Quello che segue è il testo della
relazione introduttiva al convegno Per una ripresa riformista che si è svolto a Roma l'11
ottobre
Ancora oggi, dopo 10 anni dalla svolta, nel giudizio degli elettori i DS stanno sospesi
tra un "non più" e un "non ancora". Non sono bastate due
"Cose" e non basta la presenza a palazzo Chigi di Massimo DAlema per
consegnare agli elettori e agli stessi militanti un identikit facilmente decifrabile. Lo
stesso giusto richiamo al socialismo europeo non è di grande aiuto: un po perché
di socialismi europei ce ne sono tanti e tra loro assai diversi. Ma soprattutto perché
assomiglia molto al richiamo allEuropa che lItalia ha sempre fatto e continua
a fare: un albero maestro a cui legarsi per resistere alle sirene della sua
"diversità". Ma proprio come gli altri paesi europei continuano a sospettare
che lItalia sia diversa, così gli elettori sospettano che "diversi" siano
ancora i diessini, anche quando la gran maggioranza di loro ha smesso da tempo di volerlo
essere.
Una delle cause di questo stato di cose è stata la mancanza di una discussione
identitaria e programmatica seria in tutti questi anni, come se il partito fosse un
rettile cui bastava sfilare la vecchia pelle comunista per trovarne sotto una
socialdemocratica nuova di zecca. Chi ha coltivato questa illusione né rendeva onore a
quel grande veicolo di identità che è stato il PCI, né comprendeva le difficoltà in
cui si trovano tutti gli eredi del movimento operaio in questo volgere di secolo. Della
nuova pelle, sotto alla vecchia, cerano solo alcuni brandelli e non esiste un
semplice "modello europeo" da ricalcare per le parti mancanti. Proprio come, per
le politiche economiche, è nella storia e nelle istituzioni italiane che dobbiamo trovare
i materiali per innovare, è dalla storia e dalla cultura della sinistra italiana che
dobbiamo partire. E si tratta proprio di partire, non di continuare un cammino in buona
parte percorso. Nellintorno della Svolta, ai tempi della segreteria Occhetto, il
problema era primum vivere e si comprendono le reticenze ad approfondire lo scavo
appena iniziato negli ingenui materiali della Cosa 1, quando lo strappo aveva lacerato
così profondamente il partito. Ma non cerano timori di ulteriori scissioni ai tempi
della Cosa 2, quando si unirono al PDS alcuni eredi delle culture politiche italiane della
sinistra e del centro orientato a sinistra e quando molti di loro (e non pochi
ex-comunisti) avrebbero voluto portare a fondo la discussione sullidentità del
nuovo partito. Lerrore è stato pensare alla Cosa 2 come ad un adempimento
organizzativo che non esigeva scavo e dolore, è stato il tentativo, crediamo non
consapevole, di "farla franca" appoggiandosi al socialismo europeo di cui il
PDS, per largo se non unanime riconoscimento, era già parte (
e poi: basta cogli
esami!).
E impossibile rimediare a questo errore in tempi brevi e nellimminenza di
un congresso dove si dovrà discutere che cosa fare nellultima fase
dellesperienza di governo e che immagine dare di governo e partito, necessariamente
uniti, nelle incombenti scadenze elettorali. Non è solo questione di opportunità: la
continuazione della Cosa 2 (se di questo si tratterà) ha altri tempi e diverse modalità
organizzative, dove la componente didattica, di studio e di ricerca, di forte
coinvolgimento di giovani militanti e di studiosi e intellettuali esterni, deve prevalere
sulla contrapposizione di linee precostituite. Una cosa i riformisti si sentono di
chiedere subito: che il congresso costituisca una commissione con ampli poteri e risorse,
dedicata alla continuazione, allapprofondimento, allestensione a tutto il
partito e soprattutto verso i giovani, della ricerca iniziata con la Svolta e arrestatasi
con la Cosa 2. I lavori di questa commissione si dovranno chiudere con una conferenza
appositamente dedicata al Programma Fondamentale, con una Bad Godesberg aggiornata e
adattata ai nostri tempi e alle circostanze del nostro paese. Questa conferenza si terrà
quando i tempi lo consentiranno e sarà meglio tardi che mai: non averla fatta in passato
continua a lasciare aperte ambiguità ed incertezze che pesano non poco, e lo vedremo in
seguito, sulla discussione di oggi. Oggi però lurgenza è diversa: è quella di
dare del governo e del nostro partito limmagine più coerentemente riformatrice (ed
elettoralmente più attraente) che ci consentono la situazione economico-sociale, le
nostre inadeguatezze passate e lo stato dellattuale coalizione di centro-sinistra.
Per affrontare questa urgenza ci sono vari percorsi possibili e quello che è seguito
in questa relazione non è sicuramente il più efficace per una comunicazione esterna,
verso gli elettori. Ci penseremo dopo: questo è solo il percorso più rapido per chi
conosce i termini essenziali del dibattito in corso, nel nostro partito e nella sinistra
europea. Come da onorata tradizione, la prima parte è un"analisi della
fase": il mondo e il nostro paese sono cambiati e la sinistra deve tenerne conto nei
suoi programmi se vuole risultare egemone culturalmente e vittoriosa in un confronto
elettorale democratico. La seconda parte si riferisce alla storia politica degli anni
90 in Italia e ne mette in rilievo due punti critici: la questione del bipolarismo e
della stabilità delle coalizioni; i problemi che si trovano ad affrontare il governo
DAlema, e, per conseguenza i DS che lo sostengono, fino alle prossime elezioni
politiche. A partire da questa analisi, la terza parte delinea il messaggio che il governo
e il partito dovrebbero trasmettere. Lintero percorso, per essere sviluppato in modo
soddisfacente, richiederebbe una relazione di dimensioni molto ampie. In questo scritto si
procederà in modo schematico, per punti che in parte possono essere integrati dai testi
citati nelle note e nellesposizione orale, ma che soprattutto esigono precedenti
conoscenze e una certa affinità da parte di legge e ascolta.
1. La "fase" internazionale e italiana
L"analisi della fase" non è solo una tradizione onorata: è parte
indispensabile della proposta politica, perché i contrasti tra le principali correnti
della sinistra discendono forse più da diverse valutazioni del contesto economico e
sociale - e dunque dai diversi strumenti concettuali e ideologici adottati per farle - che
non dai valori ultimi che si intendono promuovere. Parlare di valori non è inutile: è
essenziale quando si vuole discriminare tra sinistra e destra ed è utile anche
allinterno della sinistra. In questo caso non è però indispensabile: mentre è
facile distinguere una proposta della sinistra riformista da una della sinistra
tradizionale sulla base di unanalisi della fase, degli strumenti concettuali
adottati, delle "visioni del mondo" che vi stanno dietro, delle misure di
intervento favorite, è molto difficile farlo sulla base di unanalisi dei valori
ultimi, di solito largamente condivisi. Data la brevità di questa relazione e le
competenze dei suoi destinatari, è sembrato opportuno omettere ogni riferimento esplicito
ai valori e riservare largomento ad altra sede.
Per quanto riguarda lanalisi della fase internazionale e italiana, qui è il caso
di sottolinearne soltanto i tratti che fanno differenza dal punto di vista delle reazioni
interne alla sinistra; che differenziano, in particolare, la reazione della sinistra
tradizionale da quella riformista. Lanalisi più convincente della fase di sviluppo
in cui viviamo è quella che sottolinea una forte rottura col modello di crescita della
grande industrializzazione postbellica. La rottura è evidente per tutti gli aspetti
definitori della fase: per il contesto internazionale (globalizzazione e instabilità),
per il regime di politica economica (intolleranza per linflazione e per i
disavanzi), per le trasformazioni strutturali interne ad ogni paese avanzato (nuovo
assetto industriale traente, terziarizzazione). Questa rottura genera un ventaglio di
rischi e di occasioni radicalmente diverso da quello col quale la sinistra si era
confrontata durante la fase della grande industrializzazione (1950-1975, grossomodo) e
vanifica buona parte degli strumenti di intervento che essa aveva adottato, primo fra
tutti la gestione macroeconomica della domanda su base nazionale.
Sullanalisi della fase la sinistra tradizionale è schizofrenica. Da un lato, e
in alcuni suoi esponenti, essa sottolinea ed anzi esaspera limportanza della rottura
strutturale nel modello di sviluppo avvenuta tra la metà e la fine degli anni 70.
Dallaltro, essa avanza talora proposte di intervento (politiche keynesiane
tradizionali) che avrebbero senso solo se tale rottura non ci fosse stata, se i problemi
di disoccupazione, precarietà, aumento delle diseguaglianze che oggi affliggono buona
parte dei paesi sviluppati fossero la semplice conseguenza di politiche macroeconomiche
sbagliate e sostanzialmente reversibili. A parte il fatto che anche in questo caso
linversione delle politiche macro non potrebbe avvenire solo nel nostro paese e
forse neppure soltanto in Europa, se si accetta unanalisi strutturale le politiche
di rilancio della domanda e degli investimenti devono andare necessariamente insieme a (1)
condizioni di rigore fiscale e monetario irreprensibili e a (2) misure di riaggiustamento
e trasformazione delle strutture microeconomiche, al fine di portarle ad una
configurazione profondamente diversa dal passato: una configurazione che consenta loro di
compiere il salto di competitività necessario a sostenere unelevata crescita
economica nel contesto del nuovo modello di sviluppo. Si è cercato di evitare i termini
"flessibilità" e "flessibilizzazione" per il riferimento prevalente
che essi hanno acquisito - il mercato del lavoro - e per sottolineare invece il fatto che
la trasformazione micro deve avvenire in tutti i mercati e in tutte le istituzioni. Ma
sicuramente, per adattarsi a questo nuovo episodio di "distruzione creatrice",
anche i mercati del lavoro e le istituzioni che li regolano devono cambiare, e molto.
Di questa interpretazione strutturale del passaggio di fase possono darsi diverse
formulazioni. La più comune è quella neoclassica, ribadita incessantemente dagli
economisti mainstream, fatta propria dalle organizzazioni economiche e politiche
internazionali, dal Fondo Monetario allOcse, e sostanzialmente adottata dalla stessa
Commissione Europea, anche se in forme meno unilaterali ed esasperate (è il ben noto
"pensiero unico"). Ma esistono anche letture radicali, più vicine alla visione
marxista del modo di produzione o a quella schumpeteriana delle fasi del capitalismo, di
cui la più convincente è forse quella della "Scuola della Regolazione"
francese: poiché Marx e Schumpeter sono di casa in una interpretazione strutturale delle
trasformazioni delleconomia, sarebbe strano che così non fosse. Più significative
per noi sono le conseguenze di politica economica che si possono tirare da interpretazioni
strutturali. Alcune sono estreme, e arrivano allaffermazione di una totale
incompatibilità tra questa fase di sviluppo e le esigenze di coesione sociale che abbiamo
conosciuto nel passato e che i socialisti hanno contribuito a sostenere: di qui
suggerimenti come quello di una radicale riduzione e ridistribuzione del tempo di lavoro o
di una separazione netta tra distribuzione del reddito e contributo lavorativo (reddito di
cittadinanza). Altre, estreme in senso opposto, minimizzano i pericoli sociali di questa
fase di ristrutturazione, predicando una flessibilizzazione senza freni e senza interventi
correttivi. Nessun governo europeo, e sicuramente nessun governo di sinistra, adotta
queste politiche estreme, di un tipo o dellaltro, anche se alcuni hanno introdotto
misure (nei fatti moderatissime) di riduzione del tempo di lavoro o di reddito minimo
garantito. Tutti condividono linterpretazione che le ristrutturazioni micro
necessarie a sostenere la competitività delleconomia vanno fatte; che da queste
discendono le possibilità di crescita economica; che dalla crescita deriva
loccupazione in via diretta o indiretta, nonché la possibilità di interventi a
sostegno della coesione sociale. E ognuno traduce queste convinzioni generali in quelle
misure politiche concrete che la sua storia e la capacità di innovazione dei propri
leader- gli suggerisce e gli consente.

