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Serve una convinta svolta riformista

Michele Salvati

 


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Quello che segue è il testo della relazione introduttiva al convegno Per una ripresa riformista che si è svolto a Roma l'11 ottobre

Ancora oggi, dopo 10 anni dalla svolta, nel giudizio degli elettori i DS stanno sospesi tra un "non più" e un "non ancora". Non sono bastate due "Cose" e non basta la presenza a palazzo Chigi di Massimo D’Alema per consegnare agli elettori e agli stessi militanti un identikit facilmente decifrabile. Lo stesso giusto richiamo al socialismo europeo non è di grande aiuto: un po’ perché di socialismi europei ce ne sono tanti e tra loro assai diversi. Ma soprattutto perché assomiglia molto al richiamo all’Europa che l’Italia ha sempre fatto e continua a fare: un albero maestro a cui legarsi per resistere alle sirene della sua "diversità". Ma proprio come gli altri paesi europei continuano a sospettare che l’Italia sia diversa, così gli elettori sospettano che "diversi" siano ancora i diessini, anche quando la gran maggioranza di loro ha smesso da tempo di volerlo essere.

Una delle cause di questo stato di cose è stata la mancanza di una discussione identitaria e programmatica seria in tutti questi anni, come se il partito fosse un rettile cui bastava sfilare la vecchia pelle comunista per trovarne sotto una socialdemocratica nuova di zecca. Chi ha coltivato questa illusione né rendeva onore a quel grande veicolo di identità che è stato il PCI, né comprendeva le difficoltà in cui si trovano tutti gli eredi del movimento operaio in questo volgere di secolo. Della nuova pelle, sotto alla vecchia, c’erano solo alcuni brandelli e non esiste un semplice "modello europeo" da ricalcare per le parti mancanti. Proprio come, per le politiche economiche, è nella storia e nelle istituzioni italiane che dobbiamo trovare i materiali per innovare, è dalla storia e dalla cultura della sinistra italiana che dobbiamo partire. E si tratta proprio di partire, non di continuare un cammino in buona parte percorso. Nell’intorno della Svolta, ai tempi della segreteria Occhetto, il problema era primum vivere e si comprendono le reticenze ad approfondire lo scavo appena iniziato negli ingenui materiali della Cosa 1, quando lo strappo aveva lacerato così profondamente il partito. Ma non c’erano timori di ulteriori scissioni ai tempi della Cosa 2, quando si unirono al PDS alcuni eredi delle culture politiche italiane della sinistra e del centro orientato a sinistra e quando molti di loro (e non pochi ex-comunisti) avrebbero voluto portare a fondo la discussione sull’identità del nuovo partito. L’errore è stato pensare alla Cosa 2 come ad un adempimento organizzativo che non esigeva scavo e dolore, è stato il tentativo, crediamo non consapevole, di "farla franca" appoggiandosi al socialismo europeo di cui il PDS, per largo se non unanime riconoscimento, era già parte (…e poi: basta cogli esami!).

E’ impossibile rimediare a questo errore in tempi brevi e nell’imminenza di un congresso dove si dovrà discutere che cosa fare nell’ultima fase dell’esperienza di governo e che immagine dare di governo e partito, necessariamente uniti, nelle incombenti scadenze elettorali. Non è solo questione di opportunità: la continuazione della Cosa 2 (se di questo si tratterà) ha altri tempi e diverse modalità organizzative, dove la componente didattica, di studio e di ricerca, di forte coinvolgimento di giovani militanti e di studiosi e intellettuali esterni, deve prevalere sulla contrapposizione di linee precostituite. Una cosa i riformisti si sentono di chiedere subito: che il congresso costituisca una commissione con ampli poteri e risorse, dedicata alla continuazione, all’approfondimento, all’estensione a tutto il partito e soprattutto verso i giovani, della ricerca iniziata con la Svolta e arrestatasi con la Cosa 2. I lavori di questa commissione si dovranno chiudere con una conferenza appositamente dedicata al Programma Fondamentale, con una Bad Godesberg aggiornata e adattata ai nostri tempi e alle circostanze del nostro paese. Questa conferenza si terrà quando i tempi lo consentiranno e sarà meglio tardi che mai: non averla fatta in passato continua a lasciare aperte ambiguità ed incertezze che pesano non poco, e lo vedremo in seguito, sulla discussione di oggi. Oggi però l’urgenza è diversa: è quella di dare del governo e del nostro partito l’immagine più coerentemente riformatrice (ed elettoralmente più attraente) che ci consentono la situazione economico-sociale, le nostre inadeguatezze passate e lo stato dell’attuale coalizione di centro-sinistra.

Per affrontare questa urgenza ci sono vari percorsi possibili e quello che è seguito in questa relazione non è sicuramente il più efficace per una comunicazione esterna, verso gli elettori. Ci penseremo dopo: questo è solo il percorso più rapido per chi conosce i termini essenziali del dibattito in corso, nel nostro partito e nella sinistra europea. Come da onorata tradizione, la prima parte è un’"analisi della fase": il mondo e il nostro paese sono cambiati e la sinistra deve tenerne conto nei suoi programmi se vuole risultare egemone culturalmente e vittoriosa in un confronto elettorale democratico. La seconda parte si riferisce alla storia politica degli anni ’90 in Italia e ne mette in rilievo due punti critici: la questione del bipolarismo e della stabilità delle coalizioni; i problemi che si trovano ad affrontare il governo D’Alema, e, per conseguenza i DS che lo sostengono, fino alle prossime elezioni politiche. A partire da questa analisi, la terza parte delinea il messaggio che il governo e il partito dovrebbero trasmettere. L’intero percorso, per essere sviluppato in modo soddisfacente, richiederebbe una relazione di dimensioni molto ampie. In questo scritto si procederà in modo schematico, per punti che in parte possono essere integrati dai testi citati nelle note e nell’esposizione orale, ma che soprattutto esigono precedenti conoscenze e una certa affinità da parte di legge e ascolta.

 

1. La "fase" internazionale e italiana

L’"analisi della fase" non è solo una tradizione onorata: è parte indispensabile della proposta politica, perché i contrasti tra le principali correnti della sinistra discendono forse più da diverse valutazioni del contesto economico e sociale - e dunque dai diversi strumenti concettuali e ideologici adottati per farle - che non dai valori ultimi che si intendono promuovere. Parlare di valori non è inutile: è essenziale quando si vuole discriminare tra sinistra e destra ed è utile anche all’interno della sinistra. In questo caso non è però indispensabile: mentre è facile distinguere una proposta della sinistra riformista da una della sinistra tradizionale sulla base di un’analisi della fase, degli strumenti concettuali adottati, delle "visioni del mondo" che vi stanno dietro, delle misure di intervento favorite, è molto difficile farlo sulla base di un’analisi dei valori ultimi, di solito largamente condivisi. Data la brevità di questa relazione e le competenze dei suoi destinatari, è sembrato opportuno omettere ogni riferimento esplicito ai valori e riservare l’argomento ad altra sede.

Per quanto riguarda l’analisi della fase internazionale e italiana, qui è il caso di sottolinearne soltanto i tratti che fanno differenza dal punto di vista delle reazioni interne alla sinistra; che differenziano, in particolare, la reazione della sinistra tradizionale da quella riformista. L’analisi più convincente della fase di sviluppo in cui viviamo è quella che sottolinea una forte rottura col modello di crescita della grande industrializzazione postbellica. La rottura è evidente per tutti gli aspetti definitori della fase: per il contesto internazionale (globalizzazione e instabilità), per il regime di politica economica (intolleranza per l’inflazione e per i disavanzi), per le trasformazioni strutturali interne ad ogni paese avanzato (nuovo assetto industriale traente, terziarizzazione). Questa rottura genera un ventaglio di rischi e di occasioni radicalmente diverso da quello col quale la sinistra si era confrontata durante la fase della grande industrializzazione (1950-1975, grossomodo) e vanifica buona parte degli strumenti di intervento che essa aveva adottato, primo fra tutti la gestione macroeconomica della domanda su base nazionale.

Sull’analisi della fase la sinistra tradizionale è schizofrenica. Da un lato, e in alcuni suoi esponenti, essa sottolinea ed anzi esaspera l’importanza della rottura strutturale nel modello di sviluppo avvenuta tra la metà e la fine degli anni ’70. Dall’altro, essa avanza talora proposte di intervento (politiche keynesiane tradizionali) che avrebbero senso solo se tale rottura non ci fosse stata, se i problemi di disoccupazione, precarietà, aumento delle diseguaglianze che oggi affliggono buona parte dei paesi sviluppati fossero la semplice conseguenza di politiche macroeconomiche sbagliate e sostanzialmente reversibili. A parte il fatto che anche in questo caso l’inversione delle politiche macro non potrebbe avvenire solo nel nostro paese e forse neppure soltanto in Europa, se si accetta un’analisi strutturale le politiche di rilancio della domanda e degli investimenti devono andare necessariamente insieme a (1) condizioni di rigore fiscale e monetario irreprensibili e a (2) misure di riaggiustamento e trasformazione delle strutture microeconomiche, al fine di portarle ad una configurazione profondamente diversa dal passato: una configurazione che consenta loro di compiere il salto di competitività necessario a sostenere un’elevata crescita economica nel contesto del nuovo modello di sviluppo. Si è cercato di evitare i termini "flessibilità" e "flessibilizzazione" per il riferimento prevalente che essi hanno acquisito - il mercato del lavoro - e per sottolineare invece il fatto che la trasformazione micro deve avvenire in tutti i mercati e in tutte le istituzioni. Ma sicuramente, per adattarsi a questo nuovo episodio di "distruzione creatrice", anche i mercati del lavoro e le istituzioni che li regolano devono cambiare, e molto.

