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I comunisti e la “doppia lealtà”

Roberto Gualtieri



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La seguente relazione, con il titolo «Il Pci e la "doppia lealtà". Per una periodizzazione della storia del comunismo italiano» è stata presentata al convegno «Il Pci nell’Italia repubblicana. Contributi per una storia nazionale e internazionale», organizzato a Roma dalla Fondazione Gramsci nei giorni 25-26 maggio 2000. Ne pubblichiamo una versione non rivista e priva di note, da non citare senza il consenso dell'autore.

Introduzione

Questo paper intende proporre una periodizzazione e una interpretazione schematica della vicenda storica del Pci incentrate sul nesso nazionale-internazionale, ossia sull’interazione tra il sistema politico italiano e il sistema internazionale.

Il legame del Pci con l’Urss rende questa interazione particolarmente complessa. Da un lato infatti le trasformazioni del sistema politico italiano sono sempre avvenute nel quadro di un riassetto dei rapporti est-ovest e di quelli interni all’area occidentale, e in particolare a ridosso di un mutamento degli indirizzi della politica estera americana. Dall’altro, il legame con l’Unione Sovietica ha determinato la sostanziale subordinazione della strategia del Pci agli interessi e alle scelte di politica estera dell’Urss, garantendo la permanenza di quel partito all’opposizione e restringendo notevolmente la banda dei mutamenti possibili del sistema politico.

Tutto ciò non significa affatto considerare la politica italiana una pura proiezione nazionale degli sviluppi dello scenario europeo e mondiale o delle scelte compiute a Washington e a Mosca. Gli studi più recenti che - conformemente ad un analogo orientamento della storiografia internazionale - hanno indagato la storia dell’Italia postbellica sulla base del nesso nazionale-internazionale, hanno infatti messo in evidenza come tra i due elementi del binomio esista una serrata dialettica che non vede mai la netta prevalenza dell’uno sull’altro bensì un reciproco condizionamento, a definire i termini del quale contribuiscono in misura rilevante proprio le classi dirigenti nazionali.

Per questo, sia la categoria di "autonomia" che quella opposta di "eterodirezione" risultano del tutto inadeguate alla comprensione della politica dei partiti italiani, che può essere definita sulla base del concetto di "doppia lealtà".

Naturalmente, il meccanismo della "doppia lealtà" ha operato in modo diverso, se non opposto, per la Dc e per il Pci. Le ragioni sono ovvie: mentre la guerra ha collocato l’Italia nella sfera occidentale, la Dc non è mai stata organicamente un "partito americano"; a sua volta, il Pci è stato invece fin dalle origini strettamente legato all’Urss, ma si è profondamente radicato in un paese situato al di fuori della sfera di influenza sovietica.

La Dc ha così potuto (e saputo) interpretare e gestire i condizionamenti derivanti dalla collocazione internazionale dell’Italia garantendo la complementarietà e la funzionalità tra esterno e interno secondo modalità coerenti ad un disegno di sviluppo nazionale (oltre che agli interessi degli Stati Uniti e dell’area occidentale nel suo complesso). Al contrario, il legame con una potenza come l’Unione Sovietica ha reso la "doppia lealtà" del Pci costitutivamente contraddittoria, riducendo al minimo la possibilità di quel partito di governare gli elementi nazionali e quelli internazionali della sua azione e di comporre le due "lealtà" in una "figura" politica unitaria e coerente.

Di conseguenza, così come la "doppia lealtà" della Dc ha costituito il fondamento della sua funzione dirigente e della sua egemonia sul sistema politico italiano, la "doppia lealtà" comunista si è rivelata funzionale al mantenimento di un ruolo subalterno del Pci, rappresentando una risorsa probabilmente insostituibile per la tenuta di un partito condannato stabilmente all’opposizione, ma allo stesso tempo risultando un vincolo insuperabile per l’attuazione della sua strategia.

I caratteri divaricanti della "doppia lealtà" comunista ci hanno indotto a muoverci all’interno di una duplice periodizzazione. Se infatti si individuano le principali tappe dell’elaborazione strategica del Pci, il nesso con le vicende interne al mondo comunista e con la politica estera sovietica risulta del tutto evidente:

a)durante la Grande Alleanza il Pci propone la linea della "democrazia progressiva", che sul piano internazionale prefigura un’Italia neutrale (1944);

b)dopo il rifiuto sovietico del Piano Marshall e la costituzione del Cominform i comunisti italiani si assestano su una linea di "difesa della democrazia" e della "indipendenza nazionale", contrastando l’alleanza con gli Stati Uniti (1947-48);

c)dopo il XX congresso e l’avvio della destalinizzazione il Pci rilancia la "via italiana al socialismo" rimodulando il legame con l’Urss prima con la proposta del "policentrismo" poi con la linea della "unità nella diversità" (1956);

d)dopo il XXIV congresso del Pcus e l’avvio della distensione il Pci definisce la strategia del "compromesso storico" e dell’"eurocomunismo" (1972-73);

e)gli avvenimenti in Afghanistan e in Polonia e lo scontro sugli euromissili fanno da sfondo alla duplice svolta dell’"alternativa democratica" e del cosiddetto "strappo" con Mosca, che porta al suo limite estremo lo schema della "unità nella diversità" (1980-81).

Una periodizzazione schematica della vicenda politica italiana ci riconduce invece all’evoluzione della politica estera americana e dei rapporti Usa-Europa (oltre che naturalmente alle trasformazioni economiche e sociali interne):

1) l’unità antifascista, che si realizza nel quadro della Grande alleanza;

2) il centrismo, il cui avvento è contestuale allo scoppio della guerra fredda e alla definizione di un assetto "euro-atlantico" dello sviluppo;

3) il centrosinistra, che si realizza all’indomani delle crisi di Berlino e Cuba, in quella che potremmo definire la stagione del bipolarismo compiuto e della costruzione del Mercato unico;

4) la "strategia dell’attenzione" (un centro-sinistra aperto all’apporto del voto comunista), che culmina nella solidarietà nazionale e che coincide con la crisi dell’equilibrio di Bretton Woods e l’avvento della distensione;

5)il pentapartito, che si afferma nel quadro della "seconda guerra fredda" e della politica economica reaganiana fino al crollo dell’Unione Sovietica, l’unificazione tedesca e la firma del trattato di Maastricht.

Come tenteremo di dimostrare, se si prende come punto di riferimento la funzione del Pci ed i risultati fondamentali della sua politica, si ricaverà uno schema che, sia sul piano dei tempi che su quello dei contenuti, coincide con la periodizzazione del sistema politico italiano (cioè con il modo con cui la Dc ha saputo interpretare il nesso nazionale-internazionale) e non con la periodizzazione basata sulla strategia del Pci:

1) la nascita della repubblica, nel quadro dell’unità antifascista;

2) l’integrazione negativa, durante il centrismo;

3) l’allargamento del mercato interno, nella fase del centro-sinistra;

4) la costruzione dello stato sociale e la difesa delle istituzioni, nel periodo che va dalla "strategia dell’attenzione" alla solidarietà nazionale;

5) il consociativismo (cioè la difesa dei risultati conseguiti nelle fasi precedenti), durante il pentapartito.

La conclusione che durante la guerra fredda la periodizzazione più attendibile della storia del Pci ricalca quella della Dc e della politica estera americana, e che pur avendo il Pci influenzato profondamente vita del paese la funzione da esso svolta fu assai più una conseguenza della politica della Democrazia cristiana che il risultato della sua elaborazione strategica, è solo apparentemente paradossale, e può costituire una indicazione metodologica di qualche utilità per lo studio di un partito di opposizione in un paese periferico nel secolo dell’interdipendenza.

Allo stesso tempo, essa ci sembra riassumere correttamente la caratteristiche (che in linguaggio gramsciano potrebbero essere definite in termini di "rivoluzione passiva") dello "scontro egemonico" che ha opposto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e che sul piano interno è stato interpretato dalla Dc e dal Pci, sulle cui origini e sul cui significato è possibile avanzare interpretazioni diverse, ma sul cui esito non è lecito nutrire dubbi.