Le "storie" dei paesi europei con i quali solitamente ci confrontiamo
non di rado, ed erroneamente, allo scopo di cercare "modelli"- sono
infatti profondamente diverse, e il testo citato più sopra illustra sommariamente i
caratteri che generano le più evidenti differenze di opportunità, che condizionano la
possibilità e lefficacia dellintervento politico. La "storia"
italiana non è certo una delle più favorevoli, a seguito sia di debolezze antiche (il
Mezzogiorno, linefficienza della PA, la struttura distorta delleconomia), sia
di vincoli dorigine più recente (il debito pubblico, lassetto insoddisfacente
del sistema politico). Questo significa che il nostro paese deve affrontare insieme i
problemi generali della fase e quelli che gli derivano dalle sue peculiari
"debolezze", antiche e recenti: e questo allunga il conto delle trasformazioni
"micro", di natura strutturale, che esso deve intraprendere. Per fortuna -è
merito grande del governo Prodi e di quelli che lo hanno preceduto- il problema macro,
quello della stabilizzazione fiscale e monetaria e dellingresso nellUem, è
stato risolto e, più o meno bene, sono stati impostati un buon numero dei problemi di
adattamento strutturale che il nostro paese deve affrontare: dalle privatizzazioni e
liberalizzazioni allassetto della struttura finanziaria, dal fisco alla pubblica
amministrazione, dal Mezzogiorno al mercato del lavoro, dal sistema previdenziale alla
riforma della sanità e del welfare in generale.
Molte di queste riforme strutturali sono però appena impostate e non tutte impostate
bene; per quasi tutte gli effetti benefici che ne dovrebbero essere la conseguenza (e che
ne sono stati la motivazione) sono ancora lontani dallessere maturi e gli elettori
percepiscono acutamente questo stato di cose. Il compito che attende il governo
DAlema (e i governi successivi) è dunque un compito difficilissimo, forse più
difficile di quello affrontato da Prodi: non la rincorsa di un obiettivo macro ben
definito e di per sé mobilitante, da attuarsi con strumenti fiscali che colpiscono
interessi diffusi; ma una molteplicità apparentemente confusa di obiettivi micro, spesso
in contrasto con interessi concentrati e altamente organizzati, con conseguenze benefiche
che tardano a venire. Solo governi forti, e che riescono a dare agli elettori il senso
complessivo, il disegno dinsieme, della "molteplicità apparentemente
confusa" degli obiettivi di trasformazione strutturale, possono farcela.
Naturalmente, per riuscire a convincere gli elettori, un disegno dinsieme ci deve
essere effettivamente, e devessere gradito alla maggioranza: ci devessere
capacità di comunicazione, ma anche qualcosa di convincente da comunicare. Questo è
il problema politico fondamentale che il governo, la coalizione e soprattutto i DS devono
affrontare nello scorcio di legislatura.
Non è un problema facile. Non è facile non tanto per la capacità di attrazione e di
mobilitazione della destra, quanto per i contrasti interni al centro-sinistra, per la
fatica palese a trovare un accordo su un messaggio coerente, per loscillare tra
innovazione e conservazione, per linfluenza ideologica di una "sinistra
tradizionale" anche maggiore della sua influenza politica diretta, e dunque da
ultimo- perché unimpostazione riformistica di principio non ha acquistato
unegemonia indiscussa tra i DS attraverso un processo di revisione identitaria
condotto sino in fondo. Volendo riassumere i termini essenziali del conflitto: in che cosa
si differenzia lanalisi, e soprattutto la proposta, dei riformisti rispetto a quelle
della sinistra più tradizionale? Come abbiamo appena visto, lanalisi dei riformisti
sottolinea il carattere strutturale dei mutamenti in corso, la loro origine in
comportamenti e decisioni che spesso sfuggono al controllo del potere politico (e
sicuramente a quello del nostro paese) e quindi tende a considerare come irrealistiche
politiche nazionali tendenti a opporvisi frontalmente. I riformisti sono i primi ad
insistere che il governo italiano debba fare tutto ciò che è in suo potere per
contrastare, nelle sedi internazionali rilevanti, sia le tendenze allinstabilità
finanziaria del sistema globale, sia le tendenze a bassi livelli di investimento e di
attività in Europa: ma, ovviamente, questi sforzi possono non aver successo e allora
sarebbe suicida non prenderne atto e non adeguarsi alle linee generali di politica
economica perseguite dagli altri paesi. Tuttavia, anche assecondando una corrente troppo
forte per essere contrastata, i riformisti ritengono che non sia esaurita ogni
possibilità di raggiungere una attuazione soddisfacente dei propri valori e, soprattutto,
sono sicuri di poterlo fare meglio della destra.
Anzitutto, se lanalisi non deve sottovalutare le difficoltà della situazione,
neppure deve nasconderne le potenzialità, specie nel messaggio rivolto agli elettori.
Anche senza arrivare allesaltazione acritica dei "tempi nuovi" che talora
fa capolino nella propaganda del New Labour e della "Terza via", in un
paese come il nostro londata competitiva che proviene dallesterno può aiutare
a smantellare gabbie corporative che hanno soffocato leconomia e la mobilità
sociale per decenni: politiche mirate alla concorrenza, ai consumatori, ai giovani, agli
esclusi troveranno sicuramente resistenze nei produttori (imprese e lavoratori)
maggiormente difesi da barriere monopolistiche, ma possono suscitare maggior sviluppo e
generare un saldo positivo in termini di eguaglianza di opportunità. Qui il discorso dei
riformisti parte molto prima delleconomia, parte da quei problemi di identità la
cui discussione approfondita dovrà attendere tempi migliori: la nuova fase economica ci
costringe infatti ad affrontare una ridefinizione delle nostre gerarchie di valore, dei
nostri fondamentali atteggiamenti ideologici, che crediamo sia benefica. Ci costringe a
pensare non più in termini di classe ma di individui, a spostare laccento sulle
libertà, sia intese come assenza di costrizione (libertà da), sia e soprattutto come
"libertà di", come attribuzione al massimo numero di persone della capacità di
controllare il più possibile il proprio destino, come lotta allesclusione, e dunque
come diffusione di quelle essenziali dotazioni di capitale immateriale (istruzione,
relazioni sociali) sulle quali si basano le "libertà di".
Sutor ne ultra crepidam: questi sono temi il cui approfondimento andrà fatto
nella nostra Bad Godesberg. Torniamo allora alleconomia e rispondiamo ad
unobiezione: se assecondiamo le tendenze dellattuale fase di sviluppo invece
di combatterle, se "spostiamo laccento sulle libertà", non finiremo per
accettare un ventaglio di differenze di reddito più ampio che in passato? Forse. Queste
possono però essere contrastate da politiche rivolte sia a combattere lesclusione
sociale quando si manifesta, sia e soprattutto ad ostacolarne la manifestazione attraverso
un rafforzamento della posizione dei lavoratori nel mercato del lavoro. Le politiche per
listruzione, la formazione professionale, la ricerca, la produttività sono
diventate unossessione per i riformisti europei; una giusta ossessione, perché sono
politiche che cercano di mettere insieme, di rendere compatibili, lobiettivo di
competitività che è imposto da questa fase di sviluppo con lobiettivo di pari
opportunità e di estensione delle capacità effettive di dominare il proprio destino che
è tipico della sinistra. In altre parole. I riformisti cercano di evitare battaglie perse
in partenza o controproducenti in termini degli stessi valori della sinistra: ma non
smettono di combattere, di cercare nel mondo in cui effettivamente vivono il modo di fare
avanzare quei valori.
Secondariamente, qualora le tendenze allinstabilità sistemica dellattuale
fase economica siano tenute sotto controllo e la politica economica europea si stabilizzi
in un indirizzo moderatamente espansivo, va sottolineato che non vi sono limiti esterni
alla crescita dei singoli paesi e delle singole regioni: essa viene a dipendere dalla
capacità competitiva dei sistemi-paese e sistemi-regione, e a governi socialisti spetta
il compito di coordinare lo sforzo competitivo senza che esso comporti forme intollerabili
di precarietà e di esclusione, ed anzi, sviluppando tutte le occasioni di crescita
individuale, di controllo del proprio destino, che questa fase esaltante di sviluppo
tecnologico consente. Questo non significa una resa totale al "pensiero unico",
lignoranza o labbandono delle teorie keynesiane (che buffa questa malintesa
fedeltà a Keynes da parte della sinistra tradizionale, che fino a pochi anni or sono
laveva bollato come pensatore "borghese", quale peraltro lui stesso, e
orgogliosamente, sosteneva di essere!). Oggi, e parzialmente, politiche keynesiane si
possono praticare a livello di Unione. A livello di stati e di regioni le politiche su cui
far leva sono politiche strutturali, volte ad accrescere la competitività del sistema: e
non è necessario essere economisti neo-classici o "pensatori unici" per
arrivarci, poiché ci si arriva comodamente anche partendo da Marx o da Schumpeter.
In terzo luogo e soprattutto, qual è lalternativa? La destra? Anche senza
riferimento ai caratteri peculiari diciamo così- della destra italiana, comè
possibile che la destra senta con la stessa intensità dei socialisti liberali e
riformisti un obiettivo di coesione sociale e di lotta allesclusione? La sinistra
tradizionale? Forse le cose cambieranno in futuro anzi, lo speriamo- ma sinora la
sinistra tradizionale, dentro e fuori il partito, non sembra aver colto sino in fondo
limperativo di competitività e di liberalizzazione che caratterizza questa fase
economica e che bisogna assecondare e disciplinare se si vuole essere forza di governo.
E ancora troppo ancorata ad unidentità che, se non era del tutto vera neppure
in passato, durante il secolo dellindustrializzazione e del socialismo, è
palesemente falsa oggi: sinistra uguale movimento operaio. La nostra speranza che
le cose cambino in futuro non è un semplice auspicio diplomatico. Da un lato essa si
ricollega allesigenza di riprendere la "Svolta", di completare quel
processo di revisione ideologica che la Cosa 2 non è riuscita a far progredire.
