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Le radici teologiche dello sterminio


David Bidussa con Antonio Carioti

 

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Quando si è tenuta questa conversazione, era ancora fresca la notizia della sentenza con cui la magistratura di Londra ha dato torto a David Irving, autore di diversi libri sul nazismo, nella causa per diffamazione da lui intentata contro Deborah Lipstadt, la studiosa americana che l'aveva definito "il più pericoloso portavoce del diniego dell'Olocausto". Logico che con il professor David Bidussa, direttore della biblioteca della Fondazione Feltrinelli, partissimo proprio da qui.

Molti hanno espresso soddisfazione per la sconfitta subita da Irving in sede giudiziaria. Ma altri sottolineano che in fondo egli è riuscito nell'intento di far parlare di sé.

Indubbiamente il ritorno pubblicitario ottenuto da Irving è enorme. Dovrà pagare due milioni di sterline, ma per restare tanto tempo sulle prime pagine della stampa internazionale, alla fin fine, è un prezzo conveniente. Tuttavia, rivolgendosi al tribunale, l'autore inglese ha implicitamente ammesso di non essere uno storico, ma soltanto una persona che vuole esprimere e difendere delle opinioni. Uno studioso serio combatte le sue battaglie sul piano del confronto scientifico, non davanti ai giudici.

Però non è la prima causa che si celebra sul tema dell'Olocausto. In Francia il filosofo Roger Garaudy, ex comunista convertito all'Islam, è stato condannato sulla base di una legge che punisce le teorie "negazioniste". Lei è contrario a norme del genere?

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Ben Gurion dichiara la fondazione dello Stato di Israele
il 14 maggio 1948


Io in linea di massima non sono favorevole a stabilire per legge che cosa è vero e che cosa non lo è. Tutto nasce dal fatto che oggi personaggi come Irving cercano di trasformare la loro polemica ideologica in una posizione storiografica, presentandosi come ricercatori spinti solo dal desiderio di accertare la verità. Il problema è che in ambito disciplinare non esistono criteri generalmente accettati per delimitare l'autentica storiografia, quindi si finisce per tentare di fissarli in ambito giuridico, come fa la legge francese cui lei si riferisce. In teoria dovrebbero essere gli storici stessi a vigilare sulla loro materia, ma purtroppo sono incapaci di farlo, per cui un Irving ha vaste possibilità di entrare in questo spazio e usarlo ideologicamente.

D'altronde l'uso politico della storia è una pratica diffusa. Ad esempio lo storico britannico Eric Hobsbawm ritiene che lo Stato d'Israele si sia servito dell'Olocausto come strumento propagandistico.

Nella costruzione degli Stati nazionali è frequente il richiamo al passato come fonte di legittimazione, attraverso un "mito delle origini" più o meno documentato. Entrando nello specifico, mi pare che i fondatori dello Stato ebraico abbiano visto la Shoah soprattutto come effetto della miopia delle masse ebraiche europee, che non si erano sottratte alla persecuzione rifugiandosi in Palestina. Più che un'arma per legittimare la creazione del nuovo Stato, l'Olocausto appariva la controprova della sua necessità, perché se Israele fosse già esistito negli anni Trenta, il genocidio non avrebbe avuto luogo, o almeno non avrebbe assunto dimensioni così spaventose.

Ma se lo sterminio non fosse avvenuto, il sogno sionista si sarebbe mai realizzato?

Certamente il sistema imperiale britannico in Medio Oriente sarebbe comunque crollato. E la contesa tra arabi ed israeliani per il controllo della Palestina si sarebbe sviluppata ugualmente, sia pure in condizioni diverse. Forse un minor numero di ebrei si sarebbe trasferito in quelle terre dall'Europa, ma non va ricordato che, dopo il 1948, la maggioranza degli immigrati giunse in Israele dai paesi musulmani.

Forse però l'osservazione di Hobsbawm riguarda soprattutto l'atteggiamento israeliano verso gli arabi, spesso accomunati ai nazisti per la loro ostilità irriducibile verso lo Stato ebraico.

In questo giudizio c'è molto di vero. L'Olocausto è stato senza dubbio un elemento su cui la cultura politica israeliana ha costruito la sua identità durante il lungo conflitto con i paesi confinanti. Ma l'atteggiamento degli arabi è stato a lungo, e per molti versi resta ancor oggi, altrettanto oltranzista, se non di più. Per decenni in Medio Oriente abbiamo assistito a un confronto tutto ideologico, in cui lo spazio per il dialogo era quasi nullo.

Un altro punto molto discusso è la cosiddetta "unicità" dell'Olocausto. Si tratta davvero di un crimine tanto più grave dei molti altri che hanno costellato il XX secolo?

Senza dubbio la Shoah è un fenomeno comparabile ad altri, ma ha delle caratteristiche peculiari che non si possono sottacere. Faccio un esempio. Lo scorso anno, durante la guerra del Kosovo, il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic è stato presentato come un nazista. Secondo me si tratta di un paragone improprio, perché il leader di Belgrado voleva senza dubbio espellere gli albanesi da quel territorio, ma non annientarli fisicamente. Invece Hitler intendeva eliminare completamente il popolo ebraico e la sua cultura.

Però nel Novecento ci sono stati genocidi ben peggiori della pulizia etnica serba in Kosovo.

D'accordo. Ma il problema non è il numero delle vittime. Voglio dire che anche criminali efferati come Stalin e Pol Pot, per quanto aberranti fossero le loro teorie, ragionavano in termini politici. Ritenevano che il modo più razionale per raggiugere determinati obiettivi fosse la violenza di massa. Invece nella Shoah, a mio avviso, vediamo all'opera una concezione sacrale, metafisica e metastorica, per cui lo sterminio è finalizzato alla purificazione del mondo. Il nazismo infatti non è soltanto un regime totalitario novecentesco, ma un fenomeno con forti componenti religiose, nel quale hanno un peso rilevante concetti elaborati nel tempo da una certa teologia di matrice cristiana.

