Giornata della memoria? No grazie
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Lo sterminio degli ebrei europei da parte della Germania nazionalsocialista è solo uno
dei più gravi crimini del XX secolo, oppure va considerato un evento unico e
incomparabile, espressione del male assoluto? L'ambasciatore Sergio Romano, editorialista
del "Corriere della Sera" propende per la prima tesi, come ha spiegato nel libro
"Lettera a un amico ebreo" (Longanesi 1997).
"Mi occupo di storia - puntualizza - e non di teologia, della quale non conosco le
categorie e gli strumenti interpretativi. Dal mio punto di vista ogni avvenimento è
'unico', nel senso che ha una sua specificità irripetibile. Vale per lo sterminio degli
ebrei, per quello degli armeni, per le stragi di massa in Ruanda".
Non crede però che l'Olocausto sia stato un delitto particolarmente crudele, dato che
le vittime venivano uccise su base razziale, prescindendo dal sesso e dall'età, e non
costituivano una minaccia nemmeno potenziale per i loro carnefici?
Se lei fosse stato un borghese russo durante la rivoluzione bolscevica, un ceceno o un
tataro di Crimea sotto Stalin nel 1943-44, un armeno in Turchia nell'ultima fase
dell'impero ottomano, avrebbe avuto la stessa terribile sensazione: quella di essere
individuato come nemico, indipendentemente dal suo comportamento personale. I nazisti
sopprimevano perfino i bambini ebrei, ma analogamente il vertice sovietico, quando decise
di fucilare migliaia di ufficiali polacchi a Katyn, ordinò nel contempo che le loro
famiglie venissero rinchiuse in campo di concentramento. Anche le repressioni comuniste
colpivano secondo il principio della responsabilità allargata.
Che cosa pensa della proposta di istituire per legge una "giornata della
memoria" in ricordo della Shoah? Ritiene che sia opportuno commemorare nella stessa
occasione anche le vittime del Gulag?
Non sono favorevole a questa iniziativa. E non perché ritenga che il genocidio degli
ebrei debba essere dimenticato: del resto non mi sembra affatto che la sua memoria stia
impallidendo. Però leggo nella proposta la volontà di presentare lo sterminio come il
necessario punto di arrivo del sentimento antiebraico che ha pervaso nei secoli
l'Occidente cristiano. Insomma, con la celebrazione ufficiale di una "giornata della
memoria", si cerca di tenere mentalmente in libertà vigilata i colpevoli di ieri,
visti potenzialmente come i colpevoli di oggi e di domani. Ma io non credo che le cose
stiano così: fra la giudeofobia cristiana e l'antisemitismo razzista corrono grandi
differenze.

Golda Meir
Però la vicenda delle persecuzioni contro gli ebrei è molto lunga e sanguinosa.
Non c'è dubbio. Essa però va collocata in un contesto nel quale professare una religione
minoritaria significava rischiare la vita. Per secoli gli eretici sono stati bruciati,
musulmani e cristiani si sono combattuti spietatamente, i cattolici hanno massacrato i
protestanti e viceversa. Ma la "soluzione finale" hitleriana è un'altra cosa,
che va studiata separatamente.
Lei pensa che nel XX secolo la condizione ebraica sia completamente mutata rispetto al
passato?
Alla fine dell'Ottocento in Europa le comunità ebraiche mostravano una forte tendenza a
integrarsi nelle rispettive società nazionali. L'esplosione dell'antisemitismo tra le due
guerre mondiali, poi culminata nello sterminio nazista, ha interrotto brutalmente questo
processo, ripagando nel modo peggiore gli sforzi di assimilazione degli ebrei. Ne ha
invece ricevuto uno straordinario impulso il sionismo, il movimento per la fondazione di
uno Stato ebraico in Palestina, che fino a quel momento era rimasto un fenomeno
minoritario e velleitario.
In fondo la storia aveva dato ragione ai sionisti.
Non direi. Bisogna guardarsi da una visione determinista di tipo hegeliano, secondo cui il
genocidio è stato lo sbocco inevitabile di un antisemitismo profondo che covava da sempre
nella società europea. Non si può leggere la storia solamente in funzione di quanto è
avvenuto, come se fosse un processo perfettamente razionale. Occorre invece indagare le
cause specifiche dei singoli eventi, che spesso hanno un carattere contingente o
addirittura casuale.
Quali sono dunque, secondo lei, i fattori che hanno portato all'Olocausto?
