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Alessandro Gilioli

 

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Alessandro Gilioli, direttore editoriale della DARP e direttore responsabile di Happy Web, è autore, insieme al neuropsichiatra Renato Gilioli, di "Cattivi capi, cattivi colleghi", un approfondito saggio sul tema del mobbing edito da Mondadori.

Il lavoratore che subisce mobbing si trova di solito a lottare da solo contro un gruppo coalizzato: una condizione molto difficile, in cui si rischia facilmente di sbagliare mossa e di peggiorare ulteriormente la propria situazione. C’è chi chiede un trasferimento, chi inoltra una protesta formale, chi cerca un accordo per dimissioni incentivate, chi promuove un'azione legale e chi, semplicemente, si dimette.

Ma lasciare il lavoro è sempre una sconfitta perché l'aggressore resta e la vittima lascia il campo. Anche restare al proprio posto passivi e rassegnati, in balia della situazione, comporta però conseguenze negative sull'equilibrio psichico. La scelta migliore da prendere in considerazione è quella di "restare reagendo", rispondendo cioè agli attacchi del (o dei) mobber.

Prima di tutto il mobbizzato deve tentare di crearsi una base di elementi che potrebbero diventare, un domani, delle prove giuridiche. In questo senso è utile: prendere nota di tutti gli attacchi (verbali e non) con date, luoghi e persone coinvolte; rispondere ai tentativi di violenza in modo calmo, ma altrettanto chiaro e deciso, facendo capire a chi attacca che si è determinati a non accettare soprusi; fare notare all'aggressore e ai testimoni che il comportamento in questione si definisce con un termine specifico e cioè mobbing o molestia morale (un'identificazione che precisa l'azione vessatoria e ne sottolinea la gravità); parlarne con i colleghi di lavoro non partecipi dell'aggressione e che dunque un domani potrebbero testimoniare quanto avvenuto; prendere nota di altre eventuali persone che hanno subito lo stesso comportamento in azienda.

Quando ci si sente pronti per parlare del mobbing ai responsabili dell'azienda, è meglio farlo in modo informale, almeno in un primo tempo. È importante non essere impulsivi e non agire sotto l'effetto della rabbia: se ci si trova in queste condizioni, è il caso di rinviare l'appuntamento. Al momento del colloquio, è consigliabile parlare in presenza di un collega.

Durante il racconto del mobbing subito, è consigliabile non attaccare mai singole persone, ma piuttosto basarsi sui fatti, con la maggiore calma possibile, descrivendoli in dettaglio con date, luoghi e accadimenti precisi; può essere utile richiamarsi al diritto del lavoratore di prestare la sua opera in condizioni di salute non solo fisica, ma anche mentale. Se possibile, è bene apparire comunque positivi e costruttivi, mai lamentosi o queruli.

Se il colloquio con i vertici aziendali non sortisce alcun effetto, a questo punto può divenire necessario uscire allo scoperto: per esempio inoltrando (dopo aver sentito un legale) una nota formale scritta alla direzione, possibilmente documentata da fatti e testimoni.

Altri suggerimenti possono essere utili quando l'azienda ignora o perpetua il mobbing.

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Ad esempio, è bene conservare con cura ogni elemento scritto favorevole, come ad esempio una valutazione positiva sul proprio passato professionale: si potrà farle valere come prova nel caso si sia accusati di inefficienza sul lavoro (evento molto frequente in caso di mobbing). È fondamentale inoltre documentare se gli attuali compiti lavorativi coincidono con quelli concordati. Infatti, se le mansioni vengono ridotte unilateralmente dall’azienda, questo è un importante elemento da far valere in un'eventuale causa.

In alcuni casi può essere molto proficuo chiedere un trasferimento, se la struttura dell'azienda lo permette. Qualche volta il trasferimento è addirittura risolutivo, perché elimina quei conflitti interpersonali degenerati in mobbing. Se la direzione non lo concede, c’'è una possibilità prevista dalla legge: e cioé chiederlo "per motivi di salute" attraverso il medico aziendale (il cosiddetto medico competente previsto dal decreto 626).
Può essere utile anche qualche consiglio per il comportamento in famiglia e con gli amici. Di solito il mobbizzato tende a vergognarsi della propria situazione e a non parlarne con le persone che gli sono vicine. È un atteggiamento dovuto a orgoglio e a pudore, oltre che alla convinzione (tipica di chi subisce mobbing) di non poter essere compreso da nessuno. Ma si tratta di un grave errore, che porta a un ulteriore isolamento affettivo. Parlarne razionalmente con le persone fidate aiuta invece ad acquistare consapevolezza del problema e a reagire contro gli aggressori.

Attenzione però anche all'errore opposto: cioè a parlarne incessantemente con tutti fissandosi maniacalmente sul proprio dramma. Questo tipo di reazione, anch'essa abbastanza frequente, a lungo andare produce insofferenza e stanchezza nelle persone che circondano il mobbizzato, quindi nuova desocializzazione e conflittualità.