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Dunque l'Olocausto sarebbe l'approdo finale della secolare ostilità nutrita dalla Chiesa verso gli ebrei?

Non dico questo. Nel nazismo confluirono anche suggestioni di tutt'altro genere, di origine pagana e anticristiana. Ma il modo in cui Hitler elaborò il senso della propria missione nella storia risente senza dubbio di influenze teologiche. Nella sua visione uccidere gli ebrei diventa quasi un atto mistico.

Eppure mi sembra che ci sia una differenza evidente tra l'antigiudaismo religioso, che mira alla conversione degli ebrei, e l'antisemitismo razziale, che persegue il loro annientamento puro e semplice.

Sono convinto che questa distinzione sia fondata. Per secoli la Chiesa si è limitata a emarginare e ghettizzare gli ebrei, cercando al massimo di convertirli. Ma a un certo punto alcuni settori del mondo cristiano (mi guardo bene dal generalizzare) vivono il rovesciamento della società tradizionale, dopo il 1789, come una sfida all'ordine del mondo, che viene sconvolto per opera delle forze del male. Da qui nasce la teoria del complotto massonico e/o giudaico, che si esprime ad esempio negli scritti dell'abate Augustin Barruel sulla rivoluzione francese e poi nel famoso classico della letteratura antisemita, i "Protocolli dei savi anziani di Sion". Si afferma un'interpretazione cospiratoria della modernità, di natura teologica, che ha grande influenza tra il XIX e il XX secolo, fino a riflettersi in maniera evidente nella mentalità e nel linguaggio hitleriano.

Però l'ossessione del complotto è presente anche in altre culture politiche. Stalin scopriva di continuo pretese macchinazioni controrivoluzionarie.

Sì, ma credo che questa dimensione appartenga solo ad alcuni momenti del terrore in Urss, per esempio la fase in cui Stalin, negli ultimi anni della sua vita, era convinto che alcuni "medici assassini" volessero avvelenarlo. Ma in generale il Gulag serve a eliminare gli oppositori o le categorie sociali ritenute ostili al potere sovietico, non a sopprimere un nemico dalle caratteristiche metastoriche.

Torniamo all'attualità. Che cosa pensa del dibattito sulla "giornata della memoria" da istituire per commemorare l'Olocausto? Da destra si chiede che in quella data vengano ricordate anche le vittime di altri massacri.

Alcuni pezzi della storia italiana sono stati vissuti attraverso una memoria di parte. E vicende come le foibe in Venezia Giulia non hanno occupato il posto che meritano nella coscienza civile del paese. Sarebbe tuttavia sbagliato vedere nel giorno della memoria il momento in cui si fa la somma dei morti di tutti. In altri paesi c'è stata un'elaborazione pubblica per cui il ricordo delle vittime, immolate anche per ragioni opposte, è diventato motivo di riflessione sul valore universale della vita. Ma in Italia una simile discussione è assente: quando si commemorano dei morti, ciascuno lo fa in nome delle sue ragioni particolari. Questo vale soprattutto per la destra. Alleanza nazionale ha tutto il diritto di chiedere rispetto per i giovani della Rsi, caduti per una causa sbagliata, ma dovrebbe avere il coraggio di fare i conti con quella causa, distaccandosi dalla propria passionalità di appartenenza.

Quindi lei ritiene che lo "sdoganamento" di An sia stato prematuro?

Dico che a destra persiste l'equivoco per cui rendere omaggio ai fascisti uccisi significa rendere omaggio anche alle loro idee, per quanto si dichiari di non professarle più. Questo significa che intorno a quei morti continua a coagularsi una memoria di parte, invece della riflessione universalistica che sarebbe necessaria. Non è sufficiente, per venirne fuori, votare un documento congressuale, visitare Auschwitz o il sacrario della Shoah di Yad Vashem. Ci vuole un iter culturale di emancipazione dal passato, che passi attraverso una revisione linguistica e comportamentale profonda.

Ma una critica del genere non può essere rivolta anche a gran parte della sinistra?

Senza dubbio. Vaste porzioni della sinistra sono altrettanto in ritardo. Ma nelle atrocità che hanno macchiato la storia d'Italia nel Novecento la sinistra ha molte meno responsabilità della destra, che si è fatta regime per vent'anni e ha conservato per altri cinquanta un'assoluta fedeltà ai simboli, ai gesti, ai riferimenti culturali della dittatura fascista. Non basta un viaggio diuretico dalle parti di Fiuggi per risolvere il problema.

Abbiamo parlato prima dei difficili rapporti tra cristianesimo e mondo ebraico. Come giudica l'atteggiamento del Papa su questo terreno?

Credo che Giovanni Paolo II, chiedendo perdono a Dio per le colpe della Chiesa anche verso gli ebrei, abbia fatto il massimo di apertura possibile per un Pontefice. E ritengo che questa scelta gli sia costata molto. Per mostrarsi all'altezza della sua sfida, il mondo ebraico deve saper cogliere l'occasione per riflettere approfonditamente sulla propria identità. Mi sembra invece un errore pesare le parole di Wojtyla con il bilancino, in modo fiscale, reclamando qualche ulteriore ammissione. Non ha molto senso, per esempio, proseguire la polemica su Pio XII. E' fuori dal mondo pretendere dalla Chiesa la condanna di un Papa. Semmai bisogna chiedere che vengano rese accessibili tutte le fonti archivistiche riguardanti la politica del Vaticano durante la guerra.



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