Il tramonto dell'istituzione
Intervista a Ernesto Mayz-Vallenilla
Questa intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un'opera
realizzata da Rai-educational in collaborazione con l'Istituto italiano per gli studi
filosofici e con il patrocinio dell'Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del
Segretario Generale del Consiglio d'Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d'espressione e
comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo
svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Oggi si rende sempre più evidente la crisi dell'università. Questa crisi investe
l'università così come oggi è strutturata?
Tutti sappiamo, sospettiamo, avvertiamo che l'università è oggi in crisi, che non
adempie appieno le sue funzioni, che come istituzione presenta vistosi segni di decadenza
e anacronismo. Perché questo' A che cosa si deve il fatto che questo fenomeno di crisi
sia così universale, si manifesti alle più diverse latitudini e su tutti gli orizzonti'
Non si tratta, infatti, solo dell'università latino-americana; il fenomeno di crisi è
presente in tutte le università, compresa, a quanto mi risulta, quella italiana. La tesi
che io voglio sostenere è che si tratta in realtà di una crisi dei suoi stessi
fondamenti, delle sue basi d'appoggio.
Esaminiamo dunque, schematicamente, queste sue basi d'appoggio, questi fondamenti,
e che cosa in essi non è più adeguato alle aspettative o esigenze del nostro tempo.
L'università medievale ebbe origine dalle cosiddette "scholae", aggregazioni
che raggruppavano insieme coloro che si organizzavano in fraternità o corporazioni per
apprendere o insegnare, maestri e discepoli, che potevano essere considerati globalmente
come "universitas magistrorum et scholarium", o separatamente come
"universitas magistrorum" e "universitas scholarium". Bologna e Parigi
nascono rispettivamente la prima come "universitas scholarium", università di
studenti, la seconda come "universitas magistrorum". L'università, com'è noto,
nasce nell'ambito della Chiesa, quale sua egida, quale istituzione che potesse difenderla
e promuoverne gli interessi sia spirituali che temporali. In questo senso, la presenza
della Chiesa all'origine dell'università, fece sì che le sue strutture accademiche, in
conformità ai fini della Chiesa, corrispondessero a una concezione del mondo in cui
dominavano il concetto di verità e un ideale di uomo che costituivano, per così dire,
una totalità il cui fondamento e centro di unità era individuato in un'istanza
trascendente e divina: Dio. Di qui, il posto primario riservato alla teologia
nell'università.
La teologia costituiva dunque il centro degli insegnamenti. Che cosa si insegnava
in queste università?
Sotto la guida degli imperativi della teologia, il sapere totale dell'epoca era diviso in
grammatica, retorica e dialettica, che formavano le cosiddette arti liberali del
"trivium", laddove il "quadrivium" era costituito da aritmetica,
geometria, astronomia e musica. Alle arti reali, si aggiunsero in seguito la medicina e le
scienze naturali, mentre dalla dialettica si distaccò la filosofia, considerata schiava
(ancilla) della teologia. Il ventaglio del sapere fu corrispondentemente organizzato nelle
quattro facoltà classiche: quella di diritto, quella di arti o filosofia, quella di
medicina e quella di teologia.
Esisteva un collegamento tra le diverse facoltà?
Fra queste facoltà esisteva un collegamento e una unità, facendo sì che il sapere
risultasse un universo sistematico, come totalità coerente e unitaria. Ma insieme con
questa caratteristica, l'università medievale rifletteva un altro elemento dell'epoca, e
cioè il suo carattere di istituzione nata nei monasteri: questo, in corrispondenza al
"claustrum", le conferì un certo isolamento, il tratto di realtà racchiusa
entro dei limiti, entro i muri del chiostro del convento, i quali, con una valenza in
qualche modo metaforica, rappresentavano i muri e i limiti della conoscenza. Questo
carattere di istituzione racchiusa entro muri, il cui spazio era a sua volta diviso in
facoltà chiuse le une alle altre, conferì all'università medievale un suo primo tratto
distintivo: quello di essere un'università monadica e sostanzialista. Ogni università
costituiva un'unità chiusa in se stessa, con il suo proprio sapere, e ogni facoltà a sua
volta era chiusa rispetto all'altra. Qui m'interessa mettere in evidenza soprattutto
questo carattere chiuso del sapere in ogni università, e di ogni disciplina all'interno
delle sue facoltà. La medicina non aveva nulla a che fare con il diritto, né con la
teologia; ogni sapere era autonomo. Fra un sapere e l'altro esistevano pareti, muri
divisori. Mi si perdoni il semplicismo dello schema, ma il tempo è tiranno, e quello che
voglio mettere in risalto in prima istanza è appunto questo carattere chiuso, di monade
chiusa, sostanzialista dell'università medievale e del suo sapere. Non esisteva di per
sé sapere interdisciplinare di alcun tipo; ogni sapere era incluso dentro una totalità,
ma rimaneva un sapere separato e diviso dagli altri. E insieme voglio sottolineare il
fatto che tutto dipendeva dal sapere teologico, il quale segnava, per così dire, i
confini del sapere e della sua ricerca.