Dallaltro essa nasce dalla convinzione che la sinistra non raggiungerà mai la forza
necessaria a governare se si priva delle sue espressioni più radicali. In esse cè
una domanda reale di coerenza con i valori di fondo della nostra tradizione, che però si
mischia con una tendenza alla conservazione delle politiche mediante le quali si intendeva
raggiungerli in passato. Della prima domanda abbiamo più che mai bisogno oggi, in cui la
posizione più comune e più insidiosa non è quella di una sinistra tradizionale che non
si accorge che il mondo è cambiato e dunque che, per parafrasare il Gattopardo, molto
deve cambiare affinché la sinistra rimanga fedele a se stessa; la posizione più comune e
più insidiosa è quella del "tirare a campare", dellevitare posizioni di
principio in nome di ciò che appare "realistico" nel brevissimo termine. Questo
non è riformismo: è opportunismo.
2. Il centro-sinistra negli anni 90 e la situazione attuale
Anche per questo passaggio della relazione dobbiamo rinviare ad un altro testo, in cui
la storia economico-politica di questi anni turbolenti è analizzata con una certa
ampiezza. Di questa storia qui vogliamo mettere in evidenza due aspetti, che sono utili
per chiarire la posizione riformista. Il primo riguarda lassetto del sistema
partitico e il problema delle coalizioni: chiaramente si tratta di una digressione
rispetto ai temi economico-sociali di cui stiamo trattando. Ci è sembrato però
necessario un breve richiamo ad un problema che ha dominato (a volte avvelenato) la
discussione politica di questi anni allinterno del partito e del centro-sinistra
perché è essenziale, ai fini di un successo elettorale, che il partito e lintera
coalizione raggiungano una posizione condivisa, e soprattutto una posizione comprensibile
e gradita a chi ci dovrà giudicare. Il secondo ritorna ai temi economico-sociali, propone
una valutazione dinsieme degli anni 90 dal punto di vista delle percezioni
degli elettori e si interroga in particolare sul ruolo del sindacato.
2.1. Una digressione: partito, coalizione, bipolarismo, riformismo.
Per unanalisi della crisi politica della prima metà degli anni 90 facciamo
di nuovo riferimento al testo menzionato nella nota precedente e alla letteratura che lì
è citata. Qui intendiamo solo riferirci ad una delle sue conseguenze, il problema dei
"poli" o delle coalizioni, e alle due diverse risposte che ad esso sono state
date allinterno del partito, la risposta "ulivista" e quella
"socialdemocratica". La polemica è stata aspra: ma il tempo e i fatti compiuti,
soprattutto le decisioni dei principali leader, stanno ora "risolvendo" il
problema. Sicuramente non nel modo migliore possibile, ma piangere sul latte versato,
dividerci nellimminenza di una prova elettorale su chi aveva ragione e chi aveva
torto, non ci sembra un atteggiamento costruttivo: quella che presentiamo di seguito è
dunque una posizione che forse tutti i DS, e sicuramente i riformisti, possono far
propria.
La posizione degli ulivisti va ricordata nei suoi termini essenziali: che senso ha
impegnarsi nella elaborazione di una nuova identità socialdemocratica o
liberal-socialista italiana quando il partito che da essa viene definito sembra destinato
a rimanere minoritario per lungo tempo ed il compito politico più urgente è quello di
costruire legami ideologici e organizzativi sempre più forti tra i soggetti di una
coalizione di centro sinistra (lUlivo)? Nel futuro prevedibile, infatti, è la
coalizione ad essere dotata non soltanto di "vocazione" maggioritaria, ma anche
di una ragionevole speranza di poterla esercitare, di essere e poter restare forza di
governo. Più a fondo: che senso ha impegnarsi in ambiziose ridefinizioni
dellidentikit dei partiti, quando le vecchie identità erano figlie di un mondo che
non cè più (si pensi solo ai due più grandi partiti della Prima Repubblica, ai
comunisti e ai democristiani) e la nuova devessere costruita (e grossomodo è già
stata raggiunta) attraverso la sintesi di tutte le correnti culturali riformiste delle
diverse tradizioni politiche del nostro paese? Si tratta di una posizione legittima e
condivisibile anche da chi si sente parte della tradizione socialista: sia il
ragionamento sul rapporto tra partito e coalizione in un contesto di alternanza, sia
quello sulla crisi delle vecchie identità partitiche, sul loro debole significato agli
occhi degli elettori e nei confronti della rivoluzione programmatica che la sinistra deve
affrontare, contengono importanti verità, che tali sono rimaste anche se le loro
conseguenze organizzative non si sono attuate.
Ciò che è avvenuto è ben noto. Per la debolezza di chi sosteneva il disegno ulivista
in forma radicale, per la strenua resistenza dei ceti dirigenti dei partiti, per la
capacità di sopravvivenza dei vecchi patrimoni identitari, per lattrazione del
sistema partitico europeo, soprattutto del PSE sulla sinistra e del PPE sul centro, per il
modo in cui la politica ha continuato ad essere organizzata nel corpo minuto del paese,
per il rallentamento della spinta iconoclastica della crisi politica, per
lincompleta auto-sufficienza dellUlivo e la crisi di governo che ne è
seguita,
insomma, per tante buone e cattive ragioni, il disegno di una federazione
stretta (con devoluzione di quote di sovranità) o di un grande Partito Democratico si è
rivelato per ora un disegno non realistico. Di questo va preso atto. Ma va anche preso
atto e i più accorti tra i sostenitori del disegno socialdemocratico ne sono
consapevoli, ammaestrati dalla necessità di mantenere compatta e presentabile la
coalizione che sostiene il governo e di predisporla alle prove elettorali del futuro- che
la coalizione di partiti che costituisce uno dei poli di un sistema politico di alternanza
è qualcosa di profondamente diverso dalle coalizioni della Prima Repubblica. Qualcosa che
va curato con maggior sollecitudine di quanta veniva dedicata alle coalizioni di allora,
che va presentato agli elettori come un insieme il più possibile coerente e attraente in
se stesso: dei due argomenti avanzati dagli ulivisti, questo, strettamente legato alla
logica dellalternanza e di un sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario,
mantiene intatta la sua validità ed è oggi riconosciuto anche da chi respinge per
principio o trova irrealistico laltro argomento, quello della debole attrattiva dei
singoli partiti della coalizione di centro-sinistra e della necessità di fonderli in uno
nuovo.
Se si prendono sul serio i principi di bipolarismo e di alternanza come caratteristiche
di una democrazia compiuta e condizioni di efficacia dellazione del governo; se
siamo tutti daccordo sullorganizzazione del sistema partitico in due blocchi
di centro-sinistra e centro-destra, luno dei quali governa e laltro fa
opposizione e si prepara a governare nel caso che gli elettori così decidano alle
successive elezioni; se tutto questo non è posto in discussione, allora, in presenza di
diversi partiti in entrambi blocchi, il peso strategico che acquistano le
coalizioni discende dagli stessi caratteri definitori del sistema politico che è emerso
dalla crisi degli anni 90. Forse sarebbe preferibile unofferta politica ancor
più semplice, due grandi partiti, al posto di due coalizioni; in assenza di questa,
tuttavia, due coalizioni unite da un programma comune convincente, ragionevolmente
coerenti al loro interno, assistite da forti garanzie politico-costituzionali che la
coalizione di governo rimarrà quella votata dagli elettori per tutto il corso della
legislatura, possono andare (quasi) altrettanto bene. La condizione da ultimo ricordata
disincentivi politico-costituzionali forti contro i "ribaltoni" e dunque
scelta del governo da parte degli elettori e non da parte degli eletti in parlamento e
più volte in corso di legislatura- ci sembra una conseguenza necessaria del principio di
alternanza quando questo si attua attraverso due blocchi o coalizioni, al fine di evitare
defezioni o rimescolamenti parlamentari che sono assai meno probabili quando sono in campo
solo due grandi partiti. A questa condizione se ne può aggiungere unaltra, forse
non necessaria ma difficilmente evitabile in una competizione bipolare nellattuale
stato della comunicazione politica: che la scelta del governo da parte degli elettori va
insieme a quella del capo del governo, che è il candidato premier proposto dalla
coalizione.
Crediamo che su questi principi di organizzazione di un sistema politico democratico
nelle condizioni odierne in Italia ci sia un accordo così ampio allinterno del
partito da non doverli giustificare per esteso: laccordo, per alcuni, è forse più
una conseguenza dellaccettazione dellinevitabile che di una scelta convinta e
di principio, ma comunque esiste ed è sufficiente a passare oltre. Rimangono aperti,
naturalmente, importanti problemi di dettaglio in tema di riforme organizzative,
elettorali e costituzionali, sui quali si possono aprire dissensi anche aspri: è proprio
necessario il maggioritario di collegio ad un disegno di alternanza? A un turno o a due
turni? E come imporre una riforma elettorale che il Parlamento non è in grado di varare:
anche con strumenti referendari? Come si scelgono i candidati, con le primarie?
Semi-presidenzialismo o premierato? E come si sceglie il candidato Premier? E tanti altri
ancora. Ma se cè consenso sui principi di base appena esposti, possiamo accantonare
questo argomento: esso ha avuto in passato un peso anomalo nella discussione interna
rispetto a quelli sulle politiche economiche e sociali- sui quali solitamente un
partito di sinistra si divide, anomalo quanto era anomala la situazione di crisi politica
e istituzionale del nostro paese. Prima, però, dobbiamo sottolineare ancora una volta un
punto che è essenziale allelaborazione di una qualsiasi piattaforma identitaria e
programmatica di partito.
Se non vogliamo rinunciare ad una democrazia dellalternanza e siamo persuasi del
legame stretto tra coalizione e alternanza, abbiamo appena visto che la coalizione
acquista un significato strategico: il candidato Premier deve essere gradito
allintera coalizione, il programma di governo è il programma della coalizione, il
successo o linsuccesso del governo si riverbera su tutti i partiti della coalizione,
i contrasti interni alla coalizione sono dannosi per tutti e le possibilità di
"smarcarsi" sono minime: in questi ultimi caratteri la situazione differisce
radicalmente da quella della Prima Repubblica, dove una crisi di governo solitamente
conduceva, per impossibilità di alternanza, ad una nuova coalizione con pesi diversi tra
gli stessi partiti, e poteva dunque essere conveniente ai partiti che fossero
insoddisfatti del loro "peso" nel precedente governo. In una situazione di
alternanza una crisi della coalizione, se è grave, può condurre alla fine anticipata
della legislatura; se è meno grave, ma comunque ostacola lazione del governo o ne
compromette limmagine agli occhi dei cittadini, essa rischia di condurre la
coalizione alla sconfitta nelle elezioni alla scadenza della legislatura. E in
queste condizioni che ogni singolo partito elabora il proprio messaggio identitario e
prende posizione sui principali problemi di governo: tali condizioni necessariamente
conducono ad un bilanciamento tra differenziazione e convergenza nei messaggi dei singoli
partiti assai diverso da quello che caratterizza coalizioni puramente opportunistiche, in
cui le ragioni dello stare insieme possono venire meno da un momento allaltro.
