Il sensazionalismo nuoce alla storia
Antonio Carioti
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Meritava sorte migliore, al cospetto del grande pubblico, il convegno
sul Pci nell'Italia repubblicana promosso a Roma dalla Fondazione Gramsci il 25 e il 26 di
maggio. Purtroppo sui giornali la ricerca dello scoop è ossessiva anche quando si discute
di argomenti storici. E la sostanza delle ricerche finisce spesso per passare in secondo
piano rispetto alle esigenze del sensazionalismo.
Così le relazioni di Roberto Gualtieri e Silvio Pons, che proponiamo in questo dossier ai
lettori di "Caffè Europa", rischiano di passare alla cronaca per la
"rivelazione" secondo cui Enrico Berlinguer avrebbe concordato con il Cremlino
la scelta di accettare l'Alleanza atlantica compiuta nel 1976, quando dichiarò a
Giampaolo Pansa
di sentirsi "più sicuro" dietro lo scudo della Nato nel procedere "lungo
la via italiana al socialismo".
E' stata "l'Unità" ad accreditare per prima questa interpretazione, sostenendo
che il saggio di Gualtieri infliggeva "un nuovo colpo all'idea dell'autonomia
berlingueriana da Mosca". Poi altri hanno enfatizzato la "scoperta",
affermando che tra il Pci è l'Urss non ci fu mai alcuno strappo o comunque svalutando il
faticoso cammino compiuto da Botteghe Oscure per emanciparsi dal blocco sovietico.
In realtà Gualtieri, come chiunque può constatare leggendo il suo lavoro, nega che
l'intervista di Berlinguer sia stata "un atto di rottura", poiché il Cremlino
approvava pienamente la divisione dell'Europa in due blocchi stabili, ma aggiunge che già
nel 1977 "i sovietici iniziarono a esprimere un crescente malumore per le posizioni
del Pci". Fu in quell'anno che Berlinguer, proprio a Mosca, parlò di "valore
universale della democrazia", concetto assai poco gradito alla gerontocrazia
brezneviana.
Inoltre Gualtieri osserva che l'Urss vedeva negativamente la prospettiva di un ingresso al
governo dei comunisti italiani nell'ambito della politica di solidarietà nazionale.
Valutazione che Pons conferma in pieno, rilevando che già allora "Mosca esaminò
l'opzione di provocare una scissione nel Pci". In effetti chi ha buona memoria
ricorderà che tra la fine del 1978 e l'inizio del 1979 comparve in Italia uno strano
quotidiano di tendenza smaccatamente filosovietica, "Ottobre", che sparì di lì
a poco senza lasciare rimpianti né dubbi sulla provenienza dei fondi necessari a
pubblicarlo.
Insomma, né Gualtieri né Pons si sognano di dire che Berlinguer fu sempre d'accordo con
Breznev. Sottolineano piuttosto che non ebbe mai il coraggio di ammettere la natura
totalitaria del regime sovietico e di scegliere l'Occidente, preoccupato com'era - scrive
Pons - di "non compromettere le basi identitarie del Pci".
Qui veniamo al punto. Quel partito era nato e cresciuto come parte integrante del
movimento comunista mondiale sorto dalla rivoluzione d'Ottobre. Il suo massimo leader
storico Palmiro Togliatti, come ha fatto notare al convegno Massimo D'Alema, era più un
dirigente di statura internazionale, ex segretario del Comintern e fiduciario di Stalin,
che un politico italiano. E il mito sovietico era stato essenziale per la crescita e il
radicamento del Pci, poiché l'esistenza dell'Urss appariva agli occhi delle masse la
prova vivente del fatto che il capitalismo poteva essere sostituito da un ordine basato
sull'eguaglianza tra gli uomini.
Rompere con Mosca, per Botteghe Oscure, significava mutare la propria identità, svellere
le proprie radici. Un'operazione dolorosissima, che nessuno compie mai volentieri. E per
giunta facilmente interpretabile dai militanti di base come una resa al nemico storico,
l'Occidente capitalistico. Appunto per questo Berlinguer accompagnò la presa di distanze
da Mosca con un irrigidimento sul piano interno, con l'esaltazione della diversità
comunista e l'ostinato rifiuto di omologarsi alle socialdemocrazie europee.
Gualtieri ricorda opportunamente che nella visione del leader sardo la "questione
morale", oggi spesso evocata a sproposito, poggiava sulla "coscienza
anticapitalista" del partito. E cita un eloquente intervento in direzione nel quale
Berlinguer paragonava la politica di Bettino Craxi all"opera dei partiti
socialdemocratici europei che con i loro errori hanno aperto la strada alla reazione e al
nazismo". Giudizio del quale non stupisce tanto l'ostilità verso il segretario del
Psi, arcinota, ma il permanere di una lettura del Novecento che sembra tratta dai proclami
della Terza Internazionale.
Nessuno può evitare i conti con la storia. Anche quando i rapporti con Mosca si fecero
conflittuali, i finanziamenti cessarono e i sovietici presero a sostenere l'opposizione
interna guidata da Armando Cossutta, il Pci cercò di rimanere fedele alla sua tradizione,
sperando che il "socialismo reale" potesse prima o poi essere riformato. Così
si ritrovò sempre più isolato sul piano internazionale, a metà del guado tra Oriente e
Occidente. Solo quando abortì la "perestrojka" di Gorbaciov, non restò altro
da fare che cambiare nome e approdare sulle sponde del socialismo europeo.
E' di questo percorso accidentato per uscire dall'ambiguità che parlano le relazioni di
Gualtieri e Pons, seguendone i passaggi in modo spassionato, con il tono
"algido" di cui si è meravigliato, nel corso del convegno, un interlocutore
esigente come Ernesto Galli della Loggia. In effetti fa un po' impressione sentir
rievocare con misurata freddezza vicende ancora roventi nel ricordo di tanti, delle quali
la sinistra italiana, perseguitata dall'ombra del comunismo, continua a pagare
pesantemente il prezzo.
Forse è proprio vero, come ha osservato nel corso del dibattito Guido Formigoni, che tra
gli studiosi la guerra fredda storiografica è ormai superata. Peccato che prosegua
ancora, furibonda come sempre, sulle pagine dei giornali.
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