Quanto a lungo sopravvisse questo modello di università? Fu mai superato sul
serio questo modello atomistico del sapere scientifico?
Di fronte a questo modello di università medievale, che durò praticamente sino alla fine
del secolo XVIII e all'inizio del XIX, nasce un modello completamente diverso, che è
quello dell'università tedesca. L'università tedesca fu un'istituzione sorta per
iniziativa di Federico Guglielmo III, in contrapposizione alle pretese di Napoleone, che,
come vicino della Germania, era impegnato a sua volta a organizzare l'università in
Francia. Il nuovo modello universitario tedesco, fu ispirato e promosso da almeno quattro
opere, ossia dalle idee e dagli scritti pubblicati: da Schelling nel 1803, con il titolo
di "Lezioni sul metodo dello studio accademico"; da Fichte nel 1807, con il
titolo "Piano ragionato per erigere a Berlino un istituto di insegnamento superiore
che sia in connessione appropriata con un'accademia delle scienze"; da Schleiermacher
nel 1808, con il titolo "Riflessioni occasionali sulle università di stampo
tedesco"; e infine, e soprattutto, da Wilhelm von Humboldt nel 1810, con il titolo
"Sull'organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a
Berlino".
Questi autori avevano in comune dei principi che possiamo considerare
l'espressione più avanzata del ripensamento della funzione delle università?
Se c'è qualcosa di comune nella ricchezza di idee di questi quattro pensatori tedeschi,
questo qualcosa è rappresentato da due princìpi fondamentali: in primo luogo,
l'università è immagine o riflesso della scienza, la quale scienza è poi alimentata da
una ricerca senza limiti; in secondo luogo, le istituzioni universitarie, proprio in
quanto immagine della scienza, hanno una finalità puramente scientifica, separata e
distinta dalle applicazioni professionali o pragmatiche del sapere. La scienza, dunque, è
il fondamento dell'università. Ma che cos'è la scienza? Qui sta il problema. Fichte la
concepisce come attività dell'autocoscienza; l'università, quindi, dovrebbe essere
l'espressione concreta dell'autocoscienza senza accettare nessun tipo di meccanizzazione,
di abitudinarietà o di ripetizione nelle conoscenze o nei saperi che si insegnano. Il
piano di Fichte fu respinto dalle autorità. Schleiermacher, che era un po' più
diplomatico di Fichte, proponeva un piano intermedio o di compromesso in cui le scienze
conservavano un'importanza primaria, ma in cui si riconosceva che anche il sapere
professionale, insegnato nelle scuole secondarie, doveva avere un suo spazio e una sua
considerazione. Quando viene affidato a Humboldt il compito di scrivere un progetto per
l'organizzazione delle università, Humboldt inclina più verso Fichte che verso
Schleiermacher, e ritiene che lo specifico di quella che si chiama scienza,
"Wissenschaft", è che questa non deve mai essere considerata come un qualcosa
di già scoperto, ma al contrario come qualcosa che non potrà mai essere scoperto per
intero, e quindi dev'essere oggetto costante di investigazione: l'investigazione, cioè,
appartiene essenzialmente all'università.
Come Humboldt afferma testualmente: "Caratteristica essenziale degli istituti
scientifici superiori dell'università è che non considerano mai la scienza come un
problema definitivamente risolto, e di conseguenza continuano sempre a investigare, al
contrario della scuola, dove si insegnano e si apprendono esclusivamente le conoscenze
acquisite e consacrate". L'università e la scuola, dunque, restano contrapposte; la
scienza si contrappone alla professione. E dev'essere la ricerca, che è l'essenza
dell'università, ad alimentare l'insegnamento. Si deve insegnare solo quello su cui si
investiga: il vero professore deve in primo luogo fare ricerca, e poi deve insegnare ai
suoi discepoli a fare ricerca; ogni professore - si badi bene - non è solo titolare di
una cattedra, ma ha anche un proprio istituto dove fare ricerca su quello che dovrà
insegnare, e deve insegnare ai suoi studenti a investigare. Studiare e investigare
significa fare scienza. E fare scienza in questo modo significa di per se stesso coltivare
la filosofia. Per insegnare a investigare, il professore deve disporre di solitudine e di
libertà. M'interessa a questo punto mettere in risalto schematicamente questa seconda
affermazione: "L'università è l'espressione della scienza, e la scienza va
concepita come investigazione, come un fondamento filosofico".