Di questa interpretazione strutturale del passaggio di fase possono darsi diverse formulazioni. La più comune è quella neoclassica, ribadita incessantemente dagli economisti mainstream, fatta propria dalle organizzazioni economiche e politiche internazionali, dal Fondo Monetario all’Ocse, e sostanzialmente adottata dalla stessa Commissione Europea, anche se in forme meno unilaterali ed esasperate (è il ben noto "pensiero unico"). Ma esistono anche letture radicali, più vicine alla visione marxista del modo di produzione o a quella schumpeteriana delle fasi del capitalismo, di cui la più convincente è forse quella della "Scuola della Regolazione" francese: poiché Marx e Schumpeter sono di casa in una interpretazione strutturale delle trasformazioni dell’economia, sarebbe strano che così non fosse. Più significative per noi sono le conseguenze di politica economica che si possono tirare da interpretazioni strutturali. Alcune sono estreme, e arrivano all’affermazione di una totale incompatibilità tra questa fase di sviluppo e le esigenze di coesione sociale che abbiamo conosciuto nel passato e che i socialisti hanno contribuito a sostenere: di qui suggerimenti come quello di una radicale riduzione e ridistribuzione del tempo di lavoro o di una separazione netta tra distribuzione del reddito e contributo lavorativo (reddito di cittadinanza). Altre, estreme in senso opposto, minimizzano i pericoli sociali di questa fase di ristrutturazione, predicando una flessibilizzazione senza freni e senza interventi correttivi. Nessun governo europeo, e sicuramente nessun governo di sinistra, adotta queste politiche estreme, di un tipo o dell’altro, anche se alcuni hanno introdotto misure (nei fatti moderatissime) di riduzione del tempo di lavoro o di reddito minimo garantito. Tutti condividono l’interpretazione che le ristrutturazioni micro necessarie a sostenere la competitività dell’economia vanno fatte; che da queste discendono le possibilità di crescita economica; che dalla crescita deriva l’occupazione in via diretta o indiretta, nonché la possibilità di interventi a sostegno della coesione sociale. E ognuno traduce queste convinzioni generali in quelle misure politiche concrete che la sua storia –e la capacità di innovazione dei propri leader- gli suggerisce e gli consente.

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Le "storie" dei paesi europei con i quali solitamente ci confrontiamo –non di rado, ed erroneamente, allo scopo di cercare "modelli"- sono infatti profondamente diverse, e il testo citato più sopra illustra sommariamente i caratteri che generano le più evidenti differenze di opportunità, che condizionano la possibilità e l’efficacia dell’intervento politico. La "storia" italiana non è certo una delle più favorevoli, a seguito sia di debolezze antiche (il Mezzogiorno, l’inefficienza della PA, la struttura distorta dell’economia), sia di vincoli d’origine più recente (il debito pubblico, l’assetto insoddisfacente del sistema politico). Questo significa che il nostro paese deve affrontare insieme i problemi generali della fase e quelli che gli derivano dalle sue peculiari "debolezze", antiche e recenti: e questo allunga il conto delle trasformazioni "micro", di natura strutturale, che esso deve intraprendere. Per fortuna -è merito grande del governo Prodi e di quelli che lo hanno preceduto- il problema macro, quello della stabilizzazione fiscale e monetaria e dell’ingresso nell’Uem, è stato risolto e, più o meno bene, sono stati impostati un buon numero dei problemi di adattamento strutturale che il nostro paese deve affrontare: dalle privatizzazioni e liberalizzazioni all’assetto della struttura finanziaria, dal fisco alla pubblica amministrazione, dal Mezzogiorno al mercato del lavoro, dal sistema previdenziale alla riforma della sanità e del welfare in generale.

Molte di queste riforme strutturali sono però appena impostate e non tutte impostate bene; per quasi tutte gli effetti benefici che ne dovrebbero essere la conseguenza (e che ne sono stati la motivazione) sono ancora lontani dall’essere maturi e gli elettori percepiscono acutamente questo stato di cose. Il compito che attende il governo D’Alema (e i governi successivi) è dunque un compito difficilissimo, forse più difficile di quello affrontato da Prodi: non la rincorsa di un obiettivo macro ben definito e di per sé mobilitante, da attuarsi con strumenti fiscali che colpiscono interessi diffusi; ma una molteplicità apparentemente confusa di obiettivi micro, spesso in contrasto con interessi concentrati e altamente organizzati, con conseguenze benefiche che tardano a venire. Solo governi forti, e che riescono a dare agli elettori il senso complessivo, il disegno d’insieme, della "molteplicità apparentemente confusa" degli obiettivi di trasformazione strutturale, possono farcela. Naturalmente, per riuscire a convincere gli elettori, un disegno d’insieme ci deve essere effettivamente, e dev’essere gradito alla maggioranza: ci dev’essere capacità di comunicazione, ma anche qualcosa di convincente da comunicare. Questo è il problema politico fondamentale che il governo, la coalizione e soprattutto i DS devono affrontare nello scorcio di legislatura.

Non è un problema facile. Non è facile non tanto per la capacità di attrazione e di mobilitazione della destra, quanto per i contrasti interni al centro-sinistra, per la fatica palese a trovare un accordo su un messaggio coerente, per l’oscillare tra innovazione e conservazione, per l’influenza ideologica di una "sinistra tradizionale" anche maggiore della sua influenza politica diretta, e dunque –da ultimo- perché un’impostazione riformistica di principio non ha acquistato un’egemonia indiscussa tra i DS attraverso un processo di revisione identitaria condotto sino in fondo. Volendo riassumere i termini essenziali del conflitto: in che cosa si differenzia l’analisi, e soprattutto la proposta, dei riformisti rispetto a quelle della sinistra più tradizionale? Come abbiamo appena visto, l’analisi dei riformisti sottolinea il carattere strutturale dei mutamenti in corso, la loro origine in comportamenti e decisioni che spesso sfuggono al controllo del potere politico (e sicuramente a quello del nostro paese) e quindi tende a considerare come irrealistiche politiche nazionali tendenti a opporvisi frontalmente. I riformisti sono i primi ad insistere che il governo italiano debba fare tutto ciò che è in suo potere per contrastare, nelle sedi internazionali rilevanti, sia le tendenze all’instabilità finanziaria del sistema globale, sia le tendenze a bassi livelli di investimento e di attività in Europa: ma, ovviamente, questi sforzi possono non aver successo e allora sarebbe suicida non prenderne atto e non adeguarsi alle linee generali di politica economica perseguite dagli altri paesi. Tuttavia, anche assecondando una corrente troppo forte per essere contrastata, i riformisti ritengono che non sia esaurita ogni possibilità di raggiungere una attuazione soddisfacente dei propri valori e, soprattutto, sono sicuri di poterlo fare meglio della destra.

Anzitutto, se l’analisi non deve sottovalutare le difficoltà della situazione, neppure deve nasconderne le potenzialità, specie nel messaggio rivolto agli elettori. Anche senza arrivare all’esaltazione acritica dei "tempi nuovi" che talora fa capolino nella propaganda del New Labour e della "Terza via", in un paese come il nostro l’ondata competitiva che proviene dall’esterno può aiutare a smantellare gabbie corporative che hanno soffocato l’economia e la mobilità sociale per decenni: politiche mirate alla concorrenza, ai consumatori, ai giovani, agli esclusi troveranno sicuramente resistenze nei produttori (imprese e lavoratori) maggiormente difesi da barriere monopolistiche, ma possono suscitare maggior sviluppo e generare un saldo positivo in termini di eguaglianza di opportunità. Qui il discorso dei riformisti parte molto prima dell’economia, parte da quei problemi di identità la cui discussione approfondita dovrà attendere tempi migliori: la nuova fase economica ci costringe infatti ad affrontare una ridefinizione delle nostre gerarchie di valore, dei nostri fondamentali atteggiamenti ideologici, che crediamo sia benefica. Ci costringe a pensare non più in termini di classe ma di individui, a spostare l’accento sulle libertà, sia intese come assenza di costrizione (libertà da), sia e soprattutto come "libertà di", come attribuzione al massimo numero di persone della capacità di controllare il più possibile il proprio destino, come lotta all’esclusione, e dunque come diffusione di quelle essenziali dotazioni di capitale immateriale (istruzione, relazioni sociali) sulle quali si basano le "libertà di".

Sutor ne ultra crepidam: questi sono temi il cui approfondimento andrà fatto nella nostra Bad Godesberg. Torniamo allora all’economia e rispondiamo ad un’obiezione: se assecondiamo le tendenze dell’attuale fase di sviluppo invece di combatterle, se "spostiamo l’accento sulle libertà", non finiremo per accettare un ventaglio di differenze di reddito più ampio che in passato? Forse. Queste possono però essere contrastate da politiche rivolte sia a combattere l’esclusione sociale quando si manifesta, sia e soprattutto ad ostacolarne la manifestazione attraverso un rafforzamento della posizione dei lavoratori nel mercato del lavoro. Le politiche per l’istruzione, la formazione professionale, la ricerca, la produttività sono diventate un’ossessione per i riformisti europei; una giusta ossessione, perché sono politiche che cercano di mettere insieme, di rendere compatibili, l’obiettivo di competitività che è imposto da questa fase di sviluppo con l’obiettivo di pari opportunità e di estensione delle capacità effettive di dominare il proprio destino che è tipico della sinistra. In altre parole. I riformisti cercano di evitare battaglie perse in partenza o controproducenti in termini degli stessi valori della sinistra: ma non smettono di combattere, di cercare nel mondo in cui effettivamente vivono il modo di fare avanzare quei valori.

Secondariamente, qualora le tendenze all’instabilità sistemica dell’attuale fase economica siano tenute sotto controllo e la politica economica europea si stabilizzi in un indirizzo moderatamente espansivo, va sottolineato che non vi sono limiti esterni alla crescita dei singoli paesi e delle singole regioni: essa viene a dipendere dalla capacità competitiva dei sistemi-paese e sistemi-regione, e a governi socialisti spetta il compito di coordinare lo sforzo competitivo senza che esso comporti forme intollerabili di precarietà e di esclusione, ed anzi, sviluppando tutte le occasioni di crescita individuale, di controllo del proprio destino, che questa fase esaltante di sviluppo tecnologico consente. Questo non significa una resa totale al "pensiero unico", l’ignoranza o l’abbandono delle teorie keynesiane (che buffa questa malintesa fedeltà a Keynes da parte della sinistra tradizionale, che fino a pochi anni or sono l’aveva bollato come pensatore "borghese", quale peraltro lui stesso, e orgogliosamente, sosteneva di essere!). Oggi, e parzialmente, politiche keynesiane si possono praticare a livello di Unione. A livello di stati e di regioni le politiche su cui far leva sono politiche strutturali, volte ad accrescere la competitività del sistema: e non è necessario essere economisti neo-classici o "pensatori unici" per arrivarci, poiché ci si arriva comodamente anche partendo da Marx o da Schumpeter.

