Al centro l'individuo e la libertà Franco Debenedetti
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Al centro l'individuo e la libertà
Serve una convinta svolta riformista
Ma il rischio più grave è assecondare la destra
Questo è il testo dell'intervento del senatore Franco Debenedetti a un convegno che si
è tenuto a Roma l'11 ottobre.
"Il discorso dei riformisti - scrive Michele Salvati nella sua relazione - parte
molto prima delleconomia, parte da problemi di identità la cui discussione crediamo
sia benefica, ci costringe a pensare non più in termini di classe ma di individui, a
spostare laccento sulle libertà, sia intese come assenza di costrizione (libertà
da) sia e soprattutto come libertà di, come attribuzione al massimo numero di persone
della capacità di controllare il più possibile il proprio destino".
E questo per me il passaggio chiave, il nucleo generatore dellintera
riflessione di Salvati: in esso ritrovo pienamente le ragioni della mia collocazione tra i
riformisti. Pensare in termini di individui e di libertà è una grande acquisizione per
la sinistra, un approdo dopo un lungo e travagliato cammino.
Alcuni giorni fa mi è accaduto di rileggere: "Gli intellettuali che sono divisi
dal PC sulla questione della libertà, dovrebbero chiedersi che cosa intenderebbero fare
di quella libertà di cui sono tanto solleciti. E allora vedrebbero che tolte le pigrizie,
tutti gli interessi inconfessabili di ciascuno (vita comoda, meditazione indeterminata,
sadismi eleganti), non esiste istanza in cui diano risposta diversa da quella collettiva
del PC". La frase è di mezzo secolo fa, lautore è Cesare Pavese.
Questo travagliato cammino non fa parte della mia storia. Quindi non entro nel vivo di
una discussione appassionata, quella - per intenderci - sollevata dallarticolo di
Barbara Spinelli sulla Stampa dell8 Ottobre, nello "scavo e dolore" di cui
scrive Salvati.
Non fa parte della mia storia ma fa parte della storia. E non condivido affatto
lidea di voler frettolosamente "volentieri consegnare alla storia" questo
secolo: e questo proprio a causa del valore e dellimportanza dellacquisizione
di cui dicevo allinizio, quella di voler : mettere al centro lindividuo e la
libertà. Questo è un secolo che parte e ritorna a valori di libertà e, dopo disumane
crudeltà in cui ha corso il rischio di perdere se stesso, oggi ritrova una libertà a
livelli di inclusione e di equità impensabili per il liberismo di inizio secolo, quando
il viaggio ebbe inizio. Questo noi consegniamo al secolo che viene; e poichè ne siamo
consapevoli, sarebbe riduttivo, per noi riformisti, sottolineare semplicemente
"lorigine liberale della tradizione bicentenaria della sinistra moderna".

Pensare non più in termini di classe, spostare laccento sulle libertà
individuali ha dirette implicazioni in termini politici e programmatici: è da questa
acquisizione, infatti, che discende la necessità della "trasformazione micro in
tutti i mercati e tutte le istituzioni", del superamento "del modello di
crescita della grande industrializzazione postbellica". Questa non è una scelta
tattica che deriva dallanalisi della fase. Lanalisi della fase ci porta ad
aderire alle politiche macro - risanamento della finanza pubblica, rinuncia
allinflazione e alle svalutazioni competitive; ma queste sono solo alcune delle
possibili condizioni entro cui sviluppare una politica di libertà individuali, forse non
sono neppure una condizione necessaria, certo non ne sono condizione sufficiente.
Invece è solo dalle politiche micro che possiamo attenderci la creazione dello spazio
per le libertà individuali, dove ognuno abbia la possibilità di realizzare i propri
piani. Le politiche micro non sono semplicemente "una molteplicità confusa di
obbiettivi", lo spazio residuale lasciato dal Washington consensus: sono il terreno
su cui dimostrare che noi riformisti sappiamo "promuovere il merito e
liniziativa individuali, le libertà da e le libertà di".
Noi sappiamo di essere in grado di realizzare questo progetto evitando le fratture, i
costi sociali, e dunque linefficiente utilizzazione delle risorse, che hanno
accompagnato in altri paesi le riforme compiute dalla destra. E se è accaduto con quelle
destre, figurarsi con le nostre! In astratto sono molti quelli che in Italia ci
accreditano di questa capacità: ma dubitano della nostra capacità di realizzarla nel
concreto. Quando sostengo le tesi che costituiscono la seconda parte del documento di
Salvati, sovente mi sento dire: "Ma tu che ci fai con quelli?". La frase
dovrebbe preoccuparci: non la direbbero se ci credessero capaci di realizzare il
riformismo che diciamo di volere.
