un insediamento sociale che
faticavano a ridefinirsi e a riarticolarsi. Ma tale elemento si intrecciò con la
difficoltà tutta culturale del gruppo dirigente post-togliattiano di concepire se stesso
e il proprio ruolo al di fuori dello schema entro cui il partito comunista si era
effettivamente sviluppato nellItalia del dopoguerra.
Uno schema in cui dopo il 1947 lelemento nazionale e quello internazionale furono
sempre reciprocamente contraddittori sul piano degli obiettivi strategici, nel senso che
il legame con lUrss rendeva irrealizzabile la prospettiva della "via italiana
al socialismo" in tutte le varianti di volta in volta elaborate; ed allo stesso tempo
furono reciprocamente funzionali sul piano del ruolo concretamente svolto dal Pci, in
quanto il legame con lUrss garantiva la subalternità del Pci agli assetti del
sistema politico e del modello di sviluppo italiani, e ciò a sua volta rendeva necessario
il mantenimento di quel legame.
Tale subalternità ebbe naturalmente segno diverso nelle diverse fasi della vita politica
italiana, svolgendo di volta in volta una funzione più o meno positiva o più o meno
negativa nella vicenda postbellica di un paese che comunque, anche grazie al contributo
del Pci, ha conosciuto cinquantanni di democrazia e di benessere.
Non spetta a questa relazione tentare di tracciare un bilancio. Ciò che ci sembra
opportuno sottolineare è che, nel bene e nel male, le radici e le ragioni profonde dei
caratteri dellesperienza del comunismo italiano non possono essere considerate solo
un problema interno di quel partito e del suo gruppo dirigente, ma che proprio per la
duplice assenza di "autonomia" che caratterizzò la storia del Pci esse vanno
ricercate e indagate sulla base di una visione unitaria della storia dItalia che la
collochi in una prospettiva e in un quadro europeo e mondiale.
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