In terzo luogo e soprattutto, qual è l’alternativa? La destra? Anche senza riferimento ai caratteri peculiari –diciamo così- della destra italiana, com’è possibile che la destra senta con la stessa intensità dei socialisti liberali e riformisti un obiettivo di coesione sociale e di lotta all’esclusione? La sinistra tradizionale? Forse le cose cambieranno in futuro –anzi, lo speriamo- ma sinora la sinistra tradizionale, dentro e fuori il partito, non sembra aver colto sino in fondo l’imperativo di competitività e di liberalizzazione che caratterizza questa fase economica e che bisogna assecondare e disciplinare se si vuole essere forza di governo. E’ ancora troppo ancorata ad un’identità che, se non era del tutto vera neppure in passato, durante il secolo dell’industrializzazione e del socialismo, è palesemente falsa oggi: sinistra uguale movimento operaio. La nostra speranza che le cose cambino in futuro non è un semplice auspicio diplomatico. Da un lato essa si ricollega all’esigenza di riprendere la "Svolta", di completare quel processo di revisione ideologica che la Cosa 2 non è riuscita a far progredire. Dall’altro essa nasce dalla convinzione che la sinistra non raggiungerà mai la forza necessaria a governare se si priva delle sue espressioni più radicali. In esse c’è una domanda reale di coerenza con i valori di fondo della nostra tradizione, che però si mischia con una tendenza alla conservazione delle politiche mediante le quali si intendeva raggiungerli in passato. Della prima domanda abbiamo più che mai bisogno oggi, in cui la posizione più comune e più insidiosa non è quella di una sinistra tradizionale che non si accorge che il mondo è cambiato e dunque che, per parafrasare il Gattopardo, molto deve cambiare affinché la sinistra rimanga fedele a se stessa; la posizione più comune e più insidiosa è quella del "tirare a campare", dell’evitare posizioni di principio in nome di ciò che appare "realistico" nel brevissimo termine. Questo non è riformismo: è opportunismo.

2. Il centro-sinistra negli anni ’90 e la situazione attuale

Anche per questo passaggio della relazione dobbiamo rinviare ad un altro testo, in cui la storia economico-politica di questi anni turbolenti è analizzata con una certa ampiezza. Di questa storia qui vogliamo mettere in evidenza due aspetti, che sono utili per chiarire la posizione riformista. Il primo riguarda l’assetto del sistema partitico e il problema delle coalizioni: chiaramente si tratta di una digressione rispetto ai temi economico-sociali di cui stiamo trattando. Ci è sembrato però necessario un breve richiamo ad un problema che ha dominato (a volte avvelenato) la discussione politica di questi anni all’interno del partito e del centro-sinistra perché è essenziale, ai fini di un successo elettorale, che il partito e l’intera coalizione raggiungano una posizione condivisa, e soprattutto una posizione comprensibile e gradita a chi ci dovrà giudicare. Il secondo ritorna ai temi economico-sociali, propone una valutazione d’insieme degli anni ’90 dal punto di vista delle percezioni degli elettori e si interroga in particolare sul ruolo del sindacato.

 

2.1. Una digressione: partito, coalizione, bipolarismo, riformismo.

Per un’analisi della crisi politica della prima metà degli anni ’90 facciamo di nuovo riferimento al testo menzionato nella nota precedente e alla letteratura che lì è citata. Qui intendiamo solo riferirci ad una delle sue conseguenze, il problema dei "poli" o delle coalizioni, e alle due diverse risposte che ad esso sono state date all’interno del partito, la risposta "ulivista" e quella "socialdemocratica". La polemica è stata aspra: ma il tempo e i fatti compiuti, soprattutto le decisioni dei principali leader, stanno ora "risolvendo" il problema. Sicuramente non nel modo migliore possibile, ma piangere sul latte versato, dividerci nell’imminenza di una prova elettorale su chi aveva ragione e chi aveva torto, non ci sembra un atteggiamento costruttivo: quella che presentiamo di seguito è dunque una posizione che forse tutti i DS, e sicuramente i riformisti, possono far propria.

La posizione degli ulivisti va ricordata nei suoi termini essenziali: che senso ha impegnarsi nella elaborazione di una nuova identità socialdemocratica o liberal-socialista italiana quando il partito che da essa viene definito sembra destinato a rimanere minoritario per lungo tempo ed il compito politico più urgente è quello di costruire legami ideologici e organizzativi sempre più forti tra i soggetti di una coalizione di centro sinistra (l’Ulivo)? Nel futuro prevedibile, infatti, è la coalizione ad essere dotata non soltanto di "vocazione" maggioritaria, ma anche di una ragionevole speranza di poterla esercitare, di essere e poter restare forza di governo. Più a fondo: che senso ha impegnarsi in ambiziose ridefinizioni dell’identikit dei partiti, quando le vecchie identità erano figlie di un mondo che non c’è più (si pensi solo ai due più grandi partiti della Prima Repubblica, ai comunisti e ai democristiani) e la nuova dev’essere costruita (e grossomodo è già stata raggiunta) attraverso la sintesi di tutte le correnti culturali riformiste delle diverse tradizioni politiche del nostro paese? Si tratta di una posizione legittima e condivisibile anche da chi si sente parte della tradizione socialista: sia il ragionamento sul rapporto tra partito e coalizione in un contesto di alternanza, sia quello sulla crisi delle vecchie identità partitiche, sul loro debole significato agli occhi degli elettori e nei confronti della rivoluzione programmatica che la sinistra deve affrontare, contengono importanti verità, che tali sono rimaste anche se le loro conseguenze organizzative non si sono attuate.

Ciò che è avvenuto è ben noto. Per la debolezza di chi sosteneva il disegno ulivista in forma radicale, per la strenua resistenza dei ceti dirigenti dei partiti, per la capacità di sopravvivenza dei vecchi patrimoni identitari, per l’attrazione del sistema partitico europeo, soprattutto del PSE sulla sinistra e del PPE sul centro, per il modo in cui la politica ha continuato ad essere organizzata nel corpo minuto del paese, per il rallentamento della spinta iconoclastica della crisi politica, per l’incompleta auto-sufficienza dell’Ulivo e la crisi di governo che ne è seguita, …insomma, per tante buone e cattive ragioni, il disegno di una federazione stretta (con devoluzione di quote di sovranità) o di un grande Partito Democratico si è rivelato per ora un disegno non realistico. Di questo va preso atto. Ma va anche preso atto –e i più accorti tra i sostenitori del disegno socialdemocratico ne sono consapevoli, ammaestrati dalla necessità di mantenere compatta e presentabile la coalizione che sostiene il governo e di predisporla alle prove elettorali del futuro- che la coalizione di partiti che costituisce uno dei poli di un sistema politico di alternanza è qualcosa di profondamente diverso dalle coalizioni della Prima Repubblica. Qualcosa che va curato con maggior sollecitudine di quanta veniva dedicata alle coalizioni di allora, che va presentato agli elettori come un insieme il più possibile coerente e attraente in se stesso: dei due argomenti avanzati dagli ulivisti, questo, strettamente legato alla logica dell’alternanza e di un sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario, mantiene intatta la sua validità ed è oggi riconosciuto anche da chi respinge per principio o trova irrealistico l’altro argomento, quello della debole attrattiva dei singoli partiti della coalizione di centro-sinistra e della necessità di fonderli in uno nuovo.

Se si prendono sul serio i principi di bipolarismo e di alternanza come caratteristiche di una democrazia compiuta e condizioni di efficacia dell’azione del governo; se siamo tutti d’accordo sull’organizzazione del sistema partitico in due blocchi di centro-sinistra e centro-destra, l’uno dei quali governa e l’altro fa opposizione e si prepara a governare nel caso che gli elettori così decidano alle successive elezioni; se tutto questo non è posto in discussione, allora, in presenza di diversi partiti in entrambi blocchi, il peso strategico che acquistano le coalizioni discende dagli stessi caratteri definitori del sistema politico che è emerso dalla crisi degli anni ‘90. Forse sarebbe preferibile un’offerta politica ancor più semplice, due grandi partiti, al posto di due coalizioni; in assenza di questa, tuttavia, due coalizioni unite da un programma comune convincente, ragionevolmente coerenti al loro interno, assistite da forti garanzie politico-costituzionali che la coalizione di governo rimarrà quella votata dagli elettori per tutto il corso della legislatura, possono andare (quasi) altrettanto bene. La condizione da ultimo ricordata –disincentivi politico-costituzionali forti contro i "ribaltoni" e dunque scelta del governo da parte degli elettori e non da parte degli eletti in parlamento e più volte in corso di legislatura- ci sembra una conseguenza necessaria del principio di alternanza quando questo si attua attraverso due blocchi o coalizioni, al fine di evitare defezioni o rimescolamenti parlamentari che sono assai meno probabili quando sono in campo solo due grandi partiti. A questa condizione se ne può aggiungere un’altra, forse non necessaria ma difficilmente evitabile in una competizione bipolare nell’attuale stato della comunicazione politica: che la scelta del governo da parte degli elettori va insieme a quella del capo del governo, che è il candidato premier proposto dalla coalizione.

Crediamo che su questi principi di organizzazione di un sistema politico democratico nelle condizioni odierne in Italia ci sia un accordo così ampio all’interno del partito da non doverli giustificare per esteso: l’accordo, per alcuni, è forse più una conseguenza dell’accettazione dell’inevitabile che di una scelta convinta e di principio, ma comunque esiste ed è sufficiente a passare oltre. Rimangono aperti, naturalmente, importanti problemi di dettaglio in tema di riforme organizzative, elettorali e costituzionali, sui quali si possono aprire dissensi anche aspri: è proprio necessario il maggioritario di collegio ad un disegno di alternanza? A un turno o a due turni? E come imporre una riforma elettorale che il Parlamento non è in grado di varare: anche con strumenti referendari? Come si scelgono i candidati, con le primarie? Semi-presidenzialismo o premierato? E come si sceglie il candidato Premier? E tanti altri ancora. Ma se c’è consenso sui principi di base appena esposti, possiamo accantonare questo argomento: esso ha avuto in passato un peso anomalo nella discussione interna rispetto a quelli –sulle politiche economiche e sociali- sui quali solitamente un partito di sinistra si divide, anomalo quanto era anomala la situazione di crisi politica e istituzionale del nostro paese. Prima, però, dobbiamo sottolineare ancora una volta un punto che è essenziale all’elaborazione di una qualsiasi piattaforma identitaria e programmatica di partito.

Se non vogliamo rinunciare ad una democrazia dell’alternanza e siamo persuasi del legame stretto tra coalizione e alternanza, abbiamo appena visto che la coalizione acquista un significato strategico: il candidato Premier deve essere gradito all’intera coalizione, il programma di governo è il programma della coalizione, il successo o l’insuccesso del governo si riverbera su tutti i partiti della coalizione, i contrasti interni alla coalizione sono dannosi per tutti e le possibilità di "smarcarsi" sono minime: in questi ultimi caratteri la situazione differisce radicalmente da quella della Prima Repubblica, dove una crisi di governo solitamente conduceva, per impossibilità di alternanza, ad una nuova coalizione con pesi diversi tra gli stessi partiti, e poteva dunque essere conveniente ai partiti che fossero insoddisfatti del loro "peso" nel precedente governo. In una situazione di alternanza una crisi della coalizione, se è grave, può condurre alla fine anticipata della legislatura; se è meno grave, ma comunque ostacola l’azione del governo o ne compromette l’immagine agli occhi dei cittadini, essa rischia di condurre la coalizione alla sconfitta nelle elezioni alla scadenza della legislatura. E’ in queste condizioni che ogni singolo partito elabora il proprio messaggio identitario e prende posizione sui principali problemi di governo: tali condizioni necessariamente conducono ad un bilanciamento tra differenziazione e convergenza nei messaggi dei singoli partiti assai diverso da quello che caratterizza coalizioni puramente opportunistiche, in cui le ragioni dello stare insieme possono venire meno da un momento all’altro. Insomma, ad un bilanciamento che dev’essere più simile a quello esistente tra le correnti di un partito che non a quello delle coalizioni della Prima Repubblica: proprio come l’affinità interna tra gli appartenenti ad una corrente non esclude una profonda lealtà nei confronti del partito, così anche una forte identità partitica non deve escludere il sentirsi organicamente parte di una coalizione strategica.