1) L’unità antifascista: la nascita della repubblica

La stagione dell’unità antifascista costituisce l’unico momento in cui gli aspetti nazionali e quelli internazionali della strategia politica del Pci non furono in contraddizione tra loro né con l’assetto complessivo dei rapporti internazionali. L’esistenza di una elaborazione autonoma sui caratteri della storia d’Italia e sugli interessi del paese, e la coerenza tra l’indirizzo politico che da tale elaborazione scaturiva e la politica dell’Unione Sovietica, impegnata nella "Grande Alleanza" con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, rese infatti possibile la realizzazione delle principali parole d’ordine lanciate da Togliatti (governo di unità antifascista, Costituente, repubblica, partito di massa), determinando una sostanziale coincidenza tra la strategia del Pci e il suo ruolo effettivo.

A differenza di quanto sarebbe avvenuto in seguito, in quella fase il Pci fu così un protagonista dell’evoluzione della situazione politica interna (dettandone tempi e modi a partire dalla "svolta di Salerno"), partecipò al governo del paese e svolse un ruolo rilevante nella definizione dell’assetto istituzionale, ponendo le premesse per un suo duraturo radicamento nella società italiana.

In questo quadro, il legame con l’Unione Sovietica agì in una duplice direzione: da un lato diede respiro internazionale ad un’ipotesi di sviluppo nazionale rafforzandone la credibilità; dall’altro consentì a Togliatti di condurre il suo partito e il movimento operaio su una linea moderata e parlamentare, attribuendo al leader comunista l’autorità e le risorse necessarie a "disciplinare" posizioni e orientamenti interni di carattere ben più "estremista".



2) Il centrismo: l’integrazione negativa

Lo scoppio della guerra fredda e la contestuale crisi finanziaria europea, che fu alla base del varo del Piano Marshall, colpirono irrimediabilmente gli aspetti internazionali della proposta comunista di governo minandone alla radice il fondamento. Sul piano politico il rapporto con gli Stati Uniti diveniva incompatibile con il mantenimento di relazioni amichevoli con l’Unione Sovietica; sul piano economico le modalità di risanamento della bilancia dei pagamenti e i caratteri della collocazione internazionale dell’economia italiana prefigurati dal Piano Marshall entravano in contraddizione con l’ipotesi avanzata dai comunisti (e non solo da loro) di continuare ad assegnare un forte ruolo all’interscambio commerciale con l’Europa centrale e orientale.

In questo contesto, la Democrazia cristiana tra il 1947 e il 1950 definì la propria funzione dirigente e la propria centralità politica rendendosi garante e interprete della collocazione "euro-atlantica" dell’Italia. Sul piano politico ciò implicava l’ottenimento della garanzia militare americana e l’esclusione delle sinistre dall’"area della legittimità" (ma non da quella della "rappresentanza") nel quadro di un assetto centrista del sistema politico fondato sulla doppia pregiudiziale antifascista e anticomunista.

Sul piano economico, il "vincolo esterno" connesso alla partecipazione al Piano Marshall, alla Ceca e all’Unione europea dei pagamenti, rese possibile la realizzazione di un ambizioso disegno di sviluppo di tipo "neomercantilista" fondato contemporaneamente sui bassi salari, sul sostegno al ceto medio e al sud del paese, e su un "drenaggio" pubblico di risorse per la modernizzazione dell’apparato produttivo ad alta intensità di capitale (assai poco gradito da parte della maggioranza del mondo imprenditoriale), che fu alla base del successivo "miracolo economico".

La risposta del Pci a questi sviluppi è coerente con la strategia dell’Urss e del movimento comunista internazionale. Mentre la costituzione al Cominform sanciva il recupero di una funzione di controllo ideologico da parte di Mosca sui partiti comunisti italiano e francese (il cui elemento centrale non fu tanto il ritorno ad un effettivo coordinamento politico sul modello del Comintern, quanto l’avvio di un’azione sistematica e massiccia di finanziamento, che negli anni precedenti era stata assente), il Pci fece proprie le parole d’ordine sovietiche sia opponendosi al Piano Marshall, al Patto atlantico e all’intergazione europea; sia partecipando attivamente al "ricompattamento" del "campo socialista" intorno alla funzione guida del Pcus attraverso la lotta contro Tito e il sostegno delle "purghe" nei paesi di democrazia popolare.

In contrasto con ampi settori del suo gruppo dirigente, Togliatti seppe interpretare questo riorientamento della linea comunista in relativa continutà con i presupposti del disegno di "democrazia progressiva" e con i caratteri assunti dal "partito nuovo", ribadendo sempre l’adesione del Pci al regime parlamentare e l’esigenza di tenere in piedi un partito di massa, e trasformando la lotta all’integrazione euro-atlantica del paese e al neomercantilismo centrista in una battaglia per la difesa e l’applicazione della Costituzione intorno alle parole d’ordine della "pace", dell’"indipendenza", del "lavoro" e della "libertà".

Al centro della strategia comunista vi era però una proposta di politica estera e di collocazione internazionale dell’economia italiana che, per quanto venisse variamente modulata in stretto rapporto con l’evoluzione della posizione sovietica, risultava del tutto irrealistica rispetto al contesto internazionale, ed assegnava alla politica del Pci un carattere puramente agitatorio sancendo una scissione tra la strategia e la "funzione" che non sarebbe mai più stata ricomposta.

In quegli anni, il ruolo del Pci si definì infatti essenzialmente in rapporto ai caratteri dell’assetto impresso dalla Dc al sistema politico, al modello di sviluppo ed alla collocazione internazionale del paese, risultando conflittuale ma di fatto complementare ad esso (e contribuendo quindi per questa via al radicamento della democrazia italiana).

D’altronde, l’avvio di un processo di sviluppo fondato su alti tassi di disoccupazione e sull’esclusione del movimento operaio, se penalizzava inevitabilmente la sinistra non comunista, apriva invece uno spazio enorme proprio al "partito nuovo" di Togliatti. Il Pci era infatti ben più attrezzato di socialisti e socialdemocratici a garantire una "integrazione negativa" del mondo del lavoro nel nuovo Stato democratico, unificando e disciplinando in una robusta ossatura nazionale (e internazionale) la maggior parte delle diverse forze e subculture che costituivano il variegato e turbolento mondo della sinistra italiana.

A sua volta, proprio il suo relativo monopolio a sinistra risultava funzionale alla tenuta del complesso assetto centrista del modello di sviluppo e del sistema politico. E così, quanto più la Dc si rendeva protagonista di una variante particolarmente "estrema" di State-corporatism che respingeva il contrattualismo ed affermava il primato dell’esecutivo e degli enti pubblici, tanto più il Pci poteva svolgere il duplice ruolo di rappresentante del mondo del lavoro e di garante delle prerogative del parlamento nel complesso equilibrio istituzionale del paese. Divenendo protagonista di una sorta di "riformismo passivo" che dall’opposizione sollecitava e rafforzava le correnti riformatrici interne al blocco centrista, ma perpetuando al proprio interno un singolare intreccio tra riformismo e massimalismo, pragmatismo e finalismo, che avrebbe sempre ostacolato la sua compiuta trasformazione favorendo la costante riproposizione di una funzione subalterna nei confronti della Dc.

La peculiare "combinazione" tra nazionale e internazionale realizzata dalla Dc non stabilizzò dunque solo il blocco centrista ma anche il fronte comunista, accentuando la dipendenza di entrambi da un "vincolo esterno" decisivo per la loro sopravvivenza.

Da questo punto di vista, così come la gestione della "doppia lealtà" da parte del gruppo dirigente democratico cristiano fu decisiva per l’affermazione della sua strategia, allo stesso modo il "legame di ferro" con l’Urss consolidò la funzione di "partito dell’integrazione negativa" svolta dal Pci.

Se pure infatti la capacità di Togliatti di interpretare "creativamente" i vincoli che scaturivano da quel rapporto ebbe un peso senza dubbio rilevante nel mantenere la politica del suo partito sul terreno della democrazia, l’Unione Sovietica contribuì in modo determinante a consolidare (e congelare) la forza del Pci: in primo luogo grazie alle ingenti risorse simboliche e finanziarie che essa mise a disposizione del gruppo dirigente italiano; in secondo luogo mediante l’azione di sostegno della leadership "moderata" di Togliatti che essa esercitò sempre nei momenti decisivi, opponendosi a qualsiasi "cedimento" di tipo socialdemocratico ma soprattutto scoraggiando apertamente ogni suggestione insurrezionalista proveniente dall’interno del partito italiano.