Convincere la maggioranza degli elettori che noi sappiamo governare nel senso di
realizzare questo progetto di libertà individuali in modo più efficace della
destra, è the name of the game e solo noi riformisti possiamo win the game.
Altro che "andare sul sicuro, curare solo il vecchio giardino"!
Ma per convincere è fondamentale essere coerenti e dunque portare fino in fondo il
ragionamento sulla libertà, accettarne tutte le conseguenze: fino al passaggio impervio
che questo inevitabilmente comporta: bisogna ridefinire il rapporto con il sindacato. In
questo sta ciò che mi differenzia dalla posizione di Salvati. Di fronte a questo
passaggio egli esita: stiamo pagando cara - scrive - "lassenza di una
discussione identitaria seria nel partito e in particolare il mancato chiarimento nei
rapporti tra un partito di sinistra e il sindacato". Non si tratta di due cose
distinte: la riflessione identitaria e il chiarimento dei rapporti con il sindacato sono
in larga parte - la stessa cosa.
Il ragionamento è lineare:
- noi rivendichiamo come nostro, di noi sinistra riformista, il pensare in termini di
individui e di libertà di controllare il proprio destino.
- le politiche micro sono lo spazio programmatico e la condizione per realizzare la
crescita di competitività del sistema economico.
- esse sono mirate alla concorrenza, ai consumatori, ai giovani, agli esclusi.
Il sindacato è stato una straordinaria risorsa. Ma, rispetto al programma di libertà
individuali che abbiamo posto al centro del nostro programma, il sindacato non può non
essere un elemento di freno. Perchè è culturalmente figlio del modello di crescita della
grande industrializzazione post bellica; perchè è portatore di interessi settoriali, e
protegge in primo luogo gli inclusi. Mentre levoluzione, per la sinistra, non solo
è possibile senza dover rinnegare se stessa, ma anzi è necessaria per poter inverare se
stessa, questa evoluzione, per il sindacato, comporterebbe la negazione della sua natura e
della sua cultura.
La natura e la cultura del sindacato sono certo compatibili con politiche di
risanamento e di uscita dallinflazione: i sindacati, che pure avevano avuto parte
nelle scelte che portarono al dissesto della finanza pubblica, si sono assunti la
responsabilità di consentirne il faticoso rientro, in cambio del ruolo politico loro
riconosciuto con la concertazione. La politica della concertazione merita il
riconoscimento di "pietra angolare" per quanto fatto in un passato recente: ma
occorre riconoscere che adesso lagenda politica è cambiata. Ciò che era pietra
angolare in un contesto può essere zavorra che ci frena in un altro.

E per il nostro rapporto con il sindacato che noi non risultiamo credibili agli
occhi di coloro che dobbiamo convincere che noi siamo in grado di realizzare il programma
di libertà e di sviluppo. Non è possibile volersi rivolgere ai consumatori, ai giovani,
agli esclusi, e lasciarsi frenare dal timore di perdere il consenso elettorale di gruppi
organizzati, che sono organizzati proprio per difendere interessi che con quelli sono in
contrasto. Organizzare gli interessi diffusi è un passaggio difficile, ma che non è
possibile evitare. Organizzare gli interessi diffusi vuol anche dire usare i mezzi di
comunicazione di massa; viene il sospetto che alla radice della nostra diffidenza verso i
media televisivi ci sia anche una qualche incertezza circa lobbiettivo primo della
nostra comunicazione.
Se la condizione di ogni riformismo - e anche di ogni politica di assistenza mirata
è una pubblica amministrazione efficiente, chi protegge le attuali strutture della
P.A. è "oggettivamente" un ostacolo e non un alleato. Politiche che promuovano
concorrenza, che facilitino la mobilità dei fattori produttivi, che premino il merito,
che liberino gli individui dalle costrizioni di una pubblica amministrazione come la
nostra: chi è riformista non solo pensa che non siano "controproducenti in termini
di valori stessi della sinistra", ma ritiene al contrario che siano quelle più
autenticamente di sinistra. E in primo luogo lambiguità che consegue al non
saper rinunciare al rapporto privilegiato con il sindacato, ciò che rischia di
trasformare questi "valori" in battaglie perdute. Il guado va attraversato: la
mancanza di questo scatto ci condannerebbe a essere minoranza.