Come riformisti, la necessità di un legame stretto tra le diverse componenti della coalizione di centro-sinistra non pone problemi particolarmente gravi: la vocazione "maggioritaria" o "di governo" è uno dei caratteri di fondo dei socialisti riformisti, per i quali la politica non è pura testimonianza ma tentativo incessante di raggiungere quella (sempre parziale) realizzazione dei propri ideali che è possibile nelle circostanze date. Tra queste circostanze vi può essere la necessità di un accordo con altri soggetti della coalizione. Quando la coalizione è strategica, quando i soggetti di cui si compone esprimono sensibilità ed interessi presenti nell’elettorato che si vuole raggiungere, il problema politico non è radicalmente diverso da quello che deve affrontare un partito che si trova nella più fortunata circostanza di poter rappresentare da solo l’intero arco del centro-sinistra: anch’esso deve trovare un compromesso convincente, un compromesso riformista, tra i suoi ideali e le possibilità concrete di attuarli, tra le esigenze di innovazione e trasformazione sociale e le resistenze che si incontrano nel soddisfarle. Ci sono vari motivi per i quali l’essere parte di un unico, grande partito di centrosinistra (senza trattino) differisce dall’essere parte di una coalizione e molti sono così evidenti che non è il caso di passarli in rassegna. Uno, però, dev’essere reso esplicito, perché contribuisce a chiarire lo spirito di una posizione politica riformista .

Si potrebbe pensare che, anche in una coalizione vissuta come esperienza strategica e di lungo periodo, ogni partito, nell’esprimere la propria identità e nel tracciare il programma di governo che perseguirebbe se non dovesse piegarsi alle esigenze della coalizione, accentui gli aspetti di differenziazione e di specializzazione rispetto agli altri partiti, in modo da "coprire" i più diversi segmenti dell’elettorato che la coalizione cerca di attrarre. Anzi, si potrebbe pensare che la possibilità di differenziazione e specializzazione costituisce uno dei pochi vantaggi di una coalizione rispetto ad un singolo grande partito. Ne viene di conseguenza che il ruolo dei DS in questa "divisione del lavoro" sarebbe quello di "coprire" un elettorato di sinistra, non così tradizionale come quello dei comunisti o così estremo come quello di Rifondazione, ma comunque nettamente di "sinistra" nel senso convenzionale di questo termine, lasciando ad altri partiti la rappresentanza del centro orientato a sinistra: questa, in fondo, è l’immagine che tuttora ci trasmettono i sondaggi sulle percezioni degli elettori. Si tratta di una posizione apparentemente assennata, ma assai pericolosa per il futuro del partito e un riformista non può che respingerla. Due sono i motivi. Il primo è che, qualora i DS accettassero questa "divisione del lavoro", essi si condannerebbero per il futuro prevedibile a rappresentare un segmento minoritario di quell’elettorato che dev’essere raggiunto al fine di ottenere la maggioranza e poter governare. Poco male, si potrebbe obiettare, se c’è una coalizione in grado di raggiungere tale scopo: "curando il nostro giardino" andiamo sul sicuro e creiamo minori tensioni sia al nostro interno, sia con i partiti alleati.

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I riformisti respingono questa obiezione per un secondo e più fondamentale motivo. I riformisti non vogliono "andare sul sicuro", non vogliono curare solo il vecchio giardino. La sfida maggioritaria, la sfida di governo, è anzitutto una sfida culturale che la sinistra deve affrontare in quanto sinistra se non vuol ridursi a forza di conservazione. Certo, ci si deve sporcare le mani e c’è il rischio di allontanarsi troppo dai propri ideali, di ambire al governo per il solo scopo di raggiungere o conservare il potere. Ma è un rischio che va affrontato: un partito di sinistra che si rassegnasse a restare minoritario, che trovasse il contesto in cui deve agire troppo difficile, troppo compromettente per i propri ideali (o meglio, per i vecchi modi di perseguirli), che rinunciasse all’obiettivo di convincere in qualsiasi circostanza la maggioranza degli elettori di saper governare in modo più efficace e più giusto della destra, non sarebbe un partito "politico". Non si vincerà sempre, naturalmente: ma è essenziale sforzarsi sempre di vincere, traducendo i propri valori di fondo in nuove proposte al mutare dei contesti in cui gli ideali di eguaglianza, solidarietà e partecipazione democratica che sono propri della sinistra devono essere attuati: è questo che stimola una ricerca incessante e genera innovazione. Vocazione maggioritaria, riformismo, innovazione: sono tre concetti strettamente collegati.

La digressione è finita e di seguito torniamo al tema principale. Per concludere vorremmo però ribadire i due scopi che la digressione si proponeva. Il primo, sul quale abbiamo maggiormente insistito, era quello di definire la posizione riformista su un tema che ha diviso il partito (ulivisti/socialdemocratici) e che continua a creare dissensi e incomprensioni. Il secondo è altrettanto e forse più importante. Nelle materie economico-sociali, cruciali per la definizione di una forza di sinistra, dobbiamo certo sforzarci di definire un messaggio coerente e comprensibile come riformisti; dobbiamo però anche sapere che, dal punto di vista elettorale, è la coalizione che combatte e non c’è messaggio, per quanto attraente, che convinca gli elettori se questi non hanno una forte percezione di unità della coalizione, se la vedono come una somma di partiti incoerenti e rissosi, tra loro e al proprio interno. Come fare per diffondere tale percezione è al di fuori della portata di questa relazione, ma nella sostanza è molto semplice: bisogna essere veramente meno incoerenti e rissosi.

 

2.2. I governi di centro-sinistra e il sindacato.

Se si chiede ad un elettore mediamente informato chi ha governato l’Italia negli anni ’90, chi ha gestito la crisi finanziaria e politica e ha portato il nostro paese nell’Unione monetaria, la risposta non può che essere: "il centro-sinistra". Sarebbe una risposta sostanzialmente corretta: erano di centro-sinistra gli ultimi governi della prima repubblica, anche se non appoggiati formalmente dal PDS; sono stati appoggiati dalla sinistra e dai sindacati i governi tecnici; era di centro-sinistra il governo Prodi e lo è il governo D’Alema. L’unica eccezione è stato il governo Berlusconi, la cui durata, troppo breve, non consente di attribuirgli alcun merito ma neppure grandi responsabilità. Insomma, i meriti di ciò che si è fatto e fatto bene, e le responsabilità di ciò che non si è fatto o fatto male sono interamente nostri. Se poi si richiede allo stesso elettore mediamente informato che cos’è questo centro-sinistra che ha governato l’Italia, senz’altro gli verranno in mente gli ex-comunisti e la parte di sinistra degli ex-democristiani, forse riuscirà ad indicare il nome di qualche altro piccolo partito, probabilmente si ricorderà di Bertinotti e dei guai che ha procurato alla coalizione, ma con probabilità ancor maggiore ricorderà il ruolo straordinario dei sindacati. E siccome non gli si può chiedere una grande sottigliezza di analisi costituzionale, per lui il centro sinistra è un amalgama di ex-comunisti, ex-democristani, altri partiti più piccoli e…sindacati. Di nuovo, non avrebbe tutti i torti, perché non c’è paese in Europa in cui il sindacato ha un peso e una visibilità nelle più fondamentali decisioni di politiche economico-sociali (e non solo in quelle) più elevati che in Italia: anche nei (piccoli) paesi di più antica tradizione neo-corporativa, anche laddove l’influenza sindacale è fortissima, normalmente essa si esercita attraverso modalità più discrete e di solito è contrastata da contro-poteri politici e burocratici più forti. E comunque in nessuno degli altri quattro grandi paesi europei, neppure in Germania, il peso "apparente" del sindacato è paragonabile a quello che ha da noi.

E’ opportuno tenere a mente questo "senso comune", questa percezione rozza della realtà politica, perché è sullo sfondo di esso che avranno luogo le prossime campagne elettorali, che si scatenerà l’offensiva del centro-destra e il centro-sinistra dovrà elaborare una efficace strategia difensiva (includendo in essa, naturalmente, sortite offensive: ma è nella logica delle cose che l’opposizione critichi i risultati di governo e le forze di maggioranza li difendano). Una strategia difensiva efficace è una che riesce a persuadere gli elettori che i risultati ottenuti in dieci anni di governo del centro-sinistra (com’è stato ed è di fatto) e di metodo concertativo sono stati i migliori possibili date le circostanze, o comunque migliori di quelli che il centro-destra avrebbe ottenuto. Uno storico futuro sottoscriverebbe forse il secondo giudizio ("probabilmente migliori della destra), dando il dovuto peso alla natura effettiva del centro-destra italiano, alle drammatiche circostanze della crisi finanziaria e politica dell’inizio del decennio e soprattutto all’opera straordinaria di risanamento fiscale e finanziario del governo Prodi. Un elettore comune ha però la memoria corta e il risanamento e l’ingresso nell’Unione monetaria gli possono sembrare vicende lontane. Gli possono sembrare, soprattutto, risultati importanti ma strumentali, collegati solo in via indiretta ai risultati che contano veramente, a quelli più vicini ai suoi interessi e ai suoi ideali. Il risanamento per fare che cosa? L’Europa per ottenere che cosa? Rimanendo sul piano delle politiche economico-sociali (molti altri, ovviamente, sono i piani che si intersecano in un giudizio), le cose che "contano" in via diretta si riducono poi alle solite tre: (a) la crescita del benessere materiale e dell’occupazione, (b) il grado di soddisfazione che procurano i servizi prestati e le funzioni svolte dal settore pubblico, (c)una maggiore giustizia sociale. Se il governo (e, in modo indistinguibile, la coalizione che lo sostiene e in essa il nostro partito) riusciranno a trasmettere l’impressione di aver fatto e di voler fare quanto è possibile per raggiungere la più elevata soddisfazione di questi tre obiettivi, se riusciranno a legare insieme e a dare un senso alla "molteplicità apparentemente confusa" di interventi riformistici di cui dicevamo alla fine della prima parte di questa relazione, vi saranno buone speranze per una riconferma elettorale del centro-sinistra.