Insomma, ad un bilanciamento che devessere più simile a quello esistente tra le
correnti di un partito che non a quello delle coalizioni della Prima Repubblica: proprio
come laffinità interna tra gli appartenenti ad una corrente non esclude una
profonda lealtà nei confronti del partito, così anche una forte identità partitica non
deve escludere il sentirsi organicamente parte di una coalizione strategica.
Come riformisti, la necessità di un legame stretto tra le diverse componenti della
coalizione di centro-sinistra non pone problemi particolarmente gravi: la vocazione
"maggioritaria" o "di governo" è uno dei caratteri di fondo dei
socialisti riformisti, per i quali la politica non è pura testimonianza ma tentativo
incessante di raggiungere quella (sempre parziale) realizzazione dei propri ideali che è
possibile nelle circostanze date. Tra queste circostanze vi può essere la necessità di
un accordo con altri soggetti della coalizione. Quando la coalizione è strategica, quando
i soggetti di cui si compone esprimono sensibilità ed interessi presenti
nellelettorato che si vuole raggiungere, il problema politico non è radicalmente
diverso da quello che deve affrontare un partito che si trova nella più fortunata
circostanza di poter rappresentare da solo lintero arco del centro-sinistra:
anchesso deve trovare un compromesso convincente, un compromesso riformista, tra i
suoi ideali e le possibilità concrete di attuarli, tra le esigenze di innovazione e
trasformazione sociale e le resistenze che si incontrano nel soddisfarle. Ci sono vari
motivi per i quali lessere parte di un unico, grande partito di centrosinistra
(senza trattino) differisce dallessere parte di una coalizione e molti sono così
evidenti che non è il caso di passarli in rassegna. Uno, però, devessere reso
esplicito, perché contribuisce a chiarire lo spirito di una posizione politica riformista
.
Si potrebbe pensare che, anche in una coalizione vissuta come esperienza strategica e
di lungo periodo, ogni partito, nellesprimere la propria identità e nel tracciare
il programma di governo che perseguirebbe se non dovesse piegarsi alle esigenze della
coalizione, accentui gli aspetti di differenziazione e di specializzazione rispetto agli
altri partiti, in modo da "coprire" i più diversi segmenti dellelettorato
che la coalizione cerca di attrarre. Anzi, si potrebbe pensare che la possibilità di
differenziazione e specializzazione costituisce uno dei pochi vantaggi di una coalizione
rispetto ad un singolo grande partito. Ne viene di conseguenza che il ruolo dei DS in
questa "divisione del lavoro" sarebbe quello di "coprire" un
elettorato di sinistra, non così tradizionale come quello dei comunisti o così estremo
come quello di Rifondazione, ma comunque nettamente di "sinistra" nel senso
convenzionale di questo termine, lasciando ad altri partiti la rappresentanza del centro
orientato a sinistra: questa, in fondo, è limmagine che tuttora ci trasmettono i
sondaggi sulle percezioni degli elettori. Si tratta di una posizione apparentemente
assennata, ma assai pericolosa per il futuro del partito e un riformista non può che
respingerla. Due sono i motivi. Il primo è che, qualora i DS accettassero questa
"divisione del lavoro", essi si condannerebbero per il futuro prevedibile a
rappresentare un segmento minoritario di quellelettorato che devessere
raggiunto al fine di ottenere la maggioranza e poter governare. Poco male, si potrebbe
obiettare, se cè una coalizione in grado di raggiungere tale scopo: "curando
il nostro giardino" andiamo sul sicuro e creiamo minori tensioni sia al nostro
interno, sia con i partiti alleati.

I riformisti respingono questa obiezione per un secondo e più fondamentale motivo. I
riformisti non vogliono "andare sul sicuro", non vogliono curare solo il vecchio
giardino. La sfida maggioritaria, la sfida di governo, è anzitutto una sfida culturale
che la sinistra deve affrontare in quanto sinistra se non vuol ridursi a forza di
conservazione. Certo, ci si deve sporcare le mani e cè il rischio di allontanarsi
troppo dai propri ideali, di ambire al governo per il solo scopo di raggiungere o
conservare il potere. Ma è un rischio che va affrontato: un partito di sinistra che si
rassegnasse a restare minoritario, che trovasse il contesto in cui deve agire troppo
difficile, troppo compromettente per i propri ideali (o meglio, per i vecchi modi di
perseguirli), che rinunciasse allobiettivo di convincere in qualsiasi circostanza la
maggioranza degli elettori di saper governare in modo più efficace e più giusto della
destra, non sarebbe un partito "politico". Non si vincerà sempre, naturalmente:
ma è essenziale sforzarsi sempre di vincere, traducendo i propri valori di fondo in nuove
proposte al mutare dei contesti in cui gli ideali di eguaglianza, solidarietà e
partecipazione democratica che sono propri della sinistra devono essere attuati: è questo
che stimola una ricerca incessante e genera innovazione. Vocazione maggioritaria,
riformismo, innovazione: sono tre concetti strettamente collegati.
La digressione è finita e di seguito torniamo al tema principale. Per concludere
vorremmo però ribadire i due scopi che la digressione si proponeva. Il primo, sul quale
abbiamo maggiormente insistito, era quello di definire la posizione riformista su un tema
che ha diviso il partito (ulivisti/socialdemocratici) e che continua a creare dissensi e
incomprensioni. Il secondo è altrettanto e forse più importante. Nelle materie
economico-sociali, cruciali per la definizione di una forza di sinistra, dobbiamo certo
sforzarci di definire un messaggio coerente e comprensibile come riformisti; dobbiamo
però anche sapere che, dal punto di vista elettorale, è la coalizione che combatte e non
cè messaggio, per quanto attraente, che convinca gli elettori se questi non hanno
una forte percezione di unità della coalizione, se la vedono come una somma di partiti
incoerenti e rissosi, tra loro e al proprio interno. Come fare per diffondere tale
percezione è al di fuori della portata di questa relazione, ma nella sostanza è molto
semplice: bisogna essere veramente meno incoerenti e rissosi.
2.2. I governi di centro-sinistra e il sindacato.
Se si chiede ad un elettore mediamente informato chi ha governato lItalia negli
anni 90, chi ha gestito la crisi finanziaria e politica e ha portato il nostro paese
nellUnione monetaria, la risposta non può che essere: "il
centro-sinistra". Sarebbe una risposta sostanzialmente corretta: erano di
centro-sinistra gli ultimi governi della prima repubblica, anche se non appoggiati
formalmente dal PDS; sono stati appoggiati dalla sinistra e dai sindacati i governi
tecnici; era di centro-sinistra il governo Prodi e lo è il governo DAlema.
Lunica eccezione è stato il governo Berlusconi, la cui durata, troppo breve, non
consente di attribuirgli alcun merito ma neppure grandi responsabilità. Insomma, i meriti
di ciò che si è fatto e fatto bene, e le responsabilità di ciò che non si è fatto o
fatto male sono interamente nostri. Se poi si richiede allo stesso elettore mediamente
informato che cosè questo centro-sinistra che ha governato lItalia,
senzaltro gli verranno in mente gli ex-comunisti e la parte di sinistra degli
ex-democristiani, forse riuscirà ad indicare il nome di qualche altro piccolo partito,
probabilmente si ricorderà di Bertinotti e dei guai che ha procurato alla coalizione, ma
con probabilità ancor maggiore ricorderà il ruolo straordinario dei sindacati. E siccome
non gli si può chiedere una grande sottigliezza di analisi costituzionale, per lui il
centro sinistra è un amalgama di ex-comunisti, ex-democristani, altri partiti più
piccoli e
sindacati. Di nuovo, non avrebbe tutti i torti, perché non
cè paese in Europa in cui il sindacato ha un peso e una visibilità nelle più
fondamentali decisioni di politiche economico-sociali (e non solo in quelle) più elevati
che in Italia: anche nei (piccoli) paesi di più antica tradizione neo-corporativa, anche
laddove linfluenza sindacale è fortissima, normalmente essa si esercita attraverso
modalità più discrete e di solito è contrastata da contro-poteri politici e burocratici
più forti. E comunque in nessuno degli altri quattro grandi paesi europei, neppure in
Germania, il peso "apparente" del sindacato è paragonabile a quello che ha da
noi.
E opportuno tenere a mente questo "senso comune", questa percezione
rozza della realtà politica, perché è sullo sfondo di esso che avranno luogo le
prossime campagne elettorali, che si scatenerà loffensiva del centro-destra e il
centro-sinistra dovrà elaborare una efficace strategia difensiva (includendo in essa,
naturalmente, sortite offensive: ma è nella logica delle cose che lopposizione
critichi i risultati di governo e le forze di maggioranza li difendano). Una strategia
difensiva efficace è una che riesce a persuadere gli elettori che i risultati ottenuti in
dieci anni di governo del centro-sinistra (comè stato ed è di fatto) e di
metodo concertativo sono stati i migliori possibili date le circostanze, o comunque
migliori di quelli che il centro-destra avrebbe ottenuto. Uno storico futuro
sottoscriverebbe forse il secondo giudizio ("probabilmente migliori della destra),
dando il dovuto peso alla natura effettiva del centro-destra italiano, alle drammatiche
circostanze della crisi finanziaria e politica dellinizio del decennio e soprattutto
allopera straordinaria di risanamento fiscale e finanziario del governo Prodi. Un
elettore comune ha però la memoria corta e il risanamento e lingresso
nellUnione monetaria gli possono sembrare vicende lontane. Gli possono sembrare,
soprattutto, risultati importanti ma strumentali, collegati solo in via indiretta ai
risultati che contano veramente, a quelli più vicini ai suoi interessi e ai suoi ideali.
Il risanamento per fare che cosa? LEuropa per ottenere che cosa? Rimanendo sul piano
delle politiche economico-sociali (molti altri, ovviamente, sono i piani che si
intersecano in un giudizio), le cose che "contano" in via diretta si riducono
poi alle solite tre: (a) la crescita del benessere materiale e delloccupazione, (b)
il grado di soddisfazione che procurano i servizi prestati e le funzioni svolte dal
settore pubblico, (c)una maggiore giustizia sociale. Se il governo (e, in modo
indistinguibile, la coalizione che lo sostiene e in essa il nostro partito) riusciranno a
trasmettere limpressione di aver fatto e di voler fare quanto è possibile per
raggiungere la più elevata soddisfazione di questi tre obiettivi, se riusciranno a legare
insieme e a dare un senso alla "molteplicità apparentemente confusa" di
interventi riformistici di cui dicevamo alla fine della prima parte di questa relazione,
vi saranno buone speranze per una riconferma elettorale del centro-sinistra.
