Istat: uno su tre cambia posto ogni anno
Fabio Rapiti con Ivo Lini
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Sorpresa: lAmerica è già qui. Sì, il modello di occupazione
flessibile a stelle e strisce invocato continuamente dal mondo economico e politico, il
modello per cui si vota al referendum del 21 maggio nel quesito che consente libertà di
licenziamento, è già da tempo entrato in sordina nell'organizzazione del lavoro del
nostro Paese. Almeno stando alle stime che lIstat ha elaborato nei giorni scorsi sui
dati dellInps. Ogni anno, dice infatti la ricerca dellIstituto di statistica,
su ogni cento lavoratori 34 effettuano "transazioni in uscita dalle imprese".
Detto in altre parole, uno su tre cambia lavoro. Un dato, questo, che ci avvicina molto al
38 per cento del mercato del lavoro americano.
"Su mobilità e flessibilità - dice Fabio Rapiti, il ricercatore dellIstat che
ha curato questo studio e che sui temi della statistica del lavoro ha scritto diversi
saggi - Italia e Stati Uniti viaggiano appaiati. Negli Usa, per ragioni storiche e
culturali, cè sicuramente più mobilità territoriale. Se però si guarda alle
stime sul turn-over, la differenza è davvero minima".
Ma la flessibilità, sottolinea lindagine Istat, non è uguale per tutti i posti di
lavoro. In testa alla classifica del turn-over sono le "fabbrichette", con meno
di 20 dipendenti: qui, ogni anno, un lavoratore su due cambia posto. Diverso il caso delle
imprese con oltre mille dipendenti: il tasso di separazioni cala al 13 per cento. I
motivi? "Anzitutto - spiega Rapiti - il grado di mobilità interna nelle grandi
aziende. In secondo luogo, una legislazione contro i licenziamenti più protettiva. Terzo,
nelle imprese più piccole il lavoro è prevalentemente giovanile". E infatti, dice
la ricerca, sono proprio i giovani sotto i 36 anni i lavoratori più mobili (la curva
scende al minimo tra i 36 e i 45 anni e risale con laumento delletà).

Anche rispetto ai diversi settori produttivi le differenze sono notevoli: molto elevate le
percentuali di divorzio nei settori con attività stagionali (commercio, turismo e
costruzioni). Valori medi per il pubblico impiego, le industrie manifatturiere alimentari,
del legno e metalmeccaniche. Tassi più elevati infine per quelle chimiche ed estrattive.
Il maggior livello di fedeltà aziendale si raggiunge nelle aziende ex pubbliche
fornitrici di energia, gas e acqua. Osserva Rapiti: "Il mito del posto fisso e del
mercato del lavoro rigido, specie nel settore privato, è ormai irreale. Senza contare che
oggi sessanta assunzioni su cento avvengono ormai con contratti a tempo determinato".
Ma come si è mosso il mercato del lavoro in Italia? "Negli anni Cinquanta - risponde
Rapiti - il ricambio era da noi piuttosto scarso. Nel decennio successivo, il fenomeno
rivela una tendenza alla crescita, in conseguenza dello sviluppo economico. Negli anni
Settanta, a causa delleconomia stagnante, il fenomeno si arresta. Negli anni Ottanta
riprende e nei Novanta dilaga".
In definitiva il referendum che prevede labrogazione dellarticolo 18 dello
statuto dei lavoratori sui licenziamenti ha poi tutta questa incidenza? "Dal punto di
vista statistico no. Ormai le aziende, se temono di legarsi per sempre a un lavoratore,
hanno tutti gli strumenti contrattuali per evitare di farlo. Le rigidità semmai
riguardano la pubblica amministrazione e la burocrazia in generale".
Unosservazione, per finire. Dice Rapiti: "Non è detto che questa corsa alla
flessibilità sia vantaggiosa per limprenditore. Anch'essa ha un costo, specie nei
settori che richiedono qualificazione elevata, dove è sempre più difficile trovare
lavoratori. Un eccesso di mobilità poi scoraggia le attività formative. No, cambiare
lavoro troppo spesso non conviene a nessuno".
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