Non si tratta di un compito facile. Dovremmo aver capito –passata la sbornia dei 13 governi di sinistra su 15 in Europa- che gli elettorati sono molto mobili e che in essi non c’è alcuna "predisposizione alla sinistra" stabile. Non c’è neppure una stabile "predisposizione alla destra", per fortuna. Anzi, in una situazione percepita da molti come rischiosa e iper-competitiva, un po’ di "sinistra" nel senso convenzionale del termine sembra essere molto gradito: la sicurezza del posto o quantomeno la presenza di occasioni di lavoro decenti e abbondanti, la certezza dei "diritti" che si ritiene di aver acquisito, non dispiacciono agli elettori, e non gli dispiacciono certo la presenza di solide reti di solidarietà e una giustizia sociale diffusa. Ma, naturalmente, essi vorrebbero anche (botte piena e moglie ubriaca?) una forte crescita del reddito e del benessere, servizi efficienti, occasioni abbondanti per perseguire i piani di vita che più li attraggono …e dunque un’economia fortemente dinamica, aperta e competitiva: chi li convince, o razionalmente o mediante abilità mediatica o con un misto delle due modalità di convinzione, di essere il più adatto a fornire il "pacchetto" desiderato, vince. Blair e Jospin sono sempre sulla cresta dell’onda, anche se le loro ideologie sembrano essere molto diverse (le politiche effettive lo sono poi molto meno). Schroeder sta perdendo, una dopo l’altra, tutte le elezioni amministrative. Come non vedere che la differenza principale sta nel "successo", e in sostanza sta nel fatto che Gran Bretagna e Francia crescono mentre la Germania è in difficoltà?

Anche l’Italia, anche il governo di centro-sinistra, sono in difficoltà. Queste derivano in buona parte dall’eredità di un lontano passato, per le quali i governi degli anni ’90 non portano responsabilità: la debolezza competitiva della nostra industria e dell’intero sistema-paese –il più grave ostacolo che tutt’oggi incontriamo per sostenere una crescita forte del reddito- non può certo essere imputata a questi governi. In parte derivano dall’assoluta priorità dell’obiettivo di stabilizzazione durante la prima parte del decennio: non è del tutto certo, ma può essere decorosamente sostenuto che sarebbe stato impossibile attuare una stabilizzazione fiscale e monetaria di quella portata con costi in termini di sviluppo molto minori di quelli che si sono verificati (su entrambi questi punti si veda il testo citato nella nota precedente). In parte –ed è la parte cruciale, perché è quella sulla quale possiamo ancora intervenire nell’anno e mezzo che ci resta prima delle elezioni politiche- le difficoltà derivano dall’incertezza e dalla timidezza che il governo ha manifestato e sta manifestando nell’impostare la "fase due" del suo programma, quella in cui si è entrati dopo aver raggiunto l’obiettivo dell’Unione monetaria. In sostanza, il governo non ha dato e non sta dando l’idea di avere in mente un chiaro progetto di sviluppo, un programma in cui l’unico vincolo a misure di liberalizzazione, di promozione dell’efficienza, di stimolo alla domanda e agli investimenti è quello a cui forze di sinistra non possono rinunciare pena la perdita della propria identità: una concezione rigorosa e universalistica della giustizia sociale. Sicuramente il governo è stato un comunicatore poco capace. Si tratta solo di incapacità di comunicazione? Non crediamo.

A nostro parere si sta pagando cara l’assenza di una discussione programmatica ed identitaria seria nel partito, e in particolare il mancato chiarimento nei rapporti tra un partito di sinistra e il sindacato. E vengono al pettine alcune tare antiche e più recenti del movimento operaio italiano. Tra le più antiche, e oggi assai poco comprensibile, la divisione politica tra le centrali sindacali, una divisione che in questi ultimi mesi si sta trasformando in aperto conflitto; tra le più recenti il ruolo anomalo acquisito dal sindacato durante la crisi politica dei primi anni ’90, ruolo assai positivo allora –come illustra chiaramente il testo citato- forse troppo esteso e troppo penetrante oggi. Per questi ed altri motivi, possono manifestarsi contrasti tra governo e sindacato, e all’interno degli stessi sindacati, che si riverberano in modo indesiderabile sulla popolarità di un governo che ha fatto della concertazione il metodo privilegiato di definizione di una gamma amplissima di politiche pubbliche. Per dare un esempio ben noto: sul cruciale nodo problematico previdenza-welfare è nato in occasione del Dpef un imbarazzante contrasto tra riformismo desiderabile e riformismo possibile e anche giornalisti vicini alle nostre posizioni sono arrivati a scrivere commenti di questo tenore: "E poi, forse, in questo paese bisogna rassegnarsi: il riformismo necessario deve cedere, spesso, al riformismo possibile. E’ un peccato. Ma ne sa qualcosa anche il Berlusconi del ’94, e non solo il D’Alema del ’99." (M. Giannini, Repubblica, 4 sett.). E’ difficile presentare agli elettori come grande raggiungimento una politica cui "bisogna rassegnarsi" e poi Giannini dimentica di sottolineare la cosa più importante. È vero che i sindacati hanno fatto uno sciopero generale contro la riforma delle pensioni di anzianità voluta da Berlusconi, proprio come l’hanno minacciato a luglio contro D’Alema; ma gli elettori vedono nel sindacato un pezzo di centro-sinistra e dunque sono predisposti a raffigurare il primo come una vittima e il secondo, se non reagisce, come un complice. Da un punto di vista elettorale, ciò fa una certa differenza.

Gran parte dei riformisti provengono dai partiti del movimento operaio; conoscono il contributo che il sindacato ha dato, nella sua storia, all’emancipazione dei lavoratori e alla causa della democrazia e, in particolare e recentemente, al risanamento dell’economia italiana; sono convinti che un contributo grande potrà darlo nel futuro, anche in forme oggi difficilmente prevedibili, e non sono certo tra coloro che preconizzano la prossima estinzione del sindacato. Sono anche consapevoli che oggi, in Italia e in alcuni altri paesi dell’Europa continentale, il sindacato è un pezzo essenziale della sinistra così come si è configurata storicamente, come movimento operaio e socialista. In molti altri paesi le cose stanno già diversamente e in futuro saranno probabilmente diverse anche nei paesi dell’Europa continentale. Ma oggi, da noi, stanno così e la percezione di senso comune del centro-sinistra che più sopra abbiamo descritto può essere influenzata in termini valutativi, non ribaltata in termini di fatto. Per influenzarla e correggerla, tuttavia, un governo ed un partito riformisti devono dare l’impressione di saper resistere a domande sindacali che gran parte dell’opinione pubblica trova ingiustificate sotto il profilo dell’interesse collettivo, se di fatto lo sono. Devono dare l’impressione che la definizione dell’interesse pubblico e le politiche che ne conseguono sono interamente nelle mani dell’autorità politica.

Abbiamo voluto dare un particolare rilievo a questo problema perché si tratta di un problema importante, dalla cui soluzione dipende il futuro della concertazione e la stessa sopravvivenza di un governo che ne ha fatto lo strumento centrale di definizione delle politiche pubbliche. I riformisti non sono affetti da "cretinismo parlamentare" e non sono innamorati di un modello puro di stato liberale che non è mai esistito nei fatti e al quale certo non possono essere ricondotti i grandi stati democratici del continente europeo nella loro esperienza postbellica. Se si fa concertazione, il governo e il parlamento non si spogliano affatto dei loro poteri costituzionali, non li spartiscono con soggetti privati, ma, anzi, disciplinano il rapporto con le grandi organizzazioni d’interesse in modo più trasparente e accountable di quanto avveniva durante la fase consociativa della Prima Repubblica, nelle stanze dei ministeri e nelle aule delle commissioni parlamentari. Il problema è se il metodo funziona e se serve all’interesse pubblico. Nella prima parte degli anni ’90, nella fase acuta della crisi politica e finanziaria, quando il problema era sostanzialmente quello della politica dei redditi, il metodo ha funzionato. Oggi manifesta chiari sintomi di logoramento.

Anzitutto il numero dei soggetti della concertazione si è troppo esteso (32 organizzazioni di interesse, senza contare i soggetti istituzionali, per il "patto di Natale") e si è troppo ampliata la gamma delle politiche che il governo mette sul tavolo: in questa situazione il rischio che la concertazione perda trasparenza, complichi la vita al governo invece di semplificarla, diventa sempre più grande. Secondariamente, il conflitto tra i due grandi sindacati fa male presagire per il futuro. La concertazione funziona se c’è un unico sindacato o almeno se i sindacati fanno una politica comune: se persino i confederali si spaccano, in un contesto in cui il sindacalismo non confederale cresce di peso ed è sempre più insofferente a discipline "concertate", è difficile capire quale sia il vantaggio, per il governo, di procedere per via di accordi invece di lasciare la disciplina del lavoro a regole generali e all’autonomia delle parti. In terzo luogo, e soprattutto, il ruolo del governo all’interno della concertazione si è venuto via via appannando. Dal punto di vista dell’interesse pubblico la concertazione funziona bene se il governo è un soggetto forte (relativamente, quantomeno), se riesce a far prevalere –sia pure in un contesto di accordo e di scambio- discipline che chiaramente corrispondono all’interesse generale. Episodi come quello del Dpef sono preoccupanti, al di là del giudizio sull’argomento specifico delle pensioni di anzianità, perché hanno rivelato improvvisazione e debolezza da parte del governo e hanno esposto la posizione sindacale come irrigidimento corporativo. Sia che il governo concordi con il nostro giudizio di crisi della concertazione, sia che dissenta, è comunque essenziale che nei "500 giorni" esso recuperi la sua credibilità e dimostri la coincidenza coll’interesse pubblico delle soluzioni adottate mediante il metodo concertativo.

 

 

3. Un programma economico-sociale riformista

…è ovviamente impossibile illustrarlo in modo compiuto in questa relazione. Innanzitutto andrebbe inserito in un programma complessivo, perché è solo questo che può fornire la visione d’insieme dei riformisti, quella concezione social-liberale che dovrebbe costituire il collante della coalizione di centro(-)sinistra. Secondariamente, trattandosi di materie complicate e su cui è del tutto legittimo avere opinioni diverse, non possono bastare le poche affermazioni apodittiche cui ci limiteremo. In terzo luogo, non riusciremo neppure a coprire l’intero spettro delle politiche economico-sociali e saremo molto selettivi: in sostanza, tratteremo soltanto di macroeconomia; di politiche strutturali riguardanti il lavoro, il capitale, i prodotti-servizi; dell’istruzione; dei compiti e della riorganizzazione del settore pubblico; del welfare. Lo scopo di questa parte della relazione è solo quello di dare un’idea degli orientamenti fondamentali della sinistra riformista contrastandoli, implicitamente o esplicitamente, con quelli della sinistra tradizionale. Prima di entrare nel merito, qualsiasi programma riformista (e specialmente un programma da 500 giorni) deve affermare due punti generalissimi.