Passiamo a quello che è il suo orizzonte per nascita, l'America Latina. Come si
configura l'evoluzione delle università in queste terre?
Nell'America Latina l'università, a partire dalla riforma di Cordoba, è identificata
come una repubblica, e una repubblica sovrana. L'autonomia delle università medievali
viene utilizzata per affermare questa concezione dell'università come una repubblica
sovrana all'interno dello stato, i cui cittadini sono i suoi professori, studenti e
impiegati. Come ogni autentica repubblica, l'università dev'essere una repubblica
democratica; il suo governo dev'essere espressione della sovranità del popolo, e il
popolo è costituito dai professori, dagli studenti e anche dagli impiegati, tutti su un
piano di uguaglianza, come si conviene a ogni repubblica democratica. Il governo
dell'università, dunque, dev'essere un governo collettivo.
Come vanno le cose al giorno d'oggi, nel nostro tempo, con l'organizzazione
dell'università, la quale, anche per la sua origine medievale, continua ad essere divisa
in facoltà, in discipline e cattedre, ognuna chiusa nei confronti delle altre?
Ai nostri giorni il sapere è interdisciplinare o transdisciplinare. Ma se vado a studiare
medicina, sono condannato a studiare esclusivamente medicina, mentre il medico attuale non
ha bisogno solo di essere medico, ma dev'essere in qualche modo anche ingegnere,
amministratore, deve conoscere la matematica, l'antropologia, la psicologia. Se ci sono
pareti divisorie tra le facoltà, gli studenti non possono passare da una facoltà
all'altra, ma devono seguire il corso completo della specifica facoltà. D'altronde l'uomo
è una creatura finita, e io non posso essere medico, e insieme essere ingegnere, sapere
di amministrazione, di antropologia, studiare filosofia. E la stessa cosa vale per
qualsiasi altra professione o sapere che si voglia esaminare. I "pensi"
universitari, ossia i programmi formativi, assomigliano a quegli abiti che si vendono nei
negozi degli abiti preconfezionati che non cadono mai a pennello su chi li userà ma gli
stanno sempre o troppo larghi o troppo stretti. Non sarebbe meglio immaginare
un'università in cui ogni studente potesse farsi il suo vestito a misura delle sue
necessità spirituali?
Come si potrebbe dare la possibilità ad ognuno di seguire le proprie inclinazioni
spirituali ? Come potrebbero le attuali università, sempre più burocraticizzate,
realizzare questo ideale propriamente scientifico?
Per far questo, bisognerebbe che fossero abbattuti tutti i muri intrauniversitari. D'altro
canto, se ogni università è una monade, autosufficiente e autonoma, ognuna non può non
avere una propria amministrazione. Almeno nel mio paese, gli impiegati amministrativi sono
molto spesso, anzi quasi senza eccezione, più numerosi dei professori. Posso affermare
senz'altro che il sistema di educazione del mio paese ha più personale amministrativo per
risolvere i problemi di ciascuna delle amministrazioni universitarie, che una qualsiasi
grande multinazionale come la Fiat o la General Motors. Gli stipendi di questi impiegati
amministrativi impegnano una tale quantità di denaro da non lasciare molti fondi
disponibili per curare i problemi propriamente accademici dell'università; non rimane
denaro per comprare attrezzature per i laboratori, libri per le biblioteche, sicché non
possono essere realizzate quelle che sono le funzioni proprie di insegnamento
accademico-istituzionale delle università. Le esigenze amministrative assorbono una
quantità di denaro tale da farne mancare per le finalità essenziali dell'istituzione
accademica. L'unità fra ricerca e insegnamento, postulata da Humboldt, era la migliore
che si potesse dare per un filosofo.
Perchè nell'età di Humboldt l'università potè così comunque riformarsi?
Perché quando l'università di Berlino iniziò la sua attività il totale degli alunni
era di 256, e il totale dei professori era di 54: ogni professore aveva all'incirca cinque
o sei alunni. Era una meraviglia. E che alunni, poi! Andavano all'università per studiare
e trasformarsi in sapienti. Il loro ideale era di diventare sapienti. Quanti sono oggi gli
studenti di un'università come quella di Messico? Si calcola che ci siano 328.000
studenti, e 24.000 professori. L'università di Buenos Aires contava nel 1979 già 189.403
studenti, saliti poi a 461.187 nel 1982, con un corpo docente di 54.240 professori.