3) Il centrosinistra: l’allargamento del mercato interno

Dal punto di vista della strategia comunista il 1956 costituisce un’indubbia data periodizzante. Mentre aveva inizio un cauto dialogo tra Dc e Psi, le novità provenienti da Mosca autorizzavano una ripresa dell’elaborazione sulla "via italiana al socialismo" e il tentativo di mettere in crisi l’equilibrio centrista.

Il principale presupposto di questo disegno era la prospettiva "policentrista", strettamente connessa a un’ipotesi (che col senno di poi ci appare del tutto irrealistica) di riforma dell’Urss e di progressivo superamento del bipolarismo che avrebbe potuto determinare condizioni nuove per la politica del Pci.

All’indomani del XX congresso del Pcus e della diffusione del "rapporto segreto" di Kruscev, Togliatti legò così alla critica agli elementi di "degenerazione" subiti dall’Unione Sovietica una proposta di riorganizzazione su base regionale del movimento comunista internazionale volta a dare ad esso una struttura policentrica che ponesse fine alla sua unità ideologica intorno alle linee guida elaborate a Mosca.

Prima ancora che i fatti di Ungheria si incaricassero di ribadire l’inevitabilità di una netta "scelta di campo", la dura reazione sovietica alla posizione di Togliatti pose immediatamente fine ad ogni ipotesi di un drastico allentamento dei vincoli del "legame di ferro" (ribaditi dalla Conferenza di Mosca del 1957), inducendo il leader italiano a ripiegare su un modello di relazioni bilaterali con il Pcus e sulla formula della "unità nella diversità" che, variamente modulata e bilanciata, avrebbe di fatto costituito il paradigma dei rapporti tra Pci e Unione Sovietica fino al 1989.

Si trattava di una formula che implicava la scissione tra gli aspetti nazionali e quelli internazionali della politica comunista, in quanto mentre la "diversità" consentiva una relativa flessibilità e capacità di innovazione politica e ideologica sul terreno delle scelte di politica interna, l’"unità" sanciva la persistenza del legame con l’Urss e garantiva la compatibilità di ogni proposta di politica estera con gli obiettivi della diplomazia sovietica.

In questo modo, il Pci vincolava la prospettiva strategica della "via italiana al socialismo" al superamento del bipolarismo proprio nel momento in cui esso si avviava a conoscere la sua definitiva consacrazione, privandosi così di ogni possibilità di incidere significativamente sull’agenda politica del paese.

Per individuare un mutamento significativo della politica del Pci e dei suoi concreti risultati si dovettero quindi attendere i primi anni Sessanta, quando un complesso intreccio di fattori interni e internazionali fece precipitare la crisi del centrismo aprendo la strada al centro-sinistra.

Al volgere del decennio infatti proprio il successo del "noeomercantilismo" degli anni ’50 aveva fatto venir meno le condizioni dell’espansività di quel modello: mentre il mercato comune intensificava la concorrenza internazionale, il raggiungimento di un virtuale pieno impiego colpiva, per la prima volta nella storia unitaria, i presupposti di un modello di sviluppo fondato sui bassi salari e sui bassi consumi, e a loro volta queste trasformazioni mettevano in discussione gli equilibri sociali e politici che avevano sorretto la centralità della Dc e del suo sistema di alleanze.

Come è stato recentemente dimostrato da Leopoldo Nuti, tali fattori (essi stessi frutto del processo di integrazione europea e di un determinato assetto dei rapporti Usa-Europa) interagirono con una complessa evoluzione del sistema internazionale e in particolare della poltica estera americana, che contribuì a dettare i tempi (e quindi a condizionare i caratteri) dell’apertura a sinistra.

Mentre infatti sul piano economico affioravano le prime avvisaglie di un contenzioso che aveva come oggetto la ridefinizione delle gerarchie interne all’area occidentale, su quello politico il riorientamento della politica estera americana intrapreso dall’amministrazione Kennedy delineava l’avvio di un duplice processo di distensione dei rapporti con l’Unione Sovietica e di maggiore centralizzazione delle funzioni di comando nell’area occidentale che era destinato a influire notevolmente sugli equilibri politici interni a un paese come l’Italia.

Nella crisi del centrismo si esprimeva dunque il problema della modernizzazione dell’apparato produttivo e dei rapporti sociali e quello, ad esso strettamente connesso, della collocazione internazionale del paese in uno scenario in profondo mutamento. Ben presto, la formazione di una maggioranza di centro-sinistra apparve come la soluzione più adatta ad affrontare queste sfide. Si trattava però di una convergenza tra prospettive diverse che riguardava solo la necessità di dar vita alla nuova formula, e tra i diversi attori politici si sviluppò una dura "lotta per l’egemonia" la cui posta in gioco era l’effettivo contenuto da assegnare ad essa.

In questo quadro, il tentativo di Togliatti fu quello di assecondare la rottura dell’equilibrio centrista con l’obiettivo ultimo di dividere la Dc e di consentire la formazione di una nuova maggioranza comprendente il Pci intorno ad un programma imperniato sulla distensione internazionale (in vista del superamento dei blocchi) e sulle "riforme di struttura", concepite come l’architrave e l’essenza della "via italiana al socialismo".

Alla base vi era un’analisi secondo cui il centro-sinistra non era solo una manovra anticomunista (e quindi dal suo punto di vista intimamente conservatrice) ma una soluzione eterogenea "dove il positivo e il negativo si intrecciano e confondono": non solo perché si sarebbe allargata la maggioranza ad una parte del movimento operaio, ma perché il fatto che l’Italia avesse acquistato "una capacità di competizione internazionale che prima non possedeva", aveva "creato la tendenza di una parte del mondo della produzione a sottrarsi alle direttive e ingiunzioni dei circoli dirigenti dell’economia americana, nella ricerca di una via d’affermazione autonoma".

Per queste ragioni, secondo Togliatti non bisognava opporsi pregiudizialmente alla nuova maggioranza, ma incalzarla affinché essa realizzasse il suo programma adottando un atteggiamento costruttivo e realista. Non si trattava però di un compito semplice: la qualità delle trasformazioni in atto e dei problemi sul tappeto imponevano al Pci di ridefinire profondamente il proprio ruolo aggiornando il suo bagaglio teorico e acquistando una capacità di proposta politica e programmatica che fino a quel momento era mancata. Ma soprattutto, la credibilità della posizione comunista si scontrava con la persistente rigidità del quadro internazionale e con i caratteri assunti dal processo di destalinizzazione.

L’apprezzamento per le nuove tendenze della politica estera italiana in tema di distensione e di rapporti economici con l’est si traduceva infatti in una piattaforma che se pure trovava dei significativi punti di contatto con le iniziative e le posizioni di alcuni dei protagonisti dell’apertura a sinistra, risultava del tutto incompatibile con l’effettiva natura di un processo di distensione il cui significato di fondo non era il superamento dei blocchi ma il consolidamento del bipolarismo (e, all’interno di esso della collocazione euro-atlantica dell’Italia).

Allo stesso tempo, le vicende interne sovietiche e il contrasto con la Cina invece di riaprire la prospettiva "policentrica" procedevano inesorabilmente - nonostante gli sforzi di Togliatti - verso una rottura che da un lato sanciva l’impossibilità per un partito comunista di sfuggire all’alternativa tra l’allineamento all’Urss e lo scontro aperto con essa, e dall’altro costringeva ad un’azione di contrasto ideologico e politico delle tendenze "maoiste" (contrarie al principio della coesistenza pacifica) che inevitabilmente spingeva a rafforzare i legami con Mosca.

Se quindi ancora una volta il legame con l’Urss e i limiti intrinseci della cultura politica comunista privavano di respiro strategico l’azione del Pci, specularmente la complessa partita interna al centro-sinistra vedeva la progressiva affermazione della prospettiva morotea: cioè della scommessa sulla capacità della Dc di governare il complesso mutamento in atto rifondando su basi nuove la propria centralità nel sistema politico italiano.