Non si tratta di un compito facile. Dovremmo aver capito passata la sbornia dei
13 governi di sinistra su 15 in Europa- che gli elettorati sono molto mobili e che in essi
non cè alcuna "predisposizione alla sinistra" stabile. Non cè
neppure una stabile "predisposizione alla destra", per fortuna. Anzi, in una
situazione percepita da molti come rischiosa e iper-competitiva, un po di
"sinistra" nel senso convenzionale del termine sembra essere molto gradito: la
sicurezza del posto o quantomeno la presenza di occasioni di lavoro decenti e abbondanti,
la certezza dei "diritti" che si ritiene di aver acquisito, non dispiacciono
agli elettori, e non gli dispiacciono certo la presenza di solide reti di solidarietà e
una giustizia sociale diffusa. Ma, naturalmente, essi vorrebbero anche (botte piena e
moglie ubriaca?) una forte crescita del reddito e del benessere, servizi efficienti,
occasioni abbondanti per perseguire i piani di vita che più li attraggono
e dunque
uneconomia fortemente dinamica, aperta e competitiva: chi li convince, o
razionalmente o mediante abilità mediatica o con un misto delle due modalità di
convinzione, di essere il più adatto a fornire il "pacchetto" desiderato,
vince. Blair e Jospin sono sempre sulla cresta dellonda, anche se le loro ideologie
sembrano essere molto diverse (le politiche effettive lo sono poi molto meno). Schroeder
sta perdendo, una dopo laltra, tutte le elezioni amministrative. Come non vedere che
la differenza principale sta nel "successo", e in sostanza sta nel fatto che
Gran Bretagna e Francia crescono mentre la Germania è in difficoltà?
Anche lItalia, anche il governo di centro-sinistra, sono in difficoltà. Queste
derivano in buona parte dalleredità di un lontano passato, per le quali i governi
degli anni 90 non portano responsabilità: la debolezza competitiva della nostra
industria e dellintero sistema-paese il più grave ostacolo che tuttoggi
incontriamo per sostenere una crescita forte del reddito- non può certo essere imputata a
questi governi. In parte derivano dallassoluta priorità dellobiettivo di
stabilizzazione durante la prima parte del decennio: non è del tutto certo, ma può
essere decorosamente sostenuto che sarebbe stato impossibile attuare una stabilizzazione
fiscale e monetaria di quella portata con costi in termini di sviluppo molto minori di
quelli che si sono verificati (su entrambi questi punti si veda il testo citato nella nota
precedente). In parte ed è la parte cruciale, perché è quella sulla quale
possiamo ancora intervenire nellanno e mezzo che ci resta prima delle elezioni
politiche- le difficoltà derivano dallincertezza e dalla timidezza che il governo
ha manifestato e sta manifestando nellimpostare la "fase due" del suo
programma, quella in cui si è entrati dopo aver raggiunto lobiettivo
dellUnione monetaria. In sostanza, il governo non ha dato e non sta dando
lidea di avere in mente un chiaro progetto di sviluppo, un programma in cui
lunico vincolo a misure di liberalizzazione, di promozione dellefficienza, di
stimolo alla domanda e agli investimenti è quello a cui forze di sinistra non possono
rinunciare pena la perdita della propria identità: una concezione rigorosa e
universalistica della giustizia sociale. Sicuramente il governo è stato un comunicatore
poco capace. Si tratta solo di incapacità di comunicazione? Non crediamo.
A nostro parere si sta pagando cara lassenza di una discussione programmatica ed
identitaria seria nel partito, e in particolare il mancato chiarimento nei rapporti tra un
partito di sinistra e il sindacato. E vengono al pettine alcune tare antiche e più
recenti del movimento operaio italiano. Tra le più antiche, e oggi assai poco
comprensibile, la divisione politica tra le centrali sindacali, una divisione che in
questi ultimi mesi si sta trasformando in aperto conflitto; tra le più recenti il ruolo
anomalo acquisito dal sindacato durante la crisi politica dei primi anni 90, ruolo
assai positivo allora come illustra chiaramente il testo citato- forse troppo esteso
e troppo penetrante oggi. Per questi ed altri motivi, possono manifestarsi contrasti tra
governo e sindacato, e allinterno degli stessi sindacati, che si riverberano in modo
indesiderabile sulla popolarità di un governo che ha fatto della concertazione il metodo
privilegiato di definizione di una gamma amplissima di politiche pubbliche. Per dare un
esempio ben noto: sul cruciale nodo problematico previdenza-welfare è nato in occasione
del Dpef un imbarazzante contrasto tra riformismo desiderabile e riformismo possibile e
anche giornalisti vicini alle nostre posizioni sono arrivati a scrivere commenti di questo
tenore: "E poi, forse, in questo paese bisogna rassegnarsi: il riformismo necessario
deve cedere, spesso, al riformismo possibile. E un peccato. Ma ne sa qualcosa anche
il Berlusconi del 94, e non solo il DAlema del 99." (M. Giannini,
Repubblica, 4 sett.). E difficile presentare agli elettori come grande
raggiungimento una politica cui "bisogna rassegnarsi" e poi Giannini dimentica
di sottolineare la cosa più importante. È vero che i sindacati hanno fatto uno sciopero
generale contro la riforma delle pensioni di anzianità voluta da Berlusconi, proprio come
lhanno minacciato a luglio contro DAlema; ma gli elettori vedono nel sindacato
un pezzo di centro-sinistra e dunque sono predisposti a raffigurare il primo come una
vittima e il secondo, se non reagisce, come un complice. Da un punto di vista elettorale,
ciò fa una certa differenza.
Gran parte dei riformisti provengono dai partiti del movimento operaio; conoscono il
contributo che il sindacato ha dato, nella sua storia, allemancipazione dei
lavoratori e alla causa della democrazia e, in particolare e recentemente, al risanamento
delleconomia italiana; sono convinti che un contributo grande potrà darlo nel
futuro, anche in forme oggi difficilmente prevedibili, e non sono certo tra coloro che
preconizzano la prossima estinzione del sindacato. Sono anche consapevoli che oggi, in
Italia e in alcuni altri paesi dellEuropa continentale, il sindacato è un pezzo
essenziale della sinistra così come si è configurata storicamente, come movimento
operaio e socialista. In molti altri paesi le cose stanno già diversamente e in futuro
saranno probabilmente diverse anche nei paesi dellEuropa continentale. Ma oggi, da
noi, stanno così e la percezione di senso comune del centro-sinistra che più sopra
abbiamo descritto può essere influenzata in termini valutativi, non ribaltata in termini
di fatto. Per influenzarla e correggerla, tuttavia, un governo ed un partito riformisti
devono dare limpressione di saper resistere a domande sindacali che gran parte
dellopinione pubblica trova ingiustificate sotto il profilo dellinteresse
collettivo, se di fatto lo sono. Devono dare limpressione che la definizione
dellinteresse pubblico e le politiche che ne conseguono sono interamente nelle mani
dellautorità politica.
Abbiamo voluto dare un particolare rilievo a questo problema perché si tratta di un
problema importante, dalla cui soluzione dipende il futuro della concertazione e la stessa
sopravvivenza di un governo che ne ha fatto lo strumento centrale di definizione delle
politiche pubbliche. I riformisti non sono affetti da "cretinismo parlamentare"
e non sono innamorati di un modello puro di stato liberale che non è mai esistito nei
fatti e al quale certo non possono essere ricondotti i grandi stati democratici del
continente europeo nella loro esperienza postbellica. Se si fa concertazione, il governo e
il parlamento non si spogliano affatto dei loro poteri costituzionali, non li spartiscono
con soggetti privati, ma, anzi, disciplinano il rapporto con le grandi organizzazioni
dinteresse in modo più trasparente e accountable di quanto avveniva durante
la fase consociativa della Prima Repubblica, nelle stanze dei ministeri e nelle aule delle
commissioni parlamentari. Il problema è se il metodo funziona e se serve
allinteresse pubblico. Nella prima parte degli anni 90, nella fase acuta della
crisi politica e finanziaria, quando il problema era sostanzialmente quello della politica
dei redditi, il metodo ha funzionato. Oggi manifesta chiari sintomi di logoramento.
Anzitutto il numero dei soggetti della concertazione si è troppo esteso (32
organizzazioni di interesse, senza contare i soggetti istituzionali, per il "patto di
Natale") e si è troppo ampliata la gamma delle politiche che il governo mette sul
tavolo: in questa situazione il rischio che la concertazione perda trasparenza, complichi
la vita al governo invece di semplificarla, diventa sempre più grande. Secondariamente,
il conflitto tra i due grandi sindacati fa male presagire per il futuro. La concertazione
funziona se cè un unico sindacato o almeno se i sindacati fanno una politica
comune: se persino i confederali si spaccano, in un contesto in cui il sindacalismo non
confederale cresce di peso ed è sempre più insofferente a discipline
"concertate", è difficile capire quale sia il vantaggio, per il governo, di
procedere per via di accordi invece di lasciare la disciplina del lavoro a regole generali
e allautonomia delle parti. In terzo luogo, e soprattutto, il ruolo del governo
allinterno della concertazione si è venuto via via appannando. Dal punto di vista
dellinteresse pubblico la concertazione funziona bene se il governo è un soggetto
forte (relativamente, quantomeno), se riesce a far prevalere sia pure in un contesto
di accordo e di scambio- discipline che chiaramente corrispondono allinteresse
generale. Episodi come quello del Dpef sono preoccupanti, al di là del giudizio
sullargomento specifico delle pensioni di anzianità, perché hanno rivelato
improvvisazione e debolezza da parte del governo e hanno esposto la posizione sindacale
come irrigidimento corporativo. Sia che il governo concordi con il nostro giudizio di
crisi della concertazione, sia che dissenta, è comunque essenziale che nei "500
giorni" esso recuperi la sua credibilità e dimostri la coincidenza
collinteresse pubblico delle soluzioni adottate mediante il metodo concertativo.
3. Un programma economico-sociale riformista
è ovviamente impossibile illustrarlo in modo compiuto in questa relazione.
Innanzitutto andrebbe inserito in un programma complessivo, perché è solo questo che
può fornire la visione dinsieme dei riformisti, quella concezione social-liberale
che dovrebbe costituire il collante della coalizione di centro(-)sinistra.
Secondariamente, trattandosi di materie complicate e su cui è del tutto legittimo avere
opinioni diverse, non possono bastare le poche affermazioni apodittiche cui ci limiteremo.
In terzo luogo, non riusciremo neppure a coprire lintero spettro delle politiche
economico-sociali e saremo molto selettivi: in sostanza, tratteremo soltanto di
macroeconomia; di politiche strutturali riguardanti il lavoro, il capitale, i
prodotti-servizi; dellistruzione; dei compiti e della riorganizzazione del settore
pubblico; del welfare. Lo scopo di questa parte della relazione è solo quello di
dare unidea degli orientamenti fondamentali della sinistra riformista
contrastandoli, implicitamente o esplicitamente, con quelli della sinistra tradizionale.
