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Antonio Carioti
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Aveva torto chi temeva che il convegno "Interpretazioni su De
Felice", tenuto a Roma il 16 maggio, si risolvesse in una celebrazione encomiastica e
monocorde dell'insigne storico scomparso quattro anni fa. Certo, non era presente nessuno
dei critici severi che il biografo di Mussolini conta in Italia. Ma in compenso c'erano
ben quattro relatori stranieri su otto, il che ha contribuito a una benefica
sprovincializzazione del dibattito su un autore la cui opera ha senza dubbio un respiro
internazionale. Molto meglio, francamente, che interrogarsi per l'ennesima volta, senza
costrutto, sul presunto contributo di De Felice ai successi della destra nostrana.
Tanto più che le critiche al lavoro del celebre studioso non sono certo mancate. Le più
pungenti, come era prevedibile, sono venute dall'inglese Denis Mack Smith, che ha
rimproverato a De Felice di aver trascurato la storia militare del secondo conflitto
mondiale, sottovalutando gli errori marchiani di un Mussolini niente affatto
"realista", ma piuttosto ingenuo, presuntuoso e incompetente.
Invece il francese Pierre Milza e l'altro britannico Adrian Lyttelton, pur elogiando a
vario titolo l'opera defeliciana, hanno rilevato nei suoi libri un desiderio eccessivo,
non sempre condivisibile, di marcare la distinzione tra il fascismo italiano e il
nazionalsocialismo tedesco. E sempre Lyttelton ha biasimato alcuni suoi
"seguaci", secondo i quali il biografo del duce avrebbe quasi il monopolio
dell'obiettività e della scientificità negli studi in materia.
Nessuno però ha contestato la validità dell'impostazione di De Felice sul punto cruciale
della natura eclettica del fascismo, che non è affatto classificabile come un fenomeno
puramente reazionario, ma costituisce piuttosto una sintesi molto composita tra elementi
di destra e di sinistra, alcuni direttamente derivati dalla tradizione giacobina.
Così Giovanni Sabbatucci ha ricordato quanto fosse audace, da parte di De Felice,
intitolare "Mussolini il rivoluzionario" il primo volume della sua biografia,
che non si ferma affatto alla rottura del protagonista con il Psi, ma arriva fino al 1920,
quando sono già nati i fasci di combattimento. E Milza ha espresso il suo pieno consenso
all'idea defeliciana secondo cui il regime littorio aveva una sua idea di progresso
storico e aspirava a creare una sorta di "uomo nuovo", in questo distaccandosi
nettamente dall'ideologia hitleriana.
Molto stimolante, a tal proposito, anche la relazione di Marc Lazar, che ha svolto un
confronto tra Lenin e Mussolini sulla scorta degli scritti di François Furet, lo storico
francese autore del libro sul comunismo "Il passato di un'illusione", che si
riconosceva apertamente debitore di De Felice in fatto di analisi del fascismo. Invece
Lyttelton si è soffermato sul regime mussoliniano come "totalitarismo
incompiuto", nel quale lo Stato nei fatti prevaleva sul partito, diversamente da
quanto avveniva nel Terzo Reich.
Inevitabile poi il riferimento alle passioni polemiche che il nome di De Felice continua a
suscitare. Pasquale Chessa, che con il biografo di Mussolini ha realizzato il
libro-intervista "Rosso e Nero", a suo tempo oggetto di diatribe furenti, ha
introdotto l'argomento con la sua relazione (vedi articoli collegati) e poi l'ha
riproposto agli altri partecipanti nella tavola rotonda che ha chiuso il convegno.
Francesco Perfetti, direttore della rivista "Nuova Storia Contemporanea", che si
vuole erede della "Storia Contemporanea" defeliciana, ha individuato la più
preziosa lezione del maestro scomparso nella sua impostazione metodologica scevra da ogni
moralismo. Anche un tema scottante come il fascismo, ci ha insegnato De Felice, va
affrontato in sede storiografica senza prevenzioni, guardando prima di tutto ai documenti
e ai riscontri.
Apparentemente può sembrare una banalità, ma ci voleva un coraggio non comune, ha
sottolineato Sabbatucci, nel mettersi a scrivere una vita di Mussolini, a soli vent'anni
dalla scomparsa del duce, come se si trattasse di un personaggio vissuto secoli addietro.
Il primo volume di De Felice uscì infatti nel 1965, quando ancora molte ferite erano
aperte e la rievocazione del ventennio nero era per troppi motivo di estremo imbarazzo.
La realtà è che faceva comodo espungere il fascismo dalla storia d'Italia, per sottacere
quanto profondo fosse il coinvolgimento della maggioranza degli italiani nel regime. Non
si è perdonato a De Felice di aver scoperto gli altarini, ma forse proprio questo è il
suo merito maggiore.
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