Anche in questo caso, a determinare tale esito concorsero fattori di ordine interno e internazionale. Da un lato l’intreccio pervasivo tra modernità e arretratezza che caratterizzava l’assetto economico sociale del paese mostrò ben presto tutta la sua vischiosità di fronte alla fragilità di un fronte riformatore che non poteva contare neanche sull’appoggio pieno dell’insieme del mondo del lavoro. Dall’altro, la chiusura di una convulsa fase di movimento del sistema internazionale intorno a un equilibrio incentrato sul carattere rigidamente bipolare del processo di distensione, oltre che sulla riproposizione dell’asse franco-tedesco (trattato dell’Eliseo) e di quello anglo-americano (conferenza di Nassau), riduceva al minimo gli elementi di novità del quadro esterno, favorendo una sostanziale "tenuta" del modello di integrazione internazionale dell’Italia definito negli anni Cinquanta a tutto svantaggio delle componenti riformiste del centro-sinistra.

Con la "stretta" creditizia del 1963-64 (che non a caso riproponeva un schema consolidato di gestione del nesso nazionale-internazionale), il ripristino in un contesto ormai mutato dello schema degli anni Cinquanta apriva così la stagione della "crescita senza sviluppo" (riduzione degli investimenti, aumento dell’esportazione di beni, uomini e capitali, peso crescente delle banche pubbliche nel finanziamento all’impresa, segmentazione del mercato del lavoro, aumento dei trasferimenti al sud e verso il ceto medio), in cui l’assetto economico-sociale raggiunto rispecchiava quello di un sistema politico caratterizzato da una sorta di centrismo allargato.

In questo equilibrio, mentre il Psi pagava con una consistente scissione e con una crescente subalternità nei confronti della Dc il fallimento delle proprie ambizioni riformatrici, al Pci si apriva lo spazio consistente ma delimitato di principale sostegno e punto di riferimento delle spinte all’allargamento del mercato interno che scaturivano delle vertenze salariali del mondo del lavoro dipendente e dalle lotte nel Mezzogiorno, il che si rifletteva nel rafforzamento del suo peso elettorale e nel consolidamento del suo ruolo di opposizione.

Non era certo una funzione di poco rilievo, che andava oltre la semplice "integrazione negativa" e che dava concretezza e forza a quell’obiettivo di una "liberazione dal bisogno" che era al centro del progetto dello stesso Moro. Rispetto all’orizzonte della "via italiana al socialismo" si trattava però indubbiamente di una sconfitta, della cui consapevolezza sono intrisi gli ultimi interventi di Togliatti.

Tracciando un bilancio dell’azione di quegli anni, egli riconosceva infatti che "la sola azione sistematica volta a intaccare le strutture coronata da successo non trascurabile" era stata "la lotta dei sindacati per l’aumento dei salari e l’accrescimento del loro potere contrattuale".
E se probabilmente vi è una parte di verità nella successiva affermazione dell’impossibilità di un "riformismo borghese" in Italia, ciò non toglie che il legame con l’Urss aveva privato il paese del potenziale apporto riformatore di una consistente parte del mondo del lavoro in una congiuntura decisiva che avrebbe condizionato profondamente il suo futuro.


4) "Attenzione" e "solidarietà": stato sociale e difesa delle istituzioni

Nei primi anni successivi alla morte di Togliatti l’emergere di una dialettica politica interna non aveva portato significative innovazioni né della strategia né della funzione del Pci, che erano rimaste quelle fissate, rispettivamente, all’VIII congresso e al momento della nascita del centro-sinistra "organico".

Per registrare un mutamento di un certo rilievo si dovettero attendere ancora una volta degli eventi esterni (lotte studentesche e operaie e crisi del centro-sinistra, intervento sovietico a Praga e conflitto aperto Cina-Urss, fine dell’ordine di Bretton Woods e "conflitto economico mondiale", sviluppo della distensione est-ovest), che in pochi anni trasformarono profondamente il quadro interno e internazionale entro cui si era svolta la politica comunista.

Il percorso per la definizione di una nuova linea politica fu complesso e accidentato (almeno altrettanto quanto il contesto entro cui si sviluppò), ma esso sfociò in una strategia che non usciva dal tradizionale orizzonte di quella "via italiana al socialismo" che Togliatti stesso aveva giudicato pericolosamente inadeguata di fronte ai mutamenti avviatisi nei primi anni Sessanta.

Ridimensionati i toni radicali che avevano accompagnato le lotte del 1968-69 e la critica all’intervento sovietico a Praga e sull’Ussuri (spingendo il Pci a parlare di "rivoluzione socialista" come unica via di uscita di fronte alla "crisi del capitalismo" e a rilanciare la parola d’ordine dell’uscita immediata dell’Italia dalla Nato), la proposta di "alternativa democratica al centro-sinistra" era stata articolata intorno ai suoi tre assi tradizionali: la collaborazione tra comunisti, socialisti e cattolici, la "programmazione democratica", la politica estera di distensione tendente al superamento dei blocchi.

Naturalmente su tutti e tre i punti si registrarono delle novità, che furono spesso il frutto di accese discussioni interne al vertice del partito, ma l’impianto di fondo della strategia comunista rimase sostanzialmente intatto e di conseguenza le sue aporie ne risultarono ulteriormente accentuate.

La proposta di politica economica fu infatti sensibilmente affinata ed arricchita, e tuttavia la sua base analitica si fondava sull’idea che le lotte operaie e l’aumento delle materie prime stessero facendo esplodere una "crisi del capitalismo", che in Italia si manifestava con particolare intensità a causa dello "sviluppo distorto" dell’economia del paese e che richiedeva perciò una "direzione programmata dell’economia" incentrata su una "espansione del settore pubblico" e su un "patto tra i produttori" che introducesse nella società degli "elementi di socialismo".

Veniva in sostanza riproposta una visione statalistica dell’intervento pubblico che di per sé non si discostava troppo dal tradizionale keynesismo nazionale di stampo socialdemocratico, ma che non teneva conto della reale natura assunta degli apparati riproduttivi di una società complessa né dell’impraticabilità di ogni ipotesi di sviluppo nazionale che prescindesse dalla complessa rete di interdipendenze in cui era inserita l’economia italiana.

Anche la proposta politica subì una significativa evoluzione. Se infatti inizialmente Giorgio Amendola fu isolato nel chiedere l’ingresso del Pci nella maggioranza, già al XIII congresso (marzo 1972) tale eventualità fu legata all’esistenza di una "emergenza democratica" e di un "programma riformatore", anticipando così quella proposta di un "compromesso storico" tra "tutte le forze popolari e democratiche" prefigurata nel saggio del ’73 sui fatti cileni ed avanzata formalmente al XIV congresso (marzo 1975).

Torneremo più avanti sulla questione della praticabilità politica di questa ipotesi. Ciò che occorre sottolineare fin d’ora è che la proposta di una maggioranza con tutta la Dc se da un lato dimostrava la centralità nella cultura berligueriana di una visione "organicistica" dei rapporti tra politica e società (che ci sembra riconducibile alla crescente influenza del pensiero di Franco Rodano assai più che all’eredità togliattiana) del tutto in controtendenza con i mutamenti innescati dal ’68, dall’altro impliceva una scommessa sulla possibilità di condizionare in senso riformatore la politica del partito cattolico.

Una sfida che presupponeva la capacità del Pci di rinnnovare la propria cultura, il proprio insediamento e la propria organizzazione di fronte ai colossali mutamenti determinati dalla diffusione della società dei consumi e dallo sviluppo degli apparati della riproduzione, e rispetto alla quale una forza organizzata ancora sul modello del "partito nuovo" (centralismo democratico, primato della territorialità e della mediazione parlamentare) era assai poco attrezzata.

Le innovazioni apparentemente più consistenti si registrarono comunque sul terreno della politica estera. La "disapprovazione" dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia, ribadita e formalizzata (pur con toni più smorzati) l’anno successivo in sede congressuale, fu l’occasione per l’avvio di una riflessione critica sul bipolarismo e sulle prospettive del movimento comunista che sarebbe sfociata nella proposta dell’"eurocomunismo", ma che non portò ad una rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica né al superamento dello schema consolidato della "unità nella diversità".