Immaginarsi come sia possibile dotare queste varie migliaia di professori di istituti di
ricerca perché svolgano quello che è un loro compito essenziale. E possiamo credere che
queste centinaia di migliaia di studenti vadano all'università animati dal desiderio di
fare scienza e ricerca, o non piuttosto dal bisogno di conseguire un titolo di studio per
esercitare una professione? Bisogna essere realisti, dobbiamo ammettere che gli ideali di
Humboldt sono irrealizzabili. Pensiamo alla ricerca: quanto costa fare ricerca in una
università? Quanto costano gli strumenti per fare vera ricerca in una università? Quanto
denaro serve per questo? Ma supponiamo pure che un'università abbia tutto il denaro
possibile, e pensiamo a un'altra cosa, a un elemento che caratterizza la ricerca
contemporanea, e cioè il suo carattere strategico: strategico per lo stato che la
finanzia, o per l'industria privata che mette a disposizione i fondi per realizzarla. Si
può fare ricerca con le porte aperte nell'università, dove gli studenti entrano ed
escono e possono vedere tutto quello che si fa, possono esaminare quello che si fa, dove
la gente gira liberamente? o non si devono forse prevedere delle restrizioni per fare
autentica ricerca? Sono domande che non si può fare a meno di porsi.
Consideriamo, d'altronde, la realtà posta dall'ipotesi latino-americana, quella cioè di
concepire l'università come una repubblica, come una repubblica democratica.
L'università è davvero una repubblica o è un'accademia? Nell'accademia vige un
principio che non è quello democratico. L'accademia è meritocratica, e nella
meritocrazia non può esserci governo democratico. Tanto meno con la presenza di
impiegati. D'altro canto, è ben noto che quando l'università è pensata come una
repubblica democratica e sovrana dentro lo stato, essa è utilizzata come centro di
sovversione contro lo stesso stato. Ma non di sovversione intellettuale, beninteso, la
quale sarebbe perfettamente legittima e ammissibile, bensì di sovversione armata, come
rifugio di cospiratori e attivisti proprio contro i governi democratici. A ciò si
aggiunga da ultimo la questione del rapporto di scienza e professione nell'università.
Non tutti gli studenti vanno all'università per amore della scienza e per fare ricerca;
anzi, al contrario, è solo una minoranza che ci va con queste intenzioni, mentre la
maggioranza ci va, ed è naturale che sia così, per conseguire un titolo di studio per la
professione, per lavorare e guadagnarsi da vivere. L'università contemporanea né fa bene
la ricerca né fornisce una buona preparazione per la professione. Ne è prova il fatto
che in molti paesi si assiste da una parte alla separazione degli istituti di ricerca
dalle università (si pensi ad esempio al Max-Planck Institut e simili), e dall'altra
parte alle industrie che istituiscono propri centri di formazione professionale, e
preferiscono i diplomati delle proprie scuole piuttosto che quelli formati dalle
università. Ho voluto semplicemente mettere in risalto questi fatti per illustrare che
sono le ipotesi di fondo, le basi fondamentali delle istituzioni universitarie ad essere
in crisi: esse non sono più adeguate alle esigenze del nostro tempo.
Che fare di fronte a questa constatazione? Quale pensa che possa essere il futuro
dell'università?
L'educazione superiore sarà sempre una necessità. Ma anche in Grecia, per esempio,
esisteva l'educazione superiore senza che ci fossero le università; in India e in Cina,
ugualmente, c'è sempre stata l'educazione superiore, anche se non esistevano le
università. L'università è solo uno strumento creato in un determinato momento della
storia per soddisfare le esigenze dell'educazione superiore; se in questo momento essa non
soddisfa più tali esigenze, non rimane che una cosa da fare: è imperativo creare nuove
istituzioni. Non starò a tediarvi esponendovi le mie idee personali su come organizzare
l'educazione superiore; sarebbe troppo lungo, e l'ho consegnato nel mio libro, dove ho
cercato soprattutto di formulare le sfide che il prossimo futuro porrà all'educazione
superiore: l'irruzione della metatecnica. La metatecnica è una nuova modalità della
tecnica, che non è antropomorfica, né antropocentrica, né geocentrica. L'uomo ha creato
strumenti che allargano i confini della razionalità umana. Il che non significa affatto
irrazionalismo o arazionalismo, ma arricchimento e allargamento dei limiti della
razionalità umana mediante strumenti che vanno al di là dell'identificazione della
razionalità umana con il "noeîn" greco. Ma con questo entriamo già in un
terreno molto complesso, e mi limito quindi a segnalare che è da questa base che si deve
partire per avere nuovi indirizzi 1) per sapere che cos'è il sapere, 2) che cos'è
l'apprendere e l'insegnare, e 3) quale idea di uomo e di umanità deve guidare lo sforzo e
la realizzazione dell'educazione superiore.
(Traduzione: Michele Sampaolo)
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