Prima di entrare nel merito, qualsiasi programma riformista (e specialmente un programma
da 500 giorni) deve affermare due punti generalissimi.
Il primo riguarda gli obiettivi finali, limmagine dellItalia che i
riformisti si pongono come "oggetto del desiderio", che le politiche da essi
definite vorrebbero promuovere: unItalia competitiva, unItalia giusta e
solidale. (i) UnItalia competitiva. Da un lato si tratta di un obiettivo
strumentale e che (in parte) ci è imposto dallesterno, dalla fase capitalistica che
abbiamo prima analizzato: solo unItalia competitiva è in grado di produrre crescita
economica e dunque, da un lato, occupazione in via diretta, dallaltro risorse
pubbliche con cui perseguire tutte le principali finalità di politica economica e
sociale. Abbiamo però già visto che sarebbe sbagliato porre questo obiettivo in modo
solo o anche prevalentemente strumentale: diventare più competitivi, oggi, significa
soprattutto promuovere il merito e liniziativa individuali, le libertà
"da" e le libertà "di". Questi sono obiettivi in se stessi per chi
vuole sottolineare oggi lorigine liberale della tradizione bicentenaria della
sinistra moderna. Obiettivi che un partito di sinistra, in un paese così profondamente
illiberale e in questa fase economica, deve rivendicare con forza. (ii) UnItalia
giusta e solidale. Si tratta dellobiettivo più consueto della sinistra socialista e
cattolica, ma gli accenti potrebbero essere meno consueti: meno sullassistenza e
più sul lavoro, molto sui diritti ma molto anche sui doveri, e soprattutto una forte
intolleranza per le rendite, le sperequazioni, le ingiustizie. Non si tratta di acqua
fresca e i singoli punti programmatici dovrebbero mostrarlo con chiarezza: è il disegno
di unItalia del lavoro, che esclude orizzonti malthusiani (35 ore?) o
assistenzialistici (redditi di cittadinanza?), che si basa su una concezione di
"meriti e bisogni", di giustizia, di distinzione tra responsabilità individuali
e sociali (tough on crime, tough on the causes of crime, è uno slogan del
programma elettorale del New Labour che rende lidea, anche se riguarda un
campo di intervento al di fuori di questa relazione), per fortuna largamente diffusa e che
può facilmente essere sviluppata dalla sinistra.
Il secondo punto riguarda la natura, i tempi e lorizzonte del programma. Che
esistano importanti scadenze elettorali è evidente è lo è altrettanto che il programma
debba avere ricadute entro i 500 giorni, soprattutto in termini di sviluppo e occupazione.
Ma, anzitutto, è essenziale che si identifichino meriti e responsabilità del passato, e
i vincoli che il passato impone sullazione del presente: in un messaggio elettorale
riuscire a moderare le domande è altrettanto importante che fare promesse, e dunque
bisogna convincere gli elettori che alcune promesse sono irrealistiche o demagogiche.
Bisogna far capire che quanto è stato fatto dai governi di centro-sinistra è stato
positivo e straordinario, se si tien conto della situazione di partenza. Bisogna far
capire che raggiungere i nostri obiettivi futuri è compito di difficoltà mostruosa,
assai maggiore di quello che abbiamo assolto nella prima fase della legislatura: un
compito per il quale alcuni strumenti non sono in mano nostra e quelli che lo sono devono
incidere su storture antiche e profonde, difese da interessi potenti. Secondariamente, un
programma-identikit ha un orizzonte più lungo di 500 giorni: in un tempo così breve si
fa quello che è possibile, purché non ci siano deviazioni troppo evidenti rispetto a
ciò che è necessario. Il programma deve legare insieme e dare un senso (se ci riesce)
alla "moltitudine apparentemente confusa" degli interventi in atto e derivare da
principi semplici e facilmente comunicabili gli interventi programmati per il futuro,
anche dopo i 500 giorni, se ci sarà ancora un governo di centro-sinistra.
3.1. La sgradevole aritmetica dei bilanci pubblici
Abbiamo già ricordato che nel nuovo contesto di moneta unica e di patti di stabilità
il nostro paese non è in grado di utilizzare i principali strumenti macroeconomici ai
fini di una maggior crescita delloccupazione e del reddito. Abbiamo anche espresso
un certo scetticismo sul rimpianto diffuso (e non solo a sinistra!) dei tempi in cui essi
erano utilizzabili: scetticismo che non deriva soltanto dalluso che ne abbiamo fatto
in passato, ma dalla stessa possibilità di usarli in futuro anche se non avessimo aderito
allUem. LUnione, naturalmente, è libera di usarli, e lItalia può avere
uninfluenza sulle sue decisioni, se non la compromette mediante indisciplina,
ritardi ed altri comportamenti erronei: una politica monetaria ed una politica fiscale
genuinamente europee sono tutte da costruire e sta anche a noi fare in modo che abbiano
una connotazione espansiva. Il punto di fondo (e che vale per riformisti e
tradizionalisti, destra e sinistra, insomma per tutti) è però che crescita, occupazione
e giustizia sociale vengono oggi a dipendere fondamentalmente da misure strutturali e
microeconomiche, sia che queste consistano esclusivamente in interventi regolativi, sia
che, come quasi sempre avviene, esse implichino anche modifiche nelle voci dei bilanci
pubblici. I bilanci pubblici costituiscono dunque larena nella quale si confrontano
gli interventi strutturali di natura non esclusivamente regolativa: più
allistruzione, meno ai trasporti; più allassistenza, meno alla previdenza
(gli esempi, naturalmente, sono puramente illustrativi: se mi si consente una battuta,
tutti noi vogliamo dare molti quattrini ai trasporti Fiat e Ferrovie- e alle
pensioni, soprattutto a quelle di anzianità).
La "sgradevole aritmetica" sta tutta qui, ed in una comunicazione
politico-elettorale (o nella discussione interna al centro-sinistra) i riformisti seri la
devono sempre opporre a chi propone interventi settoriali, in sé anche condivisibili, ma
che non tengono conto delle ripercussioni sullinsieme. Il ragionamento,
semplicissimo, che devessere opposto ai settorialisti è grossomodo questo. Il
nostro paese deve spremere dal suo bilancio pubblico un avanzo primario una
differenza tra entrate e spese al netto degli interessi- di dimensioni nettamente
superiori a quelle di gran parte degli altri paesi europei, date le dimensioni del suo
debito e limpegno in sede Ue a ricondurre il rapporto Debito/Pil alla soglia del 60%
entro tempi concordati e comunque solleciti. Esiste qualche margine di elasticità che
già abbiamo sfruttato, ma gli ordini di grandezza non possono variare di molto: è nel
nostro stesso interesse impegnarci a fondo in questo compito, sia per rafforzare
limmagine del nostro paese nei confronti dei mercati internazionali e
dellUnione, sia e soprattutto per ridurre le ripercussioni negative sul bilancio di
un rialzo eventuale dei tassi di interesse (un raffreddore per gli altri è una polmonite
per noi, data lentità del nostro debito). Con un 4.5 - 5.5% di avanzo primario i
margini di manovra sono stretti: le "cose positive" che dal bilancio pretendiamo
(per esempio: un aumento delle spese di investimento e più in generale delle spese per lo
sviluppo, unespansione delle spese di welfare, un contenimento della pressione
fiscale) non possono che provenire dalla riduzione di altra spesa corrente, riduzione alla
quale, capitolo per capitolo, gli interessati si opporranno in modo feroce giudicando tale
spesa almeno altrettanto "positiva" delle voci che si intendono espandere.
Questo avviene, naturalmente, per i grandi capitoli che abbiamo ricordato e per i
sotto-capitoli in cui si possono suddividere, giù giù sino ai singoli provvedimenti: è
il ben noto scenario della legge finanziaria. Ed è qui che si manifesta la
"sgradevole aritmetica" e si misura con mano la chiarezza di idee e la forza
politica del governo.
Se si vuole contenere e poi ridurre la pressione fiscale, se si vuole invertire la
tendenza al degrado delle infrastrutture pubbliche, se si vuole estendere in modo
universalistico (e dunque a soggetti che ora ne sono esclusi) un decente sistema di welfare,
se si vuole un grande balzo in avanti nellistruzione e nella formazione
professionale, altre voci di spesa devono ridursi: e lunica che può cedere in
termini percentuali risorse rilevanti senza un grave danno per la collettività o lesioni
gravi ai principi di giustizia sociale è quella della previdenza pubblica. Noi crediamo
che non si scappi da questa alternativa, che riprenderemo e giustificheremo parlando del welfare.
Ma anche se non si convenisse con questa affermazione, se lelenco delle voci da
contrarre e di quelle da espandere fosse diverso, comunque un governo riformista dovrebbe
illustrare con chiarezza ai cittadini larchitettura finanziaria elementare delle sue
scelte, il suo disegno di lungo periodo, le sue priorità. Non tutte le riforme hanno
ripercussioni su entrate e spese; ma molte le hanno e per queste assumere impegni di
bilancio per il lungo periodo è solo questione di serietà.
3.2. Istruzione, formazione, ricerca
Questo è il tema cui dovrebbe essere data la massima evidenza: sia dal punto di vista
della competitività del sistema-paese, sia da quello della giustizia sociale e
delluguaglianza di opportunità, listruzione è il tema centrale di un
messaggio riformista. Se il sistema scuola non funziona, e da entrambi i punti di vista,
lintero impianto riformista, un impianto che accetta limperativo della
flessibilità, viene compromesso: viene compromesso perché la scuola non serve allo
sviluppo e alloccupazione e viene compromesso perché non corrisponde ai valori
della sinistra La filosofia delle riforme Berlinguer è condivisibile e si dovrebbe
prendere posizione in dettaglio su alcuni punti critici: autonomia, pubblico e privato,
risorse. Lidea di fondo è che lo stato dovrebbe gradualmente cambiar ruolo: da
esclusivo provveditore del servizio in controllore, e controllore molto esigente, (a)
della qualità dei servizi resi da soggetti pubblici e privati sempre più autonomi; (b)
della capacità dellistruzione di contribuire alluguaglianza di opportunità,
e dunque di non ricalcare in modo passivo le stratificazioni sociali esistenti. Questo
mutamento di ruolo, che corrisponde allincremento di complessità del sistema e a
domande politiche cui occorre rispondere positivamente, è unoperazione di
ingegneria istituzionale di complessità estrema. Esso esige risorse abbondanti, chiarezza
di idee, perseveranza sulle stesse, tempi lunghi (e già cè contrasto tra i due
ultimi requisiti, ammesso che i primi siano soddisfatti: i tempi lunghi possono implicare
cambi di maggioranza e allora è difficile ipotizzare perseveranza sulle stesse ipotesi di
riforma, se il problema scuola non è tenuto fuori da una logica puramente partisan).