Da un lato infatti pesò la consapevolezza che l’isolamento da Mosca avrebbe avuto come conseguenza delle "gravi limitazioni politiche e materiali", dall’altro prevalse l’orientamento, forte soprattutto nella "destra" del partito, che concepiva il rapporto con l’Urss come una garanzia contro l’affermazione di posizioni più massimaliste e considerava una eventuale rottura un ostacolo per la politica di distensione e, sul piano interno, per quella delle alleanze.

Il XXIV congresso del Pcus fu così l’occasione di una riconciliazione sancita dalle inequivocabili parole di Berlinguer al suo ritorno da Mosca ("l’impressione [del congresso] è di grande forza e grandi potenzialità […]. Accentuazione della politica di pace e del ruolo dell’Urss come grande potenza […]. Risulta confermato il legame - anche per quel che questo legame ci dà - e il nostro sforzo autonomo").

La conseguenza non fu solo un sostanzioso incremento del finanziamento sovietico, ma anche l’avvio di una revisione delle posizioni di politica estera del partito che venne sollecitata da Amendola e Bufalini proprio sulla scia dell’evoluzione della politica di Breznev ("rispetto a certe accentuazioni un po’ dogmatiche ed estremistiche nostre verso gli Usa, la politica dell’Urss è più moderna e avanzata di noi") e che portò ad archiviare la richiesta di un’uscita dell’Italia dalla Nato.

Non deve quindi stupire che le nuove posizioni di politica estera del Pci abbiano incontrato l’esplicita approvazione dei sovietici per tutto quello che riguardava i rapporti con gli Stati Uniti e l’accettazione dell’alleanza atlantica, in quanto esse erano del tutto coerenti con i caratteri di un processo di distensione che l’Urss apprezzava soprattutto per l’approccio "realistico" kissingeriano teso a riconoscere gli assetti delle reciproche sfere di influenza.

Non a caso, in quella fase le uniche perplessità e riserve sovietiche riguardarono lo sviluppo della dimensione europea occidentale della politica dei comunisti italiani, vista la comune ostilità con cui a Washington e a Mosca si guardava al rilancio del processo di integrazione.

La nota intervista di Berlinguer sul Patto atlantico del giugno 1976 (che riprendeva in termini più netti una posizione già espressa al XIV congresso e che per questo non suscitò un dibattito interno al gruppo dirigente) non costituì dunque in alcun modo un atto di rottura nei confronti dell’Unione Sovietica, né tanto meno uno scioglimento della "doppia lealtà" del Pci o una rinuncia al "finalismo" implicito nell’identità comunista di quel partito.

E tuttavia, come ha bene illustrato Silvio Pons nella sua relazione, il rapporto con l’Urss si trasformava da un elemento "forte" in un elemento "debole" della strategia comunista, in quanto se da un lato esso cessava di essere il fondamento di una prospettiva internazionale (per quanto irrealistica essa fosse) che collegava la "via italiana al socialismo" al superamento dei blocchi, dall’altro la sua persistenza impediva l’assunzione di una diversa e più credibile linea di politica estera, divenendo fino in fondo una garanzia e una sanzione della permanente funzione subalterna del Pci nella vita politica italiana.

Proprio la realistica accettazione di una distensione graduale e incentrata sui blocchi rendeva infatti illusorio pensare che un partito legato all’Unione Sovietica potesse accedere al governo dell’Italia, mentre l’assenza di una prospettiva internazionale differente da quella tradizionalmente connessa alla "via nazionale al socialismo" (un’Italia aperta al commercio con l’est in un’Europa senza blocchi) accentuava il carattere angustamente "nazionale" della proposta comunista di governo.

Su queste basi, il disegno di un "compromesso storico" che aprisse la strada ad una "alternativa democratica" al centro-sinistra non poteva che risultare del tutto velleitario di fronte alla reale natura dei processi interni e internazionali, accentuando ulteriormente la fragilità della stretegia comunista e aprendo la strada alla sua inevitabile sconfitta.

Se infatti dal piano della strategia passiamo a quello dei risultati della politica comunista, possiamo agevolmente constatare che, anche in questo caso, tempi e modi della ridefinizione del ruolo del Pci furono governati da altri attori, innanzitutto dalla Dc. A differenza che in altre circostanze però questa volta la gestione del nesso nazionale-internazionale da parte del partito cattolico risultò difficile e poco lineare, il che costituisce una delle manifestazioni più evidenti della profondità della crisi italiana degli anni settanta.

Da questo punto di vista, il confronto con l’esperienza tedesca ci sembra particolarmente illuminante. In Germania infatti di fronte alla svolta nei rapporti internazionali segnata dalla presidenza Nixon il governo socialdemocratico di Brandt, rovesciando la tradizionale Wespolitik inaugurata da Adenauer, seppe costruire intorno alla linea della Ostpolitik un blocco di forze capaci di dare forma a una nuova combinazione di politica interna e politica estera in grado di legare tra loro sviluppo del welfare, moderazione salariale, bassa inflazione, aumento di competitività delle imprese, rivalutazione del marco e rafforzamento della presenza internazionale della Repubblica federale sugli scenari centro-orientale e mediterraneo.

In Italia invece, coerentemente con il carattere "centripeto" del sistema politico, il confronto tra diverse prospettive di politica estera e di politica interna non fu sciolto in maniera univoca, e il tentativo di svolgere una autonoma politica mediterranea funzionale alla riduzione della dipendenza energetica del paese realizzando contemporaneamente con il movimento operaio uno scambio tra moderazione salariale, riduzione degli sprechi e welfare state, coesistette con una linea del tutto opposta che si tradusse nella svalutazione della lira e nel suo aggancio al dollaro piuttosto che al marco.

Da questo punto di vista, una parte consistente dei gruppi dirigenti del paese (a cominciare da Moro e La Malfa) concepì la cosiddetta "strategia dell’attenzione", ossia il crescente coinvolgimento del Pci negli indirizzi legislativi (ma assolutamente non nel governo), come funzionale all’affermazione di una delle due linee in campo (che per semplicità possiamo assimilare, fatte le debite differenze, a quella seguita in Germania da Brandt).

In realtà, il risultato di quella politica contribuì a realizzare una sorta di "intreccio perverso" tra le due linee, determinando l’attivazione di un circolo vizioso tra spesa pubblica, inflazione, bassa competitività, svalutazione, sganciamento dal sistema monetario europeo e basso profilo internazionale del paese, che garantì la "tenuta" del modello di sviluppo italiano e del sistema politico fondato sulla centralità della Dc (oltre che, occorre ricordarlo, delle istituzioni democratiche), ma pose le basi per una profonda quanto inevitabile degenerazione di entrambi, che sarebbe esplosa drammaticamente un decennio dopo.

Nonostante l’asprezza dello scontro interno alla Dc tra i sostenitori della linea del neocentrismo e quelli del centro-sinistra, grazie anche al nuovo regolamento parlamentare varato nel 1971 il coinvolgimento comunista nell’azione legislativa fu infatti relativamente costante in tutta la prima metà del decennio, e proprio uno dei principali avversari di Moro, Giulio Andreotti, fu tra coloro i quali diedero un maggiore contributo alla "strategia dell’attenzione" teorizzata dallo statista pugliese.

I risultati di questa azione, che si combinò con quella tradizionale di carattere sindacale, se da un lato consentirono una nuova e ondata di incrementi salariali e il varo o la riforma di alcuni importanti istituti del welfare, dall’altro lato contribuirono significativamente ad un incremento complessivo della spesa pubblica che, non accompagnato da un consistente aumento delle entrate, diede alla politica economica del periodo una indubbia efficacia anticiclica che fu però raggiunta al prezzo dell’attivazione di quel "circolo vizioso" sopra sommariamente delineato e di una drastica perdita di competitività del "sistema-paese".

L’esito del referendum sul divorzio e delle elezioni del 1975-76 resero inevitabile un salto di qualità di questa strategia, nella ricerca di un più organico compromesso con il Pci volto a garantire la governabilità, a rafforzare le istituzioni di fronte alla minaccia terroristica ed a consentire una stabilizzazione consensuale della situazione economico-sociale.