Il primo riguarda gli obiettivi finali, l’immagine dell’Italia che i riformisti si pongono come "oggetto del desiderio", che le politiche da essi definite vorrebbero promuovere: un’Italia competitiva, un’Italia giusta e solidale. (i) Un’Italia competitiva. Da un lato si tratta di un obiettivo strumentale e che (in parte) ci è imposto dall’esterno, dalla fase capitalistica che abbiamo prima analizzato: solo un’Italia competitiva è in grado di produrre crescita economica e dunque, da un lato, occupazione in via diretta, dall’altro risorse pubbliche con cui perseguire tutte le principali finalità di politica economica e sociale. Abbiamo però già visto che sarebbe sbagliato porre questo obiettivo in modo solo o anche prevalentemente strumentale: diventare più competitivi, oggi, significa soprattutto promuovere il merito e l’iniziativa individuali, le libertà "da" e le libertà "di". Questi sono obiettivi in se stessi per chi vuole sottolineare oggi l’origine liberale della tradizione bicentenaria della sinistra moderna. Obiettivi che un partito di sinistra, in un paese così profondamente illiberale e in questa fase economica, deve rivendicare con forza. (ii) Un’Italia giusta e solidale. Si tratta dell’obiettivo più consueto della sinistra socialista e cattolica, ma gli accenti potrebbero essere meno consueti: meno sull’assistenza e più sul lavoro, molto sui diritti ma molto anche sui doveri, e soprattutto una forte intolleranza per le rendite, le sperequazioni, le ingiustizie. Non si tratta di acqua fresca e i singoli punti programmatici dovrebbero mostrarlo con chiarezza: è il disegno di un’Italia del lavoro, che esclude orizzonti malthusiani (35 ore?) o assistenzialistici (redditi di cittadinanza?), che si basa su una concezione di "meriti e bisogni", di giustizia, di distinzione tra responsabilità individuali e sociali (tough on crime, tough on the causes of crime, è uno slogan del programma elettorale del New Labour che rende l’idea, anche se riguarda un campo di intervento al di fuori di questa relazione), per fortuna largamente diffusa e che può facilmente essere sviluppata dalla sinistra.

Il secondo punto riguarda la natura, i tempi e l’orizzonte del programma. Che esistano importanti scadenze elettorali è evidente è lo è altrettanto che il programma debba avere ricadute entro i 500 giorni, soprattutto in termini di sviluppo e occupazione. Ma, anzitutto, è essenziale che si identifichino meriti e responsabilità del passato, e i vincoli che il passato impone sull’azione del presente: in un messaggio elettorale riuscire a moderare le domande è altrettanto importante che fare promesse, e dunque bisogna convincere gli elettori che alcune promesse sono irrealistiche o demagogiche. Bisogna far capire che quanto è stato fatto dai governi di centro-sinistra è stato positivo e straordinario, se si tien conto della situazione di partenza. Bisogna far capire che raggiungere i nostri obiettivi futuri è compito di difficoltà mostruosa, assai maggiore di quello che abbiamo assolto nella prima fase della legislatura: un compito per il quale alcuni strumenti non sono in mano nostra e quelli che lo sono devono incidere su storture antiche e profonde, difese da interessi potenti. Secondariamente, un programma-identikit ha un orizzonte più lungo di 500 giorni: in un tempo così breve si fa quello che è possibile, purché non ci siano deviazioni troppo evidenti rispetto a ciò che è necessario. Il programma deve legare insieme e dare un senso (se ci riesce) alla "moltitudine apparentemente confusa" degli interventi in atto e derivare da principi semplici e facilmente comunicabili gli interventi programmati per il futuro, anche dopo i 500 giorni, se ci sarà ancora un governo di centro-sinistra.

 

3.1. La sgradevole aritmetica dei bilanci pubblici

Abbiamo già ricordato che nel nuovo contesto di moneta unica e di patti di stabilità il nostro paese non è in grado di utilizzare i principali strumenti macroeconomici ai fini di una maggior crescita dell’occupazione e del reddito. Abbiamo anche espresso un certo scetticismo sul rimpianto diffuso (e non solo a sinistra!) dei tempi in cui essi erano utilizzabili: scetticismo che non deriva soltanto dall’uso che ne abbiamo fatto in passato, ma dalla stessa possibilità di usarli in futuro anche se non avessimo aderito all’Uem. L’Unione, naturalmente, è libera di usarli, e l’Italia può avere un’influenza sulle sue decisioni, se non la compromette mediante indisciplina, ritardi ed altri comportamenti erronei: una politica monetaria ed una politica fiscale genuinamente europee sono tutte da costruire e sta anche a noi fare in modo che abbiano una connotazione espansiva. Il punto di fondo (e che vale per riformisti e tradizionalisti, destra e sinistra, insomma per tutti) è però che crescita, occupazione e giustizia sociale vengono oggi a dipendere fondamentalmente da misure strutturali e microeconomiche, sia che queste consistano esclusivamente in interventi regolativi, sia che, come quasi sempre avviene, esse implichino anche modifiche nelle voci dei bilanci pubblici. I bilanci pubblici costituiscono dunque l’arena nella quale si confrontano gli interventi strutturali di natura non esclusivamente regolativa: più all’istruzione, meno ai trasporti; più all’assistenza, meno alla previdenza (gli esempi, naturalmente, sono puramente illustrativi: se mi si consente una battuta, tutti noi vogliamo dare molti quattrini ai trasporti –Fiat e Ferrovie- e alle pensioni, soprattutto a quelle di anzianità).

La "sgradevole aritmetica" sta tutta qui, ed in una comunicazione politico-elettorale (o nella discussione interna al centro-sinistra) i riformisti seri la devono sempre opporre a chi propone interventi settoriali, in sé anche condivisibili, ma che non tengono conto delle ripercussioni sull’insieme. Il ragionamento, semplicissimo, che dev’essere opposto ai settorialisti è grossomodo questo. Il nostro paese deve spremere dal suo bilancio pubblico un avanzo primario –una differenza tra entrate e spese al netto degli interessi- di dimensioni nettamente superiori a quelle di gran parte degli altri paesi europei, date le dimensioni del suo debito e l’impegno in sede Ue a ricondurre il rapporto Debito/Pil alla soglia del 60% entro tempi concordati e comunque solleciti. Esiste qualche margine di elasticità che già abbiamo sfruttato, ma gli ordini di grandezza non possono variare di molto: è nel nostro stesso interesse impegnarci a fondo in questo compito, sia per rafforzare l’immagine del nostro paese nei confronti dei mercati internazionali e dell’Unione, sia e soprattutto per ridurre le ripercussioni negative sul bilancio di un rialzo eventuale dei tassi di interesse (un raffreddore per gli altri è una polmonite per noi, data l’entità del nostro debito). Con un 4.5 - 5.5% di avanzo primario i margini di manovra sono stretti: le "cose positive" che dal bilancio pretendiamo (per esempio: un aumento delle spese di investimento e più in generale delle spese per lo sviluppo, un’espansione delle spese di welfare, un contenimento della pressione fiscale) non possono che provenire dalla riduzione di altra spesa corrente, riduzione alla quale, capitolo per capitolo, gli interessati si opporranno in modo feroce giudicando tale spesa almeno altrettanto "positiva" delle voci che si intendono espandere. Questo avviene, naturalmente, per i grandi capitoli che abbiamo ricordato e per i sotto-capitoli in cui si possono suddividere, giù giù sino ai singoli provvedimenti: è il ben noto scenario della legge finanziaria. Ed è qui che si manifesta la "sgradevole aritmetica" e si misura con mano la chiarezza di idee e la forza politica del governo.

Se si vuole contenere e poi ridurre la pressione fiscale, se si vuole invertire la tendenza al degrado delle infrastrutture pubbliche, se si vuole estendere in modo universalistico (e dunque a soggetti che ora ne sono esclusi) un decente sistema di welfare, se si vuole un grande balzo in avanti nell’istruzione e nella formazione professionale, altre voci di spesa devono ridursi: e l’unica che può cedere in termini percentuali risorse rilevanti senza un grave danno per la collettività o lesioni gravi ai principi di giustizia sociale è quella della previdenza pubblica. Noi crediamo che non si scappi da questa alternativa, che riprenderemo e giustificheremo parlando del welfare. Ma anche se non si convenisse con questa affermazione, se l’elenco delle voci da contrarre e di quelle da espandere fosse diverso, comunque un governo riformista dovrebbe illustrare con chiarezza ai cittadini l’architettura finanziaria elementare delle sue scelte, il suo disegno di lungo periodo, le sue priorità. Non tutte le riforme hanno ripercussioni su entrate e spese; ma molte le hanno e per queste assumere impegni di bilancio per il lungo periodo è solo questione di serietà.

 

3.2. Istruzione, formazione, ricerca

Questo è il tema cui dovrebbe essere data la massima evidenza: sia dal punto di vista della competitività del sistema-paese, sia da quello della giustizia sociale e dell’uguaglianza di opportunità, l’istruzione è il tema centrale di un messaggio riformista. Se il sistema scuola non funziona, e da entrambi i punti di vista, l’intero impianto riformista, un impianto che accetta l’imperativo della flessibilità, viene compromesso: viene compromesso perché la scuola non serve allo sviluppo e all’occupazione e viene compromesso perché non corrisponde ai valori della sinistra La filosofia delle riforme Berlinguer è condivisibile e si dovrebbe prendere posizione in dettaglio su alcuni punti critici: autonomia, pubblico e privato, risorse. L’idea di fondo è che lo stato dovrebbe gradualmente cambiar ruolo: da esclusivo provveditore del servizio in controllore, e controllore molto esigente, (a) della qualità dei servizi resi da soggetti pubblici e privati sempre più autonomi; (b) della capacità dell’istruzione di contribuire all’uguaglianza di opportunità, e dunque di non ricalcare in modo passivo le stratificazioni sociali esistenti. Questo mutamento di ruolo, che corrisponde all’incremento di complessità del sistema e a domande politiche cui occorre rispondere positivamente, è un’operazione di ingegneria istituzionale di complessità estrema. Esso esige risorse abbondanti, chiarezza di idee, perseveranza sulle stesse, tempi lunghi (e già c’è contrasto tra i due ultimi requisiti, ammesso che i primi siano soddisfatti: i tempi lunghi possono implicare cambi di maggioranza e allora è difficile ipotizzare perseveranza sulle stesse ipotesi di riforma, se il problema scuola non è tenuto fuori da una logica puramente partisan).