Forse le contrastanti ipotesi politiche potrebbero essere avvicinate se venisse
eliminato il sospetto che la sinistra pretende una scuola di alta qualità per tutti,
pretesa impossibile che copre, secondo i sospettosi, leffettivo labbandono
dellalta qualità. A nostro avviso la sinistra dovrebbe francamente riconoscere che
la scuola, nellultimo ciclo e nelluniversità, ha una componente selettiva non
solo inevitabile, ma anche utile e giusta. Giusta perché solo se la scuola segnala e
sviluppa le capacità degli allievi può svolgere quel ruolo di promozione sociale che
vogliamo essa svolga. Comè ben noto, e risulta da tutte le indagini comparative, la
strada della promozione sociale tramite la scuola è una strada in salita: in quasi tutti
i paesi la coincidenza tra risultati scolastici e stratificazione sociale è molto
elevata. Ma è altrettanto noto che non è mediante labbandono della selettività e
della meritocrazia che si risolve il problema e che altre vie devono essere tentate: da
sistemi generosi di borse di studio concesse in età molto precoci (ai "capaci e
meritevoli", perché no?), a percorsi che consentano sempre il passaggio tra diversi
ordini di scuole, ad una particolare formazione dei docenti affinché sappiano discernere
le capacità latenti degli allievi e si adattino alle loro esigenze di formazione. E siano
poi premiati per questo: è di questi giorni la proposta di Gordon Brown, il Cancelliere
dello Scacchiere laburista, di un sistema incentivante che giunge a raddoppiare lo
stipendio del docente se la sua classe, nellarco temporale del suo insegnamento,
migliora in modo significativo i propri risultati. Rispetto ai sistemi di distribuzione
degli incentivi in uso nel nostro sistema pubblico, si tratta di una prospettiva quasi
rivoluzionaria.
3.3. La "grande transizione" delleconomia italiana.
Per il nostro paese, il passaggio degli anni 90 non è soltanto quel periodo di
adattamento alla nuova fase di sviluppo che affrontano anche le altre economie: per il
contrasto tra le esigenze di adattamento e le regole e gli assetti che si erano
stabilizzati negli anni 70 e 80, si tratta di una transizione quasi
rivoluzionaria. Alla fine degli anni 80 leconomia italiana presentava un
ritardo di regole e di assetti che era unico tra i paesi economicamente avanzati: una
grande industria pubblica in crisi profonda, poche grandi aziende private a controllo
prevalentemente familiare, una miriade di microimprese, un sistema bancario e finanziario
arretrato e ingessato, regole da terzo mondo per il controllo ed il trasferimento di
proprietà delle imprese. Cominciava appena ad affermarsi una debole tutela della
concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi e le regole del mercato del lavoro
erano ancora quelle dello Statuto dei lavoratori, costruite, allapogeo
dellindustrializzazione fordista e dei sindacati dellindustria, avendo in
mente la situazione tipica delloperaio di massa nella grande impresa industriale. Se
si ha in mente questa situazione, e la vischiosità dei processi storici, quanto si è
fatto dopo di allora è quasi rivoluzionario: è ovviamente assurdo parlare di
"de-sovietizzazione" delleconomia italiana, ma è unassurdità che
esaspera un aspetto reale del processo di transizione. Come tutti i processi reali questo
avviene sotto il segno del caso e della necessità: la necessità impellente di
privatizzare, liberalizzare, ri-regolare al fine di sopravvivere nella nuova fase di
sviluppo; ma anche il caso, perché non cè nessun regista che tenga in mano i fili
del cambiamento, o meglio ce ne sono tanti, si intralciano a vicenda e mutano
vorticosamente. Il polverone è ancora alto: le regole sono cambiate, talora in modo
soddisfacente, talora no, ma gli assetti sono ancora ben lontani dallessersi
stabilizzati, come eventi recentissimi ci hanno segnalato. Il modo migliore di esprimere
il punto di vista riformista è quello di passare in rassegna telegraficamente i tre
grandi mercati.
(a)Capitali. La transizione è in pieno corso, sia per quanto riguarda le
regole, sia e soprattutto per quanto riguarda gli assetti. Conosce però ostacoli e
battute darresto, anche per le regole (es., criticare alcuni aspetti della legge
sulle fondazioni bancarie, che lascia ancora il controllo delle banche nelle mani dei
politici locali). Ribadire il punto fondamentale. Anche nei paesi più
"liberali", il governo e la politica non possono liberarsi da decisioni
discrezionali che riguardano la struttura delleconomia: tuttavia, e soprattutto
da noi, più è ridotta questarea di interferenza e discrezionalità, meglio è.
Oggi siamo in un momento di transizione, e larea di interferenza e discrezionalità
è ancora, e necessariamente, molto ampia. La tensione per portarla al minimo, per
privatizzare quanto è possibile in un contesto di regole certe, devessere
fortissima, anche a costo di "spezzatini" e anche se ciò comportasse cessioni
di controllo a capitali stranieri. Se sopra il processo di transizione, a partire dalla
fine degli anni 80, ci fosse stato un unico e onnipotente regista, si sarebbe dovuto
cominciare dal mercato dei capitali, dai fondi di investimento e soprattutto dai fondi
pensione oltre che dalle banche, in previsione del grande deflusso di risparmio dai titoli
di stato e del grande afflusso di azioni delle società da privatizzare. Ma oltre al
grande regista ci dovevano anche essere stuoli di managers competenti e di grandi
capitalisti italiani disposti a rischiare molto e in proprio, e capaci di entrare in
settori che erano stati una riserva dellindustria e della finanza di stato.
Chiaramente non cerano: nonostante le svendite, alcune ai limiti dello scandalo, la
situazione è quella che la stampa ci mette sotto gli occhi ogni giorno. E per
questo, e per evitare concentrazioni di potere intollerabili, che diciamo "ben venga
lo straniero". Lidea dei campioni nazionali è priva di senso e farebbe male il
governo se la perseguisse. Il compito di uno stato è oggi di svolgere al meglio il suo
compito proprio: che è quello di creare regole, risorse ambientali, competenze di lavoro
e di ricerca abbondanti e di qualità eccellente. Gli investimenti esteri, e proprio
quelli più sofisticati, cercano queste condizioni, che chiaramente non trovano in Italia.
(b)Prodotti e servizi. Qui si tratta di seguire le indicazioni
dellAntitrust, e di procedere colle liberalizzazioni
esempi (ordini
professionali, etc). Possibili contrasti tra liberalizzazione e privatizzazione quando si
devono vendere imprese monopolistiche: nel dubbio, anteporre la liberalizzazione anche se
riduce i valori di mercato.
(c)Lavoro. La difesa va attuata sul mercato, e non ponendo vincoli al mercato,
quando ci sia (e non cè ancora) un sistema di ammortizzatori e di formazione
professionale decente. Il vero nostro problema è che abbiamo uneconomia con livelli
di produttività (per settori e regioni) estremamente differenziati, con una lunghissima
coda che non è in grado di pagare i salari e gli oneri sociali legali e contrattuali e di
offrire le tutele del contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. In questa
situazione discipline uniformi (al di là di zoccoli minimi) non funzionano: se si danno
tutele troppo elevate o troppo rigide non cè sviluppo delloccupazione oppure
loccupazione si fa in nero. Critica ad alcune leggi e proposte di legge (Interinale,
Rappresentanza, Lavori atipici, sciopero nei servizi pubblici,...) e
allatteggiamento sindacale. Rischio che si debba concedere in ritardo e senza merito
ciò che si sarebbe potuto offrire prima, guadagnando consenso e posti di lavoro. La
sinistra tradizionale e il sindacato oppongono largomento: se ci sono investimenti
in settori avanzati, se si fa una politica industriale degna di questo nome, se si
costruisce una formazione di alta qualità, si verrebbero a creare condizioni nelle quali
limpresa è perfettamente in grado di concedere tutele elevate e spesso nel suo
interesse, per non perdere lavoratori di alta qualificazione. Questa è la via da seguire,
la via alta, perché la via bassa, quella della flessibilità, è una via perdente, che ci
espone alla concorrenza dei paesi a bassi salari. Purtroppo è un argomento erroneo.
Anzitutto, anche in paesi molto più omogenei e avanzati del nostro, la fase di sviluppo
in cui siamo entrati, lenorme crescita del terziario, generano situazioni di
fortissima eterogeneità. Nel nostro, leterogeneità nelle condizioni territoriali
aggrava fortemente una situazione che è già tipica della fase. E poi ovvio che
bisogna sforzarsi di stimolare la "via alta", di spostare il massimo numero di
lavoratori da settori bassi a settori alti: ma questo prende tempo e intanto la botte dà
il vino che ha. E lidea che lo stato (cioè i nostri politici), nella loro
benevolenza e onniscienza, siano in grado di trovare scorciatoie efficaci a questo
processo, che abbandonino la paziente e indiretta politica dei fattori (creare le
condizioni ambientali) per una più ambiziosa politica dei settori (trovare i campioni
vincenti) non è certo unidea sostenibile per un paese avanzato in condizioni di
globalizzazione. E non è vero che il sindacato perderebbe il suo ruolo se concedesse
maggiore flessibilità, tutele differenziate per settore o area geografica: anzi, ne
avrebbe uno assai maggiore.
3.4. Il settore pubblico, i suoi servizi, le sue funzioni
Il centro-sinistra ha investito molto in questarea (Amato, Cassese, Bassanini) e
giustamente, poiché si tratta di unarea cruciale per il giudizio elettorale dei
cittadini, ma soprattutto per la competitività del sistema. Gli effetti benefici delle
grandi riforme Bassanini non si sentono ancora. In alcuni settori crucialmente importanti
(giustizia, ordine pubblico) la situazione di inefficienza è scandalosa. Si pensi come
sarebbe importante poter dire alla fine della legislatura: abbiamo ridotto di due anni la
durata media dei processi. Oppure, abbiamo coordinato e unificato le forze
dellordine e la percentuale degli autori di reato effettivamente assicurati alla
giustizia (ed effettivamente in carcere, se questa è la pena) è aumentata di 20 punti.
Oppure ancora: la durata media delliter di attuazione di una grande opera pubblica
è scesa da 12 anni a 6, e le pratiche per la concessione dellesercizio di
unattività industriale portano via due mesi invece di tre anni. Quali che siano i
modi con cui si ottengono questi risultati ma sono quasi sempre modi costosi per le
tensioni che generano nella macchina pubblica- sono questi che contano (non le leggi
soltanto) e garantiscono il consenso futuro.