Ricorrere per tempo a un supporto psicologico, a un gruppo di auto-aiuto o a un centro specializzato può dunque essere utile anche per evitare le conseguenze negative del mobbing sulle relazioni familiari, amicali e sociali in genere. Due sono le strutture che operano in modo permanente e specifico sul mobbing in Italia, una privata e una pubblica. Quella privata è la "Prima Associazione italiana contro il mobbing e lo stress psico-sociale" (via Tolmino 14, 40134 Bologna, telefono: 051-6148919, fax 051-941926, e-mail: Harald.Ege@iol.it), fondata e diretta da Harald Ege, un ricercatore tedesco da anni residente in Italia che è arrivato al mobbing attraverso lo studio delle relazioni industriali e ha un dottorato di ricerca in psicologia del lavoro. La Prima Associazione opera sul mobbing dedicandosi alla prevenzione della cause scatenanti ma anche offrendo assistenza e sostegno a coloro che ne hanno subito gli effetti. Associarsi a Prima costa 50 mila lire l'anno.

La struttura pubblica che si occupa di mobbing (l'unica in Italia, alla data di pubblicazione di questo libro) è invece il Cdl, Centro per la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione del disadattamento lavorativo, che si trova presso la Clinica del lavoro di Milano (via San Barnaba 8, telefono 02-57992644, fax 02-5454091). Questo Centro è in grado anche di richiedere all'unità sanitaria locale un'ispezione all'interno dell'azienda: uno strumento considerato estremo, da utilizzare solo nei casi in cui non c'è alcuna possibilità di mediazione. Quando infine il lavoratore si rivolge all'autorità giudiziaria per ottenere un risarcimento, il Cdl fornisce una valutazione psichica, indicando l'eventuale presenza di malattie come "lo stress occupazionale da situazione penalizzante", ma non valuta mai il danno in termini percentuali.

Tra l’altro inItalia non esiste ancora alcuna norma specifica che protegga i lavoratori dal mobbing, nonostante i tre progetti di legge presentati alle Camere sia dal Polo sia dal Centrosinistra. Ci si può tuttavia avvalere della legislazione già esistente sulla protezione della salute - anche psichica - garantita dalla Costituzione (articolo 32) secondo la quale la salute è un diritto dell'individuo e un interesse della collettività.Nello specifico, ci sono diverse strade potenzialmente percorribili.

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La più radicale (e la più irta di difficoltà) consiste nel denunciare penalmente gli autori di mobbing in base all'articolo 582 del Codice penale, "lesioni personali", o in base all'articolo 660, " molestie". Ma iniziare una causa penale vuol dire eliminare qualsiasi margine di mediazione pacifica con l'azienda o con i colleghi, porsi in una condizione di ulteriore invivibilità al lavoro e dover aspettare almeno tre quattro anni (tra primo e secondo grado) una sentenza che, allo stato attuale della giurisprudenza, è ancora molto incerta.

L 'opzione legale più concreta e percorribile consiste nel rinunciare all'azione penale per avvalersi piuttosto dell'articolo 2087 del Codice civile, quello che tutela le condizioni di lavoro attribuendo all'imprenditore la responsabilità dei danni che il dipendente subisce svolgendo il suo lavoro per colpa dell'ambiente in cui opera. Secondo questo articolo infatti "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Questa legge impone all'azienda di porre fine alla situazione di mancata tutela e consente al lavoratore di chiedere un risarcimento adeguato al danno subito dalla sua salute.
Il riferimento alla personalità morale, sebbene non contenga alcun riferimento specifico al mobbing, può estendersi alle conseguenze sulla salute psichica della vittima di molestie morali sul posto di lavoro. Particolarmente importante in queste senso è il cosiddetto "danno biologico" ormai entrato a far parte della giurisprudenza italiana. Si tratta del danno alla persona non evidente dal punto di vista fisico ma che riguarda la "vita di relazione", i rapporti affettivi, sessuali, amicali, familiari e sociali in genere. Il danno biologico è stato sancito da una sentenza della Corte Costituzionale, la numero 184 del 14 luglio 1986. Il datore di lavoro è tenuto a indennizzare il lavoratore che ha subito danno biologico, a meno che non riesca a dimostrare di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi "consentiti dall'attuale stato della scienza e della tecnica". L’ accertamento viene effettuato mediante una consulenza tecnica, affidata ad un medico legale.
Tra le altre norme da tenere presenti c'è il citato decreto legislativo 626 del 1994: quello che stabilisce i criteri con cui rendere sicuro e salubre l'ambiente di lavoro anche dal punto di vista psicologico e consente dunque al dipendente di chiedere l'intervento dell'Ispettorato del lavoro per verificare se l'ambiente di lavoro può nuocere alla sua salute psichica. Questo decreto 626 introduce poi nelle maggiori imprese la citata figura del "medico competente", responsabile per legge della salute - anche psichica - dei dipendenti: in questo modo si dovrebbe garantire un controllo delle condizioni dei lavoratori abbastanza capillare (e soprattutto non delegato ai vertici aziendali). Per chiedere l’applicazione della legge 626 ci si può rivolgere direttamente al numero verde del Ministero del Lavoro (800.444.555, senza prefisso) oppure all’Inail (06-54876260)
Ma prima di arruvare a un conflitto legale, la vittima di molestie morali deve sapere che dal momento in cui inizia la causa fino alla sentenza trascorrono diversi anni, durante i quali la vita in azienda, presumibilmente, le sarà resa ancora più difficile. Una volta che si è pronti ad affrontare questo calvario, ci si deve rivolgere a un avvocato con una perizia redatta da un medico (possibilmente un medico del lavoro) che certifichi il rapporto causale tra l'ambiente di lavoro e la malattia. Insomma, per un mobbizzato rivolgersi a un giudice è da considerarsi sempre l'ultima ratio, un provvedimento estremo a cui si ricorre quando non c'è più alcuna possibilità di composizione e di mediazione.



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