Forse le contrastanti ipotesi politiche potrebbero essere avvicinate se venisse eliminato il sospetto che la sinistra pretende una scuola di alta qualità per tutti, pretesa impossibile che copre, secondo i sospettosi, l’effettivo l’abbandono dell’alta qualità. A nostro avviso la sinistra dovrebbe francamente riconoscere che la scuola, nell’ultimo ciclo e nell’università, ha una componente selettiva non solo inevitabile, ma anche utile e giusta. Giusta perché solo se la scuola segnala e sviluppa le capacità degli allievi può svolgere quel ruolo di promozione sociale che vogliamo essa svolga. Com’è ben noto, e risulta da tutte le indagini comparative, la strada della promozione sociale tramite la scuola è una strada in salita: in quasi tutti i paesi la coincidenza tra risultati scolastici e stratificazione sociale è molto elevata. Ma è altrettanto noto che non è mediante l’abbandono della selettività e della meritocrazia che si risolve il problema e che altre vie devono essere tentate: da sistemi generosi di borse di studio concesse in età molto precoci (ai "capaci e meritevoli", perché no?), a percorsi che consentano sempre il passaggio tra diversi ordini di scuole, ad una particolare formazione dei docenti affinché sappiano discernere le capacità latenti degli allievi e si adattino alle loro esigenze di formazione. E siano poi premiati per questo: è di questi giorni la proposta di Gordon Brown, il Cancelliere dello Scacchiere laburista, di un sistema incentivante che giunge a raddoppiare lo stipendio del docente se la sua classe, nell’arco temporale del suo insegnamento, migliora in modo significativo i propri risultati. Rispetto ai sistemi di distribuzione degli incentivi in uso nel nostro sistema pubblico, si tratta di una prospettiva quasi rivoluzionaria.

 

3.3. La "grande transizione" dell’economia italiana.

Per il nostro paese, il passaggio degli anni ’90 non è soltanto quel periodo di adattamento alla nuova fase di sviluppo che affrontano anche le altre economie: per il contrasto tra le esigenze di adattamento e le regole e gli assetti che si erano stabilizzati negli anni ’70 e ’80, si tratta di una transizione quasi rivoluzionaria. Alla fine degli anni ’80 l’economia italiana presentava un ritardo di regole e di assetti che era unico tra i paesi economicamente avanzati: una grande industria pubblica in crisi profonda, poche grandi aziende private a controllo prevalentemente familiare, una miriade di microimprese, un sistema bancario e finanziario arretrato e ingessato, regole da terzo mondo per il controllo ed il trasferimento di proprietà delle imprese. Cominciava appena ad affermarsi una debole tutela della concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi e le regole del mercato del lavoro erano ancora quelle dello Statuto dei lavoratori, costruite, all’apogeo dell’industrializzazione fordista e dei sindacati dell’industria, avendo in mente la situazione tipica dell’operaio di massa nella grande impresa industriale. Se si ha in mente questa situazione, e la vischiosità dei processi storici, quanto si è fatto dopo di allora è quasi rivoluzionario: è ovviamente assurdo parlare di "de-sovietizzazione" dell’economia italiana, ma è un’assurdità che esaspera un aspetto reale del processo di transizione. Come tutti i processi reali questo avviene sotto il segno del caso e della necessità: la necessità impellente di privatizzare, liberalizzare, ri-regolare al fine di sopravvivere nella nuova fase di sviluppo; ma anche il caso, perché non c’è nessun regista che tenga in mano i fili del cambiamento, o meglio ce ne sono tanti, si intralciano a vicenda e mutano vorticosamente. Il polverone è ancora alto: le regole sono cambiate, talora in modo soddisfacente, talora no, ma gli assetti sono ancora ben lontani dall’essersi stabilizzati, come eventi recentissimi ci hanno segnalato. Il modo migliore di esprimere il punto di vista riformista è quello di passare in rassegna telegraficamente i tre grandi mercati.

(a)Capitali. La transizione è in pieno corso, sia per quanto riguarda le regole, sia e soprattutto per quanto riguarda gli assetti. Conosce però ostacoli e battute d’arresto, anche per le regole (es., criticare alcuni aspetti della legge sulle fondazioni bancarie, che lascia ancora il controllo delle banche nelle mani dei politici locali). Ribadire il punto fondamentale. Anche nei paesi più "liberali", il governo e la politica non possono liberarsi da decisioni discrezionali che riguardano la struttura dell’economia: tuttavia, e soprattutto da noi, più è ridotta quest’area di interferenza e discrezionalità, meglio è. Oggi siamo in un momento di transizione, e l’area di interferenza e discrezionalità è ancora, e necessariamente, molto ampia. La tensione per portarla al minimo, per privatizzare quanto è possibile in un contesto di regole certe, dev’essere fortissima, anche a costo di "spezzatini" e anche se ciò comportasse cessioni di controllo a capitali stranieri. Se sopra il processo di transizione, a partire dalla fine degli anni ’80, ci fosse stato un unico e onnipotente regista, si sarebbe dovuto cominciare dal mercato dei capitali, dai fondi di investimento e soprattutto dai fondi pensione oltre che dalle banche, in previsione del grande deflusso di risparmio dai titoli di stato e del grande afflusso di azioni delle società da privatizzare. Ma oltre al grande regista ci dovevano anche essere stuoli di managers competenti e di grandi capitalisti italiani disposti a rischiare molto e in proprio, e capaci di entrare in settori che erano stati una riserva dell’industria e della finanza di stato. Chiaramente non c’erano: nonostante le svendite, alcune ai limiti dello scandalo, la situazione è quella che la stampa ci mette sotto gli occhi ogni giorno. E’ per questo, e per evitare concentrazioni di potere intollerabili, che diciamo "ben venga lo straniero". L’idea dei campioni nazionali è priva di senso e farebbe male il governo se la perseguisse. Il compito di uno stato è oggi di svolgere al meglio il suo compito proprio: che è quello di creare regole, risorse ambientali, competenze di lavoro e di ricerca abbondanti e di qualità eccellente. Gli investimenti esteri, e proprio quelli più sofisticati, cercano queste condizioni, che chiaramente non trovano in Italia.

(b)Prodotti e servizi. Qui si tratta di seguire le indicazioni dell’Antitrust, e di procedere colle liberalizzazioni…esempi (ordini professionali, etc). Possibili contrasti tra liberalizzazione e privatizzazione quando si devono vendere imprese monopolistiche: nel dubbio, anteporre la liberalizzazione anche se riduce i valori di mercato.

(c)Lavoro. La difesa va attuata sul mercato, e non ponendo vincoli al mercato, quando ci sia (e non c’è ancora) un sistema di ammortizzatori e di formazione professionale decente. Il vero nostro problema è che abbiamo un’economia con livelli di produttività (per settori e regioni) estremamente differenziati, con una lunghissima coda che non è in grado di pagare i salari e gli oneri sociali legali e contrattuali e di offrire le tutele del contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. In questa situazione discipline uniformi (al di là di zoccoli minimi) non funzionano: se si danno tutele troppo elevate o troppo rigide non c’è sviluppo dell’occupazione oppure l’occupazione si fa in nero. Critica ad alcune leggi e proposte di legge (Interinale, Rappresentanza, Lavori atipici, sciopero nei servizi pubblici,...) e all’atteggiamento sindacale. Rischio che si debba concedere in ritardo e senza merito ciò che si sarebbe potuto offrire prima, guadagnando consenso e posti di lavoro. La sinistra tradizionale e il sindacato oppongono l’argomento: se ci sono investimenti in settori avanzati, se si fa una politica industriale degna di questo nome, se si costruisce una formazione di alta qualità, si verrebbero a creare condizioni nelle quali l’impresa è perfettamente in grado di concedere tutele elevate e spesso nel suo interesse, per non perdere lavoratori di alta qualificazione. Questa è la via da seguire, la via alta, perché la via bassa, quella della flessibilità, è una via perdente, che ci espone alla concorrenza dei paesi a bassi salari. Purtroppo è un argomento erroneo. Anzitutto, anche in paesi molto più omogenei e avanzati del nostro, la fase di sviluppo in cui siamo entrati, l’enorme crescita del terziario, generano situazioni di fortissima eterogeneità. Nel nostro, l’eterogeneità nelle condizioni territoriali aggrava fortemente una situazione che è già tipica della fase. E’ poi ovvio che bisogna sforzarsi di stimolare la "via alta", di spostare il massimo numero di lavoratori da settori bassi a settori alti: ma questo prende tempo e intanto la botte dà il vino che ha. E l’idea che lo stato (cioè i nostri politici), nella loro benevolenza e onniscienza, siano in grado di trovare scorciatoie efficaci a questo processo, che abbandonino la paziente e indiretta politica dei fattori (creare le condizioni ambientali) per una più ambiziosa politica dei settori (trovare i campioni vincenti) non è certo un’idea sostenibile per un paese avanzato in condizioni di globalizzazione. E non è vero che il sindacato perderebbe il suo ruolo se concedesse maggiore flessibilità, tutele differenziate per settore o area geografica: anzi, ne avrebbe uno assai maggiore.

 

3.4. Il settore pubblico, i suoi servizi, le sue funzioni

Il centro-sinistra ha investito molto in quest’area (Amato, Cassese, Bassanini) e giustamente, poiché si tratta di un’area cruciale per il giudizio elettorale dei cittadini, ma soprattutto per la competitività del sistema. Gli effetti benefici delle grandi riforme Bassanini non si sentono ancora. In alcuni settori crucialmente importanti (giustizia, ordine pubblico) la situazione di inefficienza è scandalosa. Si pensi come sarebbe importante poter dire alla fine della legislatura: abbiamo ridotto di due anni la durata media dei processi. Oppure, abbiamo coordinato e unificato le forze dell’ordine e la percentuale degli autori di reato effettivamente assicurati alla giustizia (ed effettivamente in carcere, se questa è la pena) è aumentata di 20 punti. Oppure ancora: la durata media dell’iter di attuazione di una grande opera pubblica è scesa da 12 anni a 6, e le pratiche per la concessione dell’esercizio di un’attività industriale portano via due mesi invece di tre anni. Quali che siano i modi con cui si ottengono questi risultati –ma sono quasi sempre modi costosi per le tensioni che generano nella macchina pubblica- sono questi che contano (non le leggi soltanto) e garantiscono il consenso futuro.