Presentare il problema sotto il profilo elettorale è però molto riduttivo. Per un
riformista il processo di riforma deve cominciare dalla riforma dello stato e della
pubblica amministrazione (medice, cura te ipsum) per due fondamentali motivi. (a)
Innanzitutto perché la sinistra tradizionale ha troppo spostato il pendolo dalla parte
dei produttori e troppo poco dalla parte degli utenti dei servizi pubblici. In una logica
sindacale e in una prospettiva di permanente opposizione, era assai più facile
organizzare i primi che non i secondi, e a questo spingeva anche leredità della
cultura marxista. Dunque si cercavano e si stabilivano rapporti con i docenti e non con
gli allievi e i loro genitori, con gli infermieri e persino con i medici e assai meno con
i pazienti, con i giudici e non con chi ha bisogno di giustizia, con il personale dei vari
servizi di trasporto e non con gli utenti, e via di seguito: ci sono lodevoli iniziative
in contrario, ma questa è la sostanza delle cose. In una logica di governo e soprattutto
in via di principio è un atteggiamento non più sostenibile: la priorità politica è
sempre quella dellutente, perché alle condizioni di lavoro, ai
"produttori", ci deve pensare il sindacato (Acquisire questo atteggiamento da
parte dei quadri, dei militanti e dei rappresentanti della sinistra è una vera e propria
rivoluzione culturale, il cui completamento è ancora ben lontano). (b) Il secondo motivo
è anche più importante: la sinistra ha bisogno di uno stato che funzioni assai più di
quanto ne abbia bisogno la destra. La sinistra, anche la sinistra riformista, assegna allo
stato compiti che la destra non gli assegna: vuole una scuola pubblica eccellente, vuole
una sanità pubblica di qualità elevata e il più possibile uniforme, vuole investimenti
pubblici, vuole una previdenza pubblica e un welfare pubblico, vuole la creazione
di condizioni ambientali, favorevoli per lesercizio dellattività privata, ma
disegnate dal settore pubblico Anche se alcune (o molte) di queste funzioni sono delegate
al settore privato, a maggior ragione la qualità dellattività di coordinamento e
di controllo del pubblico devessere impeccabile. I riformisti, proprio perché
circoscrivono i compiti del pubblico ad unarea più ristretta della sinistra
tradizionale, non possono che porre la riforma della pubblica amministrazione al primo
posto e constatare che si è fatto ancora troppo poco.
3.6. Il Welfare (appunti)
Deve trattarsi di una proposta organica, di una "filosofia", come il Welfare
to work di Tony Blair, che però corrisponde ad un problema inglese: alle
controindicazioni di interventi assistenziali molto diffusi e relativamente generosi, per
cui non pochi preferiscono stare on the dole e non lavorare. Solo in minima parte
(purtroppo) noi abbiamo questi problemi: un welfare generoso e indirizzato al
cittadino noi dobbiamo costruirlo, più che riformarlo al fine di scoraggiare
lopportunismo dei destinatari. Il proposito generale di questa parte della
relazione, in un confronto colla sinistra tradizionale e la destra, dovrebbe essere quello
di mostrare che i riformisti vogliono un sistema universalistico, più spostato verso i
servizi (donde linsistenza per una P.A. eccellente) e verso ammortizzatori efficaci:
solo in queste condizioni una maggiore flessibilità del mercato del lavoro non va a danno
dei lavoratori. E che vogliono un sistema pubblico di qualità elevata e uniforme, anche
se non escludono interazioni tra pubblico e privato. Questo vale per la previdenza e
soprattutto per la sanità e per lassistenza in caso di grandi rischi: i diritti
sociali sono presi altrettanto sul serio della sinistra tradizionale. In particolare.
Previdenza. Non cè una divisione di principio tra sinistra tradizionale e
sinistra riformistica, se non forse una maggiore disponibilità della seconda nei
confronti di schemi a capitalizzazione integrativi in questa fase di sviluppo e a questi
livelli medi di reddito pro-capite, al fine di stimolare la responsabilità individuale;
ma anche i riformisti condividono lidea che i sistemi a capitalizzazione non sono
una panacea (se si tien conto delle effettive coppie rischio/rendimento) rispetto ai
problemi previdenziali di questa congiuntura demografica e dunque avranno un ruolo
limitato, anche se utile in termini di diversificazione, nello sviluppo della previdenza
del nostro paese. Ci sono però numerosi problemi pratici che oppongono chi minimizza la
crisi (e le implicazioni della crisi) del sistema previdenziale pubblico e coloro che ne
sono preoccupati: anche se ciò non discende da posizioni di principio, di fatto i
riformisti prevalgono tra i "preoccupati" e i tradizionalisti tra i
"minimizzatori", forse perché essere preoccupati e cercare di intervenire porta
al conflitto con le proprie basi tradizionali e col sindacato. Ammettiamo anche (non è
vero e non è solo questione della "gobba") che la quota di Pil assorbita dalla
previdenza non sia soggetta ad ulteriori tendenze espansive, ed ammettiamo anche che non
generi ulteriori problemi di sostenibilità finanziaria in senso stretto: ma come non
riconoscere che è comunque troppo alta rispetto ad usi probabilmente assai
migliori (in termini di equità e di efficienza) delle scarse risorse pubbliche? I
"preoccupati" apprezzano ovviamente lo sforzo della Cgil (costoso in termini di
popolarità) di aderire al contributivo pro rata per tutti, forse già nel 2000; si
augurano anche che le pensioni più magre, e la loro stretta dipendenza da ulteriori anni
di contribuzione, inducano coloro che avrebbero titolo ad una pensione di anzianità a
ritardare luscita del lavoro. Ma nonostante lalea di incertezza che grava
sulle proiezioni economico-demografiche di lungo periodo, si rendono conto che è
necessario allungare rapidamente letà media delleffettiva andata in pensione:
i modi si possono discutere, lobiettivo è ineludibile. E ineludibile già
allinterno del sistema previdenziale, se si tien conto del moltiplicarsi in un
futuro lontano di carriere contributive intermittenti e povere e, nel futuro vicino, di
gravi problemi di ristrutturazione: le pensioni di anzianità di chi può rimanere al
lavoro sono tanto più inaccettabili se cè bisogno di prepensionamenti (una specie
involontaria di pensioni di anzianità) o altre forme di integrazione del reddito per chi
il lavoro lo perde avanti negli anni.
Ammortizzatori, assistenza, politiche attive. Ma un ripensamento degli equilibri
finanziari della previdenza è ineludibile soprattutto se ci riferiamo in termini di
sistema allintero problema del lavoro (previdenza-assistenza-formazione) e dei
suoi rischi, in un ambiente di flessibilità e di continuo adattamento strutturale. Come
finanziare un progetto di ammortizzatori sociali degno di questo nome? Come passare da una
protezione categoriale ad una universalistica? Come sostenere politiche attive del lavoro,
di training e re-traning? Come rispondere alla sfida della disoccupazione
giovanile, che non può più essere lasciata al semplice sostegno della famiglia? Il tutto
nel contesto della "sgradevole aritmetica" che abbiamo descritto prima? La
riflessione più sistematica e la proposta di intervento più incisiva che il
centro-sinistra abbia prodotto è quella della Commissione Onofri: quanti sono
daccordo col suo impianto? Oggi si sta procedendo con una miriade di
micro-interventi (aumento detrazioni fiscali, assegno per le famiglie con almeno tre
minori, aumento degli assegni al nucleo famigliare..). Non basta. Ci devessere un
disegno dinsieme, consapevole dei vincoli di bilancio, che rappresenti un
compromesso ragionevole tra le diverse concezioni del welfare che albergano nel
centro-sinistra. Se no è difficile "vendere", anche elettoralmente, la
"molteplicità apparentemente confusa" degli interventi governativi.
3.7Il Mezzogiorno
E un argomento troppo importante per parlarne per accenni. Solo una domanda per
avviare la discussione: il Governo è ancora convinto della strategia della
"programmazione negoziata", lidea forza della prima fase della
legislatura?
Un epilogo in forma di "Nota Bene"
Questa relazione era stata scritta, in larga misura, prima dellannuncio di un
Congresso in tempi così rapidi e il suo proposito era quello di dare unidea della
posizione riformista su temi economico sociali nellottica dei 500 giorni.
Limminenza del congresso ne cambia il senso ma non ha permesso di cambiarne
radicalmente limpianto: ora il senso non può che essere quello di una posizione
congressuale, ma limpianto non è in grado di sostenerlo perché troppo limitato nel
suo orizzonte, troppo dettagliato, troppo "accademico" e pre-politico.
Con un po di buona volontà non è però difficile tirarne fuori una posizione
politica chiara: giova a questo scopo la continua contrapposizione tra "sinistra
riformistica" e "sinistra tradizionale" a proposito di singole politiche,
che per fortuna era presente nel testo originale. In un testo esplicitamente politico
questo contrasto dovrebbe essere ricondotto alle sue radici ultime, e dunque ricercato nei
ritardi di elaborazione del partito, nel fallimento della Cosa 2, nella permanenza di una
concezione classista di origine marxiana in tanta parte della sinistra tradizionale. La
concezione marxiana (ma tutta intera, con i suoi indispensabili corollari circa la
coincidenza tra linteresse particolare della classe e linteresse della
società, sullabolizione del mercato e del lavoro salariato, ..) è una cosa grande
e terribilmente seria. Se la si spoglia di questi insostenibili corollari, e dunque della
necessaria coincidenza tra interesse particolare e interesse generale, il
"riferimento al lavoro" non è fonte di legittimazione della sinistra come
partito politico, ma una rispettabilissima posizione sindacale, quel modo di "stare
dal lato dei produttori" (come opposto allo stare dal "lato degli utenti")
che abbiamo criticato più sopra. Caricature? Vedremo. Forse non in questo congresso, ma
in una prossima Bad Godesberg. Purché non sia "allitaliana".
Se è possibile tirar fuori da questi materiali una posizione politica chiara, sembra
più difficile tirarne fuori una posizione politica trascinante, un programma elettorale
che parli al cuore, oltre che alla mente, degli italiani e soprattutto dei giovani. Da un
lato la "ragionevolezza" riformistica, il riferimento a compatibilità e
"sgradevoli aritmetiche", non ha mai alimentato grandi sogni, disegni politici
trascinatori: in un partito di sinistra è sempre stato abbastanza facile gabellare
quellatteggiamento come politica di basso profilo, semplice conservazione dello
status quo. Dallaltro e specialmente in Italia oggi- un riformismo radicale
si scontra contro interessi forti e ben difesi nellambito della stessa nostra parte
politica: a differenza di chi ritiene il riformismo una posizione politica di basso
profilo, mi sembra che un riformismo ben inteso sia una posizione dura, impopolare,
coraggiosa. Rimane il fatto che "vendere" il riformismo, trasformarlo in una
posizione politica elettoralmente convincente e di successo, non è per nulla facile e
lonere di provare che ciò è possibile spetta ai riformisti stessi. Blair cè
riuscito, un po per circostanze storiche particolari (le riforme Thatcher), ma
anche, e molto, per una campagna ideologica di efficacia straordinaria, che ha spazzato
via quellatmosfera modesta e "ragioneristica" che troppo spesso circonda
il riformismo in un partito di sinistra. In questa campagna forse ci si è spinti troppo,
fino ad estollere in termini entusiastici fenomeni che giustificano invece una lettura
più preoccupata (la globalizzazione, per esempio). E però evidente che il
"meno peggio" non è un messaggio facilmente vendibile e che noi, riformisti
italiani, abbiamo molto da apprendere, adattandola alle nostre circostanze, anche dalla
retorica della "Terza via".