Fondamentalmente tre. Per un complesso di dannate circostanze, alla fine della prima
guerra mondiale l'ebraismo si è trovato ad essere identificato nell'immaginario
collettivo con due forze, il bolscevismo rivoluzionario e la grande finanza
internazionale, entrambe oggetto di acuta ostilità da parte di vasti settori della
società europea. Nello stesso momento il nazionalismo si manifestava nella sua versione
più estrema e radicale, che colloca i popoli lungo una scala gerarchica, da quelli
destinati alla grandezza a quelli condannati alla servitù, e aborrisce il cosmopolitismo
tipico di molti ebrei. In Germania poi tale ideologia trovò un terreno particolarmente
fertile, anche per via delle umiliazioni inflitte ai tedeschi con la pace di Versailles.
Il combinarsi di questi ingredienti produsse una miscela esplosiva, che consentì l'ascesa
di Adolf Hitler.
Di recente lo storico britannico Eric Hobsbawm ha criticato l'uso della Shoah come
"mito legittimante" da parte dello Stato d'Israele. Mi pare che ci siano
evidenti assonanze con le tesi da lei sostenute nella "Lettera a un amico
ebreo".
E' abbastanza normale che due studiosi di storia condividano alcuni criteri
d'interpretazione. Vorrei chiarire però che io non ho giudicato negativamente l'uso
politico dell'Olocausto: l'ho semplicemente constatato, comprendendone anche le ragioni.
La costruzione di uno Stato è sempre un processo difficile e pericoloso, tanto più nel
contesto mediorientale. Non deve stupire quindi che Israele abbia fatto ricorso a un'arma
dialettica così efficace. Tutte le nazioni hanno il loro mito fondatore. Casomai la
questione riguarda l'ebraismo della diaspora, che è stato mobilitato al servizio di
un'impresa di edificazione statuale.

Perché a suo avviso questo costituisce un problema?
Così si determina una condizione di doppia lealtà. In tutto il mondo gli ebrei si
sentono cittadini dello Stato cui appartengono, ma la maggioranza di loro mantiene al
tempo stesso con Israele un legame molto solido, che induce spesso a sottoscrivere anche
le scelte politiche più discutibili di quel paese. Per il momento in Occidente la
situazione non ha creato conflitti gravi, soprattutto perché lo Stato ebraico, dal 1956
in poi, è stato il più affidabile alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ma che
cosa accadrebbe il giorno in cui Washington giudicasse prioritaria l'amicizia con il mondo
arabo? In quale imbarazzo si troverebbe la comunità ebraica americana?
Non è naturale che Israele venga visto come una garanzia contro il ritorno
dell'antisemitismo, un luogo dove rifugiarsi in caso di nuove persecuzioni, come hanno
fatto molti ebrei provenienti dal mondo arabo e dall'Urss?
Questo è un argomento forte, ma lo sarebbe ancora di più se tutti gli ebrei che hanno
lasciato l'Unione Sovietica fossero emigrati in Israele. Parecchi invece hanno scelto di
trasferirsi negli Stati Uniti.
Come risponde a chi l'accusa di aver dipinto Israele come uno Stato aggressivo verso i
suoi vicini? Non dimentichiamo che gli arabi per lunghi anni hanno proclamato la loro
volontà di cancellare la cosiddetta "entità sionista" dalla faccia della
terra.
Nella storia le situazioni variano con il tempo. Lo Stato d'Israele può essere
considerato vittima di un'aggressione se si considera quanto avvenne nel 1948. Ma i coloni
sionisti appaiono invece degli intrusi se si guarda al periodo dei primi insediamenti,
quando la Palestina era popolata quasi esclusivamente da arabi musulmani. Non è vero
comunque che io nutra un pregiudizio sfavorevole verso lo Stato ebraico. Al contrario,
capisco benissimo le scelte dei governanti israeliani, anche le più dure. Non mi piace
però la loro tendenza ad assumere posizioni censorie e moralistiche nei confronti di
altri paesi. Non dimentichiamo che nel 1948 i palestinesi furono sottoposti a una vera e
propria pulizia etnica, perché il nuovo Stato non poteva permettersi di avere entro i
suoi confini una minoranza araba troppo consistente.
Sempre nella "Lettera a un amico ebreo", lei esprimeva il timore che
l'insistenza sulla colpa collettiva dell'Europa per l'Olocausto potesse provocare reazioni
antisemite. E' ancora di quel parere?
Non vedo ragioni per modificare il mio punto di vista. Mi preoccupano per esempio le
azione intentate contro banche e compagnie assicurative che incamerarono i beni degli
ebrei perseguitati. A oltre mezzo secolo di distanza, mi sembra abnorme chiamare a pagare
società che hanno cambiato azionisti, amministratori, clienti. E' l'equivalente, sul
piano economico, del principio per cui la Germania e la civiltà cristiana sono sempre
responsabili per l'Olocausto. Ma quando si vuol tenere in eterno sul banco degli accusati
una cultura intera, c'è il rischio che gli interessati finiscano per ribellarsi.
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