Presentare il problema sotto il profilo elettorale è però molto riduttivo. Per un riformista il processo di riforma deve cominciare dalla riforma dello stato e della pubblica amministrazione (medice, cura te ipsum) per due fondamentali motivi. (a) Innanzitutto perché la sinistra tradizionale ha troppo spostato il pendolo dalla parte dei produttori e troppo poco dalla parte degli utenti dei servizi pubblici. In una logica sindacale e in una prospettiva di permanente opposizione, era assai più facile organizzare i primi che non i secondi, e a questo spingeva anche l’eredità della cultura marxista. Dunque si cercavano e si stabilivano rapporti con i docenti e non con gli allievi e i loro genitori, con gli infermieri e persino con i medici e assai meno con i pazienti, con i giudici e non con chi ha bisogno di giustizia, con il personale dei vari servizi di trasporto e non con gli utenti, e via di seguito: ci sono lodevoli iniziative in contrario, ma questa è la sostanza delle cose. In una logica di governo e soprattutto in via di principio è un atteggiamento non più sostenibile: la priorità politica è sempre quella dell’utente, perché alle condizioni di lavoro, ai "produttori", ci deve pensare il sindacato (Acquisire questo atteggiamento da parte dei quadri, dei militanti e dei rappresentanti della sinistra è una vera e propria rivoluzione culturale, il cui completamento è ancora ben lontano). (b) Il secondo motivo è anche più importante: la sinistra ha bisogno di uno stato che funzioni assai più di quanto ne abbia bisogno la destra. La sinistra, anche la sinistra riformista, assegna allo stato compiti che la destra non gli assegna: vuole una scuola pubblica eccellente, vuole una sanità pubblica di qualità elevata e il più possibile uniforme, vuole investimenti pubblici, vuole una previdenza pubblica e un welfare pubblico, vuole la creazione di condizioni ambientali, favorevoli per l’esercizio dell’attività privata, ma disegnate dal settore pubblico Anche se alcune (o molte) di queste funzioni sono delegate al settore privato, a maggior ragione la qualità dell’attività di coordinamento e di controllo del pubblico dev’essere impeccabile. I riformisti, proprio perché circoscrivono i compiti del pubblico ad un’area più ristretta della sinistra tradizionale, non possono che porre la riforma della pubblica amministrazione al primo posto e constatare che si è fatto ancora troppo poco.

3.6. Il Welfare (appunti)

Deve trattarsi di una proposta organica, di una "filosofia", come il Welfare to work di Tony Blair, che però corrisponde ad un problema inglese: alle controindicazioni di interventi assistenziali molto diffusi e relativamente generosi, per cui non pochi preferiscono stare on the dole e non lavorare. Solo in minima parte (purtroppo) noi abbiamo questi problemi: un welfare generoso e indirizzato al cittadino noi dobbiamo costruirlo, più che riformarlo al fine di scoraggiare l’opportunismo dei destinatari. Il proposito generale di questa parte della relazione, in un confronto colla sinistra tradizionale e la destra, dovrebbe essere quello di mostrare che i riformisti vogliono un sistema universalistico, più spostato verso i servizi (donde l’insistenza per una P.A. eccellente) e verso ammortizzatori efficaci: solo in queste condizioni una maggiore flessibilità del mercato del lavoro non va a danno dei lavoratori. E che vogliono un sistema pubblico di qualità elevata e uniforme, anche se non escludono interazioni tra pubblico e privato. Questo vale per la previdenza e soprattutto per la sanità e per l’assistenza in caso di grandi rischi: i diritti sociali sono presi altrettanto sul serio della sinistra tradizionale. In particolare.

 

Previdenza. Non c’è una divisione di principio tra sinistra tradizionale e sinistra riformistica, se non forse una maggiore disponibilità della seconda nei confronti di schemi a capitalizzazione integrativi in questa fase di sviluppo e a questi livelli medi di reddito pro-capite, al fine di stimolare la responsabilità individuale; ma anche i riformisti condividono l’idea che i sistemi a capitalizzazione non sono una panacea (se si tien conto delle effettive coppie rischio/rendimento) rispetto ai problemi previdenziali di questa congiuntura demografica e dunque avranno un ruolo limitato, anche se utile in termini di diversificazione, nello sviluppo della previdenza del nostro paese. Ci sono però numerosi problemi pratici che oppongono chi minimizza la crisi (e le implicazioni della crisi) del sistema previdenziale pubblico e coloro che ne sono preoccupati: anche se ciò non discende da posizioni di principio, di fatto i riformisti prevalgono tra i "preoccupati" e i tradizionalisti tra i "minimizzatori", forse perché essere preoccupati e cercare di intervenire porta al conflitto con le proprie basi tradizionali e col sindacato. Ammettiamo anche (non è vero e non è solo questione della "gobba") che la quota di Pil assorbita dalla previdenza non sia soggetta ad ulteriori tendenze espansive, ed ammettiamo anche che non generi ulteriori problemi di sostenibilità finanziaria in senso stretto: ma come non riconoscere che è comunque troppo alta rispetto ad usi probabilmente assai migliori (in termini di equità e di efficienza) delle scarse risorse pubbliche? I "preoccupati" apprezzano ovviamente lo sforzo della Cgil (costoso in termini di popolarità) di aderire al contributivo pro rata per tutti, forse già nel 2000; si augurano anche che le pensioni più magre, e la loro stretta dipendenza da ulteriori anni di contribuzione, inducano coloro che avrebbero titolo ad una pensione di anzianità a ritardare l’uscita del lavoro. Ma nonostante l’alea di incertezza che grava sulle proiezioni economico-demografiche di lungo periodo, si rendono conto che è necessario allungare rapidamente l’età media dell’effettiva andata in pensione: i modi si possono discutere, l’obiettivo è ineludibile. E’ ineludibile già all’interno del sistema previdenziale, se si tien conto del moltiplicarsi in un futuro lontano di carriere contributive intermittenti e povere e, nel futuro vicino, di gravi problemi di ristrutturazione: le pensioni di anzianità di chi può rimanere al lavoro sono tanto più inaccettabili se c’è bisogno di prepensionamenti (una specie involontaria di pensioni di anzianità) o altre forme di integrazione del reddito per chi il lavoro lo perde avanti negli anni.

 

Ammortizzatori, assistenza, politiche attive. Ma un ripensamento degli equilibri finanziari della previdenza è ineludibile soprattutto se ci riferiamo in termini di sistema all’intero problema del lavoro (previdenza-assistenza-formazione) e dei suoi rischi, in un ambiente di flessibilità e di continuo adattamento strutturale. Come finanziare un progetto di ammortizzatori sociali degno di questo nome? Come passare da una protezione categoriale ad una universalistica? Come sostenere politiche attive del lavoro, di training e re-traning? Come rispondere alla sfida della disoccupazione giovanile, che non può più essere lasciata al semplice sostegno della famiglia? Il tutto nel contesto della "sgradevole aritmetica" che abbiamo descritto prima? La riflessione più sistematica e la proposta di intervento più incisiva che il centro-sinistra abbia prodotto è quella della Commissione Onofri: quanti sono d’accordo col suo impianto? Oggi si sta procedendo con una miriade di micro-interventi (aumento detrazioni fiscali, assegno per le famiglie con almeno tre minori, aumento degli assegni al nucleo famigliare..). Non basta. Ci dev’essere un disegno d’insieme, consapevole dei vincoli di bilancio, che rappresenti un compromesso ragionevole tra le diverse concezioni del welfare che albergano nel centro-sinistra. Se no è difficile "vendere", anche elettoralmente, la "molteplicità apparentemente confusa" degli interventi governativi.

 

3.7Il Mezzogiorno

E’ un argomento troppo importante per parlarne per accenni. Solo una domanda per avviare la discussione: il Governo è ancora convinto della strategia della "programmazione negoziata", l’idea forza della prima fase della legislatura?

 

 

Un epilogo in forma di "Nota Bene"

Questa relazione era stata scritta, in larga misura, prima dell’annuncio di un Congresso in tempi così rapidi e il suo proposito era quello di dare un’idea della posizione riformista su temi economico sociali nell’ottica dei 500 giorni. L’imminenza del congresso ne cambia il senso ma non ha permesso di cambiarne radicalmente l’impianto: ora il senso non può che essere quello di una posizione congressuale, ma l’impianto non è in grado di sostenerlo perché troppo limitato nel suo orizzonte, troppo dettagliato, troppo "accademico" e pre-politico.

Con un po’ di buona volontà non è però difficile tirarne fuori una posizione politica chiara: giova a questo scopo la continua contrapposizione tra "sinistra riformistica" e "sinistra tradizionale" a proposito di singole politiche, che per fortuna era presente nel testo originale. In un testo esplicitamente politico questo contrasto dovrebbe essere ricondotto alle sue radici ultime, e dunque ricercato nei ritardi di elaborazione del partito, nel fallimento della Cosa 2, nella permanenza di una concezione classista di origine marxiana in tanta parte della sinistra tradizionale. La concezione marxiana (ma tutta intera, con i suoi indispensabili corollari circa la coincidenza tra l’interesse particolare della classe e l’interesse della società, sull’abolizione del mercato e del lavoro salariato, ..) è una cosa grande e terribilmente seria. Se la si spoglia di questi insostenibili corollari, e dunque della necessaria coincidenza tra interesse particolare e interesse generale, il "riferimento al lavoro" non è fonte di legittimazione della sinistra come partito politico, ma una rispettabilissima posizione sindacale, quel modo di "stare dal lato dei produttori" (come opposto allo stare dal "lato degli utenti") che abbiamo criticato più sopra. Caricature? Vedremo. Forse non in questo congresso, ma in una prossima Bad Godesberg. Purché non sia "all’italiana".

Se è possibile tirar fuori da questi materiali una posizione politica chiara, sembra più difficile tirarne fuori una posizione politica trascinante, un programma elettorale che parli al cuore, oltre che alla mente, degli italiani e soprattutto dei giovani. Da un lato la "ragionevolezza" riformistica, il riferimento a compatibilità e "sgradevoli aritmetiche", non ha mai alimentato grandi sogni, disegni politici trascinatori: in un partito di sinistra è sempre stato abbastanza facile gabellare quell’atteggiamento come politica di basso profilo, semplice conservazione dello status quo. Dall’altro – e specialmente in Italia oggi- un riformismo radicale si scontra contro interessi forti e ben difesi nell’ambito della stessa nostra parte politica: a differenza di chi ritiene il riformismo una posizione politica di basso profilo, mi sembra che un riformismo ben inteso sia una posizione dura, impopolare, coraggiosa. Rimane il fatto che "vendere" il riformismo, trasformarlo in una posizione politica elettoralmente convincente e di successo, non è per nulla facile e l’onere di provare che ciò è possibile spetta ai riformisti stessi. Blair c’è riuscito, un po’ per circostanze storiche particolari (le riforme Thatcher), ma anche, e molto, per una campagna ideologica di efficacia straordinaria, che ha spazzato via quell’atmosfera modesta e "ragioneristica" che troppo spesso circonda il riformismo in un partito di sinistra. In questa campagna forse ci si è spinti troppo, fino ad estollere in termini entusiastici fenomeni che giustificano invece una lettura più preoccupata (la globalizzazione, per esempio). E’ però evidente che il "meno peggio" non è un messaggio facilmente vendibile e che noi, riformisti italiani, abbiamo molto da apprendere, adattandola alle nostre circostanze, anche dalla retorica della "Terza via".


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