Ancora una volta la linea proposta da Moro ("leader inevitabile, non leader prescelto") veniva ad essere imposta dalle cose, ed ancora una volta essa sarebbe stata realizzata da un partito che si riconosceva solo in parte nelle sue posizioni. In ogni caso, si trattava anche in questo caso di una linea che non implicava alcuna legittimazione politica verso il Pci, ed aveva come presupposto la conservazione della centralità della Dc e la chiara delimitazione dei confini della collaborazione con i comunisti, con i quali, secondo Moro, poteva realizzarsi una "convergenza parallela" ma non una alleanza politica innanzitutto in virtù di considerazione di carattere internazionale (come dimostrò l’esclusione delle questioni di politica estera dall’accordo programmatico del 1977).

In ciò vi era d’altronde una piena sintonia con gli indirizzi della nuova amministrazione Carter, che come è stato recentemente dimostrato era disponibile ad accettare un coinvolgimento del Pci in funzione di contenimento della grave crisi economico-sociale ma si sarebbe opposta fermamente ad ogni ipotesi di partecipazione diretta dei comunisti al governo.

Inoltre, contrariamente a quanto da molti ritenuto all’epoca, la "new foreign policy" di Carter pur mirando alla distensione costituiva per certi aspetti "un ritorno agli obiettivi e ai principi fondamentali del containment" dopo la "anomalia" del "realismo" dell’era Kissinger, e la sua costante "sfida" all’Urss su temi apparentemente secondari come il commercio, le tecnologie e i diritti umani sarebbe ben presto risultata assai poco gradita a Mosca, soprattutto nella sua versione più "assertiva" inaugurata nel corso del 1977.

Non a caso, proprio in quell’anno i sovietici iniziarono ad esprimere un crescente malumore per le posizioni del Pci, soprattutto in tema di diritti umani ma anche sulle questioni di politica internazionale, dimostrando esplicitamente che il precedente consenso all’accettazione comunista della Nato era connesso ad una fase del processo di distensione che essi ritenevano minacciata sia dalla politica dell’amministrazione Carter sia dalla prospettiva di un ingresso al governo del Pci (anche perché in quell’anno i comunisti italiani, nel tentativo di restituire respiro strategico alla collaborazione con la Dc, tornarono a introdurre nella loro elaborazione alcuni riferimenti ad un superamento dei blocchi).

In questo quadro, l’ingresso dei comunisti nella maggioranza sancito nel febbraio del 1978 non solo non avrebbe fatto venir meno i limiti intrinseci della strategia del compromesso storico, ma per di più avvenne in ritardo rispetto all’evoluzione del processo di distensione, finendo con il coincidere con un raffreddamento delle relazioni tra i blocchi che rese entrambe le superpotenze estremamente diffidenti verso il nuovo governo Andreotti.

I risultati del triennio della solidarietà nazionale furono quindi, e non poteva essere diversamente, assai diversi dagli obiettivi politici e programmatici che il Pci si era prefisso, e la Dc dimostrò ancora una volta una capacità egemonica nettamente superiore a quella dei suoi interlocutori politici.

Il Pci svolse comunque una funzione determinante per un’azione di stabilizzazione di indubbia efficacia, che oltre a respingere l’assalto brigatista consentì di porre sotto controllo le principali variabili economiche ristabilendo i margini di profitto delle imprese e rimettendo in moto la crescita dopo la grave recessione del 1975.

Il contenuto fondamentale di tale azione fu però quello di un sostegno agli assetti tradizionali del sistema produttivo del paese e di una accentuazione dei caratteri particolaristici del welfare italiano, che avrebbero determinato una complessiva perdita di competitività dell’economia e un arretramento della "frontiera tecnologica" simboleggiato dall’entità della svalutazione subita dalla lira nel corso del decennio.

L’incapacità di realizzare i propri obiettivi, i segnali di una perdita di consenso nel proprio elettorato e la sempre minore sintonia con un quadro internazionale segnato da crescenti tensioni indussero così Berlinguer a lasciare la maggioranza di solidarietà nazionale, e non a caso ciò avvenne proprio su un tema, l’adesione allo Sme, che incorporava quel nesso nazionale-internazionale che il Pci aveva tentato inutilmente di eludere.

Nonostante la sconfitta della strategia del "compromesso storico", l’esperienza della solidarietà nazionale segnò profondamente i caratteri del Pci. Per la prima volta dal 1947 il gruppo dirigente del partito comunista aveva dovuto misurarsi concretamente (anche se indirettamente) con il tema del governo e con i compiti e le responsabilità ad esso connessi, stabilendo una piena identificazione con lo Stato e le istituzioni che impresse una profonda discontinuità nella sua storia e nel senso comune dei suoi militanti.

Le modalità della partecipazione del Pci alla maggioranza, che ne fecero una sorta di junior partner non legittimato a governare in prima persona (e che erano state rese inevitabili dal mancato scioglimento delle aporie della "doppia lealtà" e del tema dell’identità), avrebbero però contribuito a conservare nella cultura politica di quel partito una persistente difficoltà a definire in forme nuove il proprio ruolo nel sistema politico italiano, ponendo le premesse del lungo immobilismo degli anni ottanta.


5) Il pentapartito: consociativismo e arroccamento

La fine della solidarietà nazionale e l’avvio della stagione del pentapartito coincide con un profondo mutamento del quadro internazionale aperto dal riacutizzarsi delle tensioni est-ovest e segnato dalla svolta con cui a partire dal 1979 gli Stati Uniti iniziarono una politica di alti tassi di interesse (che portò alle stelle il prezzo del dollaro facendo affluire in quel paese capitali da tutto il mondo) e promossero un massiccio riarmo per sostenere l’innovazione tecnologica e la riconversione "postfordista" della loro economia.

Le politiche di sostegno alla domanda e il compromesso sociale e politico su cui si era retto lo sviluppo postbellico venivano così messe in discussione dai costi di una ristrutturazione da compiersi in condizioni di disordine sistemico ed alto costo del denaro, oltre che dalla sempre minore sostenibilità finanziaria degli istituti dello stato sociale e dalla loro incapacità di includere nelle loro maglie le nuove figure sociali prodotte dalla "terza rivoluzione industriale".

In Italia, il compito di porre fine al regime inflattivo fu affrontato dai governi di pentapartito, una formula inevitabile che scaturiva delle scelte opposte e complementari del "preambolo" e della "alternativa".

La scelta di aderire allo Sme ed il "divorzio" fra Tesoro e Banca d’Italia lasciavano intendere la prevalenza di un’opzione per il "rigore", il rafforzamento del cambio e il riavvicinamento ai partners europei nel quadro di uno sforzo volto a recuperare un profilo autonomo alla politica estera italiana negli scenari mediterraneo e mediorientale. A sua volta, la fine dell’accordo con il Pci poteva essere indicativa del tentativo di realizzare una "stabilizzazione conflittuale" analoga a quella avviata in Inghilterra in quegli anni in alternativa al modello "concertato" promosso in altri paesi europei.

In realtà, le politiche degli anni ’80 furono caratterizzate da un intreccio tra la linea del "rigore" e quella della "spesa" (che coesistevano sia nella maggioranza che nell’opposizione), realizzato nel quadro di una sorta di "conflittualità consociativa" con il Pci e il movimento sindacale e di una difficoltà (comune a tutto il continente) a dare nuovo respiro al processo di integrazione europea.

Il risultato fu una stabilizzazione fondata su una riduzione solo parziale dell’inflazione, su una politica del cambio più rigorosa ma aperta a frequenti svalutazioni competitive, e soprattutto su un costante aumento della spesa e del debito pubblico che avrebbe dato vita a una nuova "modernizzazione senza sviluppo" dell’apparato produttivo ponendo le premesse per quella frattura tra settori protetti e settori esposti alla concorrenza internazionale e tra "garantiti" e "esclusi" che si sarebbe clamorosamente rivelata negli anni Novanta di fronte all’ineludibilità dell’appuntamento con il "vincolo esterno".

Se l’incapacità della maggioranza di comporre in una linea univoca e coerente la pluralità delle opzioni e degli interessi presenti al suo interno contribuì naturalmente in misura decisiva a determinare questo sbocco, il modo con cui il Pci interpretò la nuova fase si rivelò a sua volta del tutto funzionale alla tenuta dell’assetto politico, economico e sociale che caratterizzò la politica del pentapartito negli anni ottanta.

