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Il mea culpa de "il manifesto"

Paolo Martini



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Titoloni in prima pagina, foto : "Individuato il telefonista" dell'omicidio D'Antona, oppure "Delitto D'Antona, preso il telefonista" e "Preso un BR". Anche questa volta ha prevalso il bisogno di dare in pasto ai lettori nomi e facce che incarnassero i colpevoli. Quelli che avevano osato uccidere un uomo stimato e di sinistra. Un uomo "giusto", come si diceva da piu' parti. Ora che Alessandro Geri e' stato scarcerato, la stampa si e' divisa tra chi ritiene ancora fondate le ragioni dell'accusa e chi decide di fare autocritica.

E' il caso de "il manifesto". "Il primo giorno abbiamo sbagliato", dice Riccardo Barenghi, che del quotidiano e' il direttore e che il giorno dopo l'arresto titolo' "Il doppio lavoro", riferendosi all'attivita' che Geri svolge per il sindacato Fiom. "Ci sembrava che fosse possibile, sentendo i commenti di nostri amici del sindacato e di persone che consideriamo garantiste", si giustifica Barenghi. "Ci siamo fatti fregare da tutto il clima e dal fatto che quattro pubblici ministeri avevano indagato per un intero anno. Anche la storia della scheda telefonica ci era sembrata una cosa seria, senza un teorema iniziale. Abbiamo sbagliato, facendo un titolo e un pezzo che dava per buono l'arresto. Non ci siamo accorti di una agenzia arrivata tardi, che raccontava che Geri si era messo a piangere, mentre a noi risultava che fosse tranquillo". Come chi mette in conto di essere scoperto.

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"il manifesto" - tiene a ricordare il direttore - ha "una storica tradizione garantista": "una delle prime cose che mi hanno insegnato entrando qui e' che non bisognava mai scrivere 'pregiudicato'. Ma e' vero che l'impulso prevalente e' quello di sbattere il mostro in prima pagina. E quando ci si rende conto che non e' piu' tale, spesso e volentieri sparisce dalla prima, viene derubricato ad ex nelle pagine interne. E' successo anche ai tempi di Tangentopoli: quando qualcuno veniva arrestato, non si dava poi lo stesso rilievo alla notizia della sua assoluzione".

"Hai colto il caso di un giornale che mi e' molto caro", dice il direttore di Liberazione Alessandro Curzi. "Noi non sapevamo niente di questo ragazzo quando e' stato arrestato e proprio per questo ci sarebbe voluta una enorme cautela. Invece si e' data credibilita' ad una cosa che, gia' dopo poche ore - lo si capiva - era molto confusa. La storia di un bambino di quattordici anni che riconosce un tizio; uno zingaro che e' ancora in carcere..." Per Curzi si tratta di "un circo in cui la parola 'presunto' sparisce dai titoli dei giornali. Nel caso Valpreda - ricorda - fu diverso: non fu tanto colpa dei giornali, perche' ci fu fu una organizzazione perfetta. Nemmeno allora la stampa ha avuto esitazioni. Ma in un caso come questo sono i giornali stessi che provocano, che accentuano, che cercano la notizia."

E non e' anche una sostanziale incapacita' dei giornali di fare cronaca giudiziaria senza pendere dalle veline delle Procure? "E' vero", risponde Curzi: "non possiamo limitarci a fare i postini. Il giornalista e il direttore devono scegliere le notizie. Non puo' accadere che sia il magistrato, il carabiniere, a darci un appuntamento, consegnandoci qualcosa o consegnandoci tutto".

Riccardo Barenghi rivendica al suo giornale il merito di non aver pubblicato le foto di Geri, perche' "e' molto peggio che diffonderne il nome, per la sua vita quotidiana, nel suo quartiere". Quanto all'inchiesta della procura, "dobbiamo chiederci come mai dopo un anno, in un clima in cui non c'e' nessun brodo di coltura del terrorismo, in cui non c'e' complicita' nelle fabbriche, l'unico risultato cui si sia arrivati e' l'arresto - poi rivelatosi poco fondato - di un tizio che aveva attaccato un manifesto e che a sua volta conosceva un altro tizio. Dicono di esser stati spinti ad un provvedimento di custodia cautelare dalla fuga di notizie: ma, con indizi cosi' fragili, non si sbatte una persona in prima pagina annunciando 'l'abbiamo preso'".




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