Il perno della nuova strategia comunista furono le due "svolte" con cui Berlinguer annunciò la politica dell’"alternativa democratica" e lo "strappo" da Mosca a ridosso rispettivamente delle polemiche sul terremoto nell’Irpinia e del colpo di stato in Polonia. Ma nonostante l’enfasi e il clamore che accompagnarono queste scelte, la loro principale caratteristica fu la difficoltà a superare l’orizzonte culturale che aveva sorretto la politica del Pci negli anni settanta, e l’intento essenzialmente difensivo con cui si assegnò loro il compito di tutelare il ruolo tradizionale del Pci nel sistema politico e nella società italiana.

Nonostante infatti nelle tesi del XVI congresso (marzo 1983) i caratteri del "circolo vizioso della rendita" fossero individuati correttamente e si affermasse che "le politiche espansive del vecchio tipo non sono più proponibili" ed era necessario quindi promuovere "una politica rigorosamente selettiva" che fosse capace di "scomporre e dislocare" il blocco di interessi della Dc attraverso una "programmazione non statalistica", quegli spunti rimasero del tutto isolati.

E così essi da un lato convissero con un impianto tradizionale in cui la "ricomposizione del lavoro dipendente" era concepita come indistinta giustapposizione di interessi da difendere e la spesa pubblica e le partecipazioni statali apparivano le leve principali di un’azione mirata ad "allargare le basi(...) del processo di accumulazione" per realizzare il "superamento del sistema capitalistico". E dall’altro non intaccarono una concreta azione politica e rivendicativa a livello nazionale e locale che schiacciava il Pci sul proprio blocco tradizionale (come avrebbe dimostrato la vicenda del referendum sulla scala mobile), facendone sempre più, come fu rilevato criticamente, "il partito […] dell’articolazione dello stato sociale in crisi".

Ma era soprattutto sul piano politico che la proposta dell’alternativa democratica mostrava la sua fragilità. Dopo aver respinto una pur vaga offerta di dialogo avanzata da Bettino Craxi sulla base di una lettura della politica socialista che la paragonava all’"opera dei partiti socialdemocratici europei che con i loro errori hanno aperto la strada alla reazione e al nazismo", Berlinguer escluse infatti con nettezza la praticabilità di una strada "mitterandiana" in Italia.

Successivamente, con la nota intervista a Scalfari con cui pose la "questione morale" al "centro del problema italiano", il segretario comunista spostò ulteriormente l’asse della politica di alternativa accentuando i tratti di "diversità" del Pci (una diversità etica che veniva fatta poggiare sulla "coscienza anticapitalista" dei comunisti) da tutti gli altri partiti italiani, mentre la speculare virata neocentrista compiuta dal Psi garantì il protrarsi per tutto il decennio dello scontro frontale tra i due partiti.

Contemporaneamente, il Pci si oppose con decisione ad ogni ipotesi di riforma costituzionale e di modificazione del sistema elettorale, ribadendo con chiarezza la propria contrarietà al principio del bipolarismo e, all’indomani dell’elezione di De Mita a segretario della Dc, stabilì unanimemente di circoscrivere il dialogo istituzionale al terreno della riforma del processo legislativo e dell’amministrazione della giustizia.

Al di là delle ragioni dettate dalla contingenza politica, alla base del duplice arroccamento (politico e istituzionale) del Pci sembrava esservi innanzitutto la chiara consapevolezza che una alternativa di governo, e quindi la trasformazione del sistema politico italiano in senso bipolare, avrebbe inevitabilmente determinato una profonda trasformazione del partito: del suo ruolo, del suo insediamento sociale, della sua organizzazione interna e quindi della sua identità.

Nonostante nelle discussioni interne si affacciasse la consapevolezza dell’esigenza di "ridefinire i caratteri costitutivi, culturali, il ruolo nazionale" di un blocco di forze che non hanno più "i caratteri del dopoguerra" e che per questo "non possono essere tenute insieme se non sulla base di programmi, di grandi opzioni interne e internazionali", risultò infatti di gran lunga più forte la convinzione che al di fuori dello schema entro cui si era sviluppato dopo il 1945 il Pci avrebbe esaurito la propria funzione e sarebbe stato quasi certamente condannato alla scomparsa o comunque alla marginalizzazione.

Indipendentemente dalle altre difficoltà che l’ipotesi "mitterandiana" incontrava, quella prospettiva venne insomma respinta soprattutto perché, come fu affermato, "se cade il nostro ruolo la "ditta" chiude" per "mancanza di ragioni sociali". Ed analogamente, ogni ipotesi di premio di maggioranza fu rifiutata perché si riteneva che "l’anomalia italiana (il Pci) verrebbe meno se venisse meno la proporzionale", mentre quel sistema "ha permesso che vi sia l’unico partito comunista in Europa con una base di massa".

Sulla base di queste premesse, la linea dell’alternativa non poteva che divenire uno strumento attraverso cui "saldare il nostro schieramento sociale fondamentale", difendendo la forza organizzata del Pci e "ricompattando" un partito che si riteneva incapace di "reggere" la prova del governo.

Negli anni successivi quell’obiettivo fu così al centro della strategia comunista, e venne perseguito, in un crescendo che raggiunse il culmine con il referendum sulla scala mobile, attraverso un inasprimento dell’opposizione sociale e mediante l’uso accorto degli strumenti del governo locale e dei notevoli spazi di manovra che il claudicante sistema politico-istituzionale italiano offriva a una sapiente azione parlamentare di tipo "consociativo".

In questo quadro, si comprende dunque meglio perché il Pci, se accentuò il proprio atteggiamento critico nei confronti dell’Unione Sovietica fino a dichiarare l’esaurimento di un’intera fase della vicenda storica del movimento operaio apertasi con la rivoluzione d’ottobre, non condusse però questa revisione alle sue estreme (e logiche) conseguenze mantenendo in piedi quel simulacro di "doppia lealtà" che consentiva di riproporre una conventio ad excludendum sempre meno credibile dopo l’accettazione della Nato del ‘76.

Non c’è dubbio infatti che lo "strappo" costituì un atto coraggioso e di grande rilievo politico, che contribuisce a spiegare la sostanziale "tenuta" del Pci nel corso del decennio marcandone la differenza sostanziale con il Pcf. E tuttavia anche in questo caso l’azione del gruppo dirigente comunista appare motivata soprattutto dall’esigenza di riaffermare, aggiornandole alla luce delle novità dei primi anni ‘80, le posizioni assunte nel corso degli anni ‘70, evitando però di impegnarsi in uno sforzo di ridefinizione dell’identità e della collocazione internazionale del partito che si riteneva avrebbe fatto pagare dei prezzi troppo alti.

Per questo nello schema "dialettico" con cui motivò "l’esaurimento della spinta propulsiva" della rivoluzione di ottobre Berlinguer ribadì anche il "superamento" della socialdemocrazia giustificando il valore di una collocazione solitaria che consentiva al Pci di essere "uno dei pochi punti di legame tra i Paesi socialisti [...], il movimento operaio, comunista, socialista, socialdemocratico e i Paesi del terzo mondo".

E per questo, nonostante nelle tesi del congresso dell’83 si ponesse apertamente l’obiettivo della "ricomposizione del movimento operaio dell’Europa occidentale" (un riferimento che comunque scomparve dalla relazione di Berlinguer, che spostò l’accento sull’esigenza di dialogo con i movimenti cattolici), l’intensificazione del confronto con i principali partiti dell’Internazionale socialista continuò a convivere con la riproposizione di un’irriducibile "diversità" ideologica nei confronti di quelle forze.

Naturalmente esistevano delle difficoltà oggettive che rendevano problematica una rottura definitiva con Mosca, a cominciare dal rischio di vedere affermarsi un’opposizione interna sostenuta apertamente dall’Urss (il che comunque avvenne lo stesso). E tuttavia questa reticenza ad affrontare la questione dell’identità comunista era assai più la conseguenza che la causa di un atteggiamento difensivo, le cui motivazioni erano innanzitutto interne.

Più precisamente, il paradosso evidente di uno "strappo" che ribadiva la precedente collocazione internazionale del Pci rifletteva l’impasse più generale di una linea di "alternativa" che si traduceva di fatto (sul piano politico, istituzionale e programmatico oltre che su quello ideale) nella strenua difesa del ruolo del Pci nel vecchio sistema politico.

Per queste ragioni, nonostante dopo la morte di Berlinguer le sconfitte e i sintomi evidenti di un declino elettorale ed organizzativo si facessero sempre più evidenti, il processo di revisione avviato nel 1986 non sciolse i nodi di fondo che paralizzavano il partito, nonostante la prospettiva duplice di un tramonto della guerra fredda e di un rilancio del processo di integrazione sotto l’impulso di alcune forze del socialismo europeo delineasse un quadro internazionale meno "ostile" di quello della prima metà del decennio.

La decisione presa al XVI congresso di definire il Pci un "partito di programma" che fosse "parte integrante della sinistra europea" si accompagnò infatti ad un’azione tesa essenzialmente a ricostituire un’unità del gruppo dirigente (messa a dura prova dall’ultimo periodo della segreteria di Berlinguer), che fu cementata proprio dall’assenza di scelte nette sui principali nodi politici e culturali sul tappeto, a cominciare dal problema del nome del partito.

Da questo punto di vista anzi, proprio l’ascesa al potere di Gorbaciov, che nell’incontro avuto in gennaio a Mosca con Natta aveva esplicitamente chiesto di non affrontare il tema, risultò di ostacolo all’avvio di dibattito sul comunismo rinverdendo le speranze in una "riformabilità" dell’Urss e rilanciando lo schema dell’"unità nella diversità".

Dopo la sconfitta alle elezioni del 1987, l’ascesa al vertice del partito di una nuova generazione di dirigenti impresse un’accelerazione al processo di rinnovamento, e nel novembre dello stesso anno il nuovo vicesegretario Achille Occhetto affermò l’esigenza di introdurre una netta "discontinuità" nel ruolo tradizionalmente svolto dal Pci, riconoscendo che "la difesa dello statu quo non garantisce la salvaguardia reale dei principi fondamentali che si vogliono preservare" e che occorreva chiudere la stagione della "democrazia consociativa" proponendo una "organica riforma istituzionale" che desse sostanza alla linea di alternativa democratica.

Nonostante ciò, nei mesi successivi la "svolta di novembre" non diede luogo ad alcuna iniziativa politica di rilievo, e il Pci ripropose il tradizionale impianto proporzionalista e parlamentarista accantonando nei fatti la linea approvata nell’autunno. La sconfitta elettorale ad un turno amministrativo minore nel maggio del 1988 e la malattia di Natta indussero allora i "giovani" a rompere gli indugi, sollecitando un ricambio al vertice del partito che portò il 22 giugno all’elezione a segretario di Achille Occhetto e un mese dopo alla convocazione di un congresso straordinario.

Sia nelle tesi elaborate in autunno sia nella relazione introduttiva di Occhetto al XVIII congresso (marzo 1989), la presenza di novità importanti su tutti i principali punti della piattaforma del "neorevisionismo socialista" e gli accenni alla possibile modifica della legge elettorale si accompagnarono però ad un’ambiguità di fondo sugli aspetti più delicati dell’identità comunista e sull’effettiva disponibilità del "nuovo Pci" a rientrare nel gioco politico, che si tradusse nella ricerca di un consenso largo (da Ingrao a Napolitano) giustificato dall’esigenza prioritaria di legittimare la nuova leadership e di ricompattare il partito per "resistere" all’offensiva socialista alle imminenti elezioni europee.

Nonostante l’impegno del nuovo gruppo dirigente dunque, il "nuovo Pci" risultava alla fine assai simile al vecchio, mentre dietro l’apparente unanimità covavano tensioni e contrasti di fondo non sciolti che non avrebbero tardato a manifestarsi.

E così, di fronte al crollo del muro di Berlino, il problema non più rinviabile del cambio del nome divenne il catalizzatore di divisioni latenti da tempo, con il risultato che l’inevitabile chiarimento interno assunse un carattere tutto ideologico: relegando in secondo piano questioni rilevantissime per la cultura politica ed il programma del futuro partito, ed impedendo una compiuta "elaborazione" dell’esperienza storica del comunismo (italiano e mondiale) che avrebbe favorito una perdurante incompiutezza della sua trasformazione del tutto speculare a quella della lunga "transizione italiana".

Il profondo radicamento e la perdurante forza del Pci nell’intero arco della storia repubblicana, oltre che la vitalità e i successi del partito che nacque dalle sue ceneri, costituiscono la migliore prova dell’inconsistenza delle tesi che hanno teso a ridurre la storia del comunismo italiano a mera proiezione della politica e dell’ideologia sovietica.

Il Pci è stato parte integrante della storia d’Italia, e proprio per questo la sua politica ha influenzato costantemente e in misura rilevante la vita del paese e l’azione delle altre forze politiche. Allo stesso tempo, la sua incapacità di "fuoriuscire" dal comunismo prima del 1989 dimostra l’impossibilità di considerare il Pci un partito "autonomo".

Per effetto dei caratteri e delle aporie della sua "doppia lealtà" infatti il Pci non fu in realtà mai autonomo dall’Unione Sovietica, e allo stesso tempo, come abbiamo visto, non fu mai veramente "autonomo" neanche dalla Dc, nel senso che a partire dal 1947 la sua funzione fu complementare o subalterna ad un assetto del sistema politico incardinato sulla centralità del partito cattolico e da esso sapientemente governato.

Proprio gli anni ottanta sono particolarmente emblematici di questa doppia assenza di autonomia. In quel decennio infatti i dirigenti del Pci furono incapaci di divincolarsi dal legame con una realtà ed un’ideologia (quella del comunismo) ormai morenti (oltre che moralmente e storicamente indifendibili), e con le quali avevano potuto continuare a coesistere come una sorta di "separati in casa" proprio grazie allo schema della "unità nella diversità"; ed allo stesso tempo la loro azione (o meglio: la loro immobilità) contribuì a "congelare" un equilibrio politico, economico e sociale che i sommovimenti degli anni settanta parevano aver irrimediabilmente minato nelle fondamenta.

Nel determinare questo risultato ebbe senza dubbio un peso importante la forza di inerzia e la "vischiosità" di un’organizzazione e di un insediamento sociale che faticavano a ridefinirsi e a riarticolarsi. Ma tale elemento si intrecciò con la difficoltà tutta culturale del gruppo dirigente post-togliattiano di concepire se stesso e il proprio ruolo al di fuori dello schema entro cui il partito comunista si era effettivamente sviluppato nell’Italia del dopoguerra.

Uno schema in cui dopo il 1947 l’elemento nazionale e quello internazionale furono sempre reciprocamente contraddittori sul piano degli obiettivi strategici, nel senso che il legame con l’Urss rendeva irrealizzabile la prospettiva della "via italiana al socialismo" in tutte le varianti di volta in volta elaborate; ed allo stesso tempo furono reciprocamente funzionali sul piano del ruolo concretamente svolto dal Pci, in quanto il legame con l’Urss garantiva la subalternità del Pci agli assetti del sistema politico e del modello di sviluppo italiani, e ciò a sua volta rendeva necessario il mantenimento di quel legame.

Tale subalternità ebbe naturalmente segno diverso nelle diverse fasi della vita politica italiana, svolgendo di volta in volta una funzione più o meno positiva o più o meno negativa nella vicenda postbellica di un paese che comunque, anche grazie al contributo del Pci, ha conosciuto cinquant’anni di democrazia e di benessere.

Non spetta a questa relazione tentare di tracciare un bilancio. Ciò che ci sembra opportuno sottolineare è che, nel bene e nel male, le radici e le ragioni profonde dei caratteri dell’esperienza del comunismo italiano non possono essere considerate solo un problema interno di quel partito e del suo gruppo dirigente, ma che proprio per la duplice assenza di "autonomia" che caratterizzò la storia del Pci esse vanno ricercate e indagate sulla base di una visione unitaria della storia d’Italia che la collochi in una prospettiva e in un quadro europeo e mondiale.


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