I riformisti non cercano battaglie perse in partenza, e non vogliono che la sinistra
perda. Ma è un fatto che le sinistre che in Europa governano, mantenendo o accrescendo il
consenso che le ha portate al potere, sono quelle di Inghilterra e Francia, cioè quelle
che hanno vissuto i duri anni di opposizione, sotto la Thatcher o nella coabitazione del
secondo Mitterand, cioè proprio negli anni 80, in cui maturava la discontinuità
che sinteticamente chiamiamo globalizzazione. Da noi così non è stato, la discontinuità
è stata evitata: ma si è anche evitata la inevitabilmente dolorosa ricerca di una nuova
identità. Ma questo ha un prezzo, la necessità di dover sempre cercare qualcosa: in
passato la legittimità a governare, oggi ancora i personaggi che rassicurino, o
aggreghino, o garantiscano. E succede che si senta perfino rimpiangere di "aver
lasciato alla destra Guazzaloca": ma vale la pena vincere cercando qualcuno che vinca
per noi?
Per essere identificati come portatori di innovazione dobbiamo essere capaci di mandare
messaggi ad una parte fondamentale della società. La maggioranza della popolazione attiva
è costituita o da autonomi o da piccoli imprenditori: nel migliore dei casi, a costoro la
sinistra non sa dire nulla, perlopiù li rappresenta come gretti, egoisti, evasori
fiscali. Nei confronti della maggioranza della popolazione attiva, non riusciamo a trovare
un linguaggio adatto nè idee-forza. Al contrario, verso i grandi produttori, la sinistra,
al Governo o allopposizione, sa trovare i linguaggi che consentono di stipulare
alleanze.
Quello del rapporto con il sindacato è un punto nodale, ma non lo si risolve
giustapponendo ad un rapporto speciale con il sindacato, quasi a fargli da contrappeso, un
rapporto speciale con il grande potere economico e industriale. E invece proprio questo
sembra essere il filo conduttore di tante scelte, tra il controverso e lo sconcertante. Mi
limito ad elencare alla rinfusa: fondazioni, Wind, strategia multiutility per Enel,
la vicenda di un concambio azionario fatta diventare affare di stato, nomine ENI, teoria
dei national champions, piani regolatori, preoccupazioni perchè un fondo americano
compra una fabbrica di scooter. Se si teorizzano equilibri da Italia medicea, si finisce
in conclusioni francamente sconcertanti, ad esempio, come è stato autorevolmente
commentato, che lindebolimento degli Agnelli "indebolisce le istituzioni
democratiche". Fa parte di un programma riformista la regola per cui lunica
cosa che il Governo deve promuovere è il funzionamento del mercato, dei beni come dei
capitali. Una delle cose migliori che abbiamo fatto è stata la legge Draghi, e la cosa
migliore che penso di aver fatto è stato il convegno, a Torino, in cui la grande
industria privata manifestò la propria accettazione delle nuove regole di corporate
governance. Interessò quasi 1000 persone, sul palco il gotha del capitalismo
italiano. Non venne nessuno del partito nel cui gruppo parlamentare lavoro.
Il documento di Michele Salvati si chiude con un elenco di temi che costituiscono un
progetto riformista. In questo elenco si iscrivono le mie iniziative in Parlamento e sui
giornali. Nei momenti di maggiore ottimismo arrivo a pensare che a formare il clima
culturale su cui Salvati riflette, le proposte che avanza, e i dubbi che esprime, abbiano
contribuito anche queste mie iniziative. E ho persino larroganza di ritenere che
esse siano sufficientemente note da esimermi dal ricordarle.
Ma su una di esse desidero spendere due parole: la proposta di legge sui licenziamenti
per giustificato motivo, che traduce in articolato il progetto di Pietro Ichino. Molti dei
referendum in materia di lavoro verranno dichiarati inammissibili dalla Corte, ma quello
sui licenziamenti verrà con ogni probabilità dichiarato ammissibile. La nostra proposta
non dà la libertà di licenziare, si limita a definire le condizioni di applicazione del
licenziamento per giustificato motivo previsto dallo statuto dei lavoratori. Mentre il
referendum fa a pezzi lo statuto, noi ci limitiamo a sottrarre il licenziamento per
giustificato motivo alla variabilità della decisione del giudice, riportandolo a una
normativa certa, decisa in sede politica, e che reca importanti innovazioni a favore degli
interessi dei lavoratori.
Se il referendum sarà ammesso, e se non si interverrà prima con uno strumento di
legge,. si andrà a votare. La maggioranza a quel punto naturalmente si opporrà e farà
campagna per il no. E sarà una lose lose proposition. Perchè se vince il sì,
sarà una sconfitta politica grave, e sarà arduo poi varare una legge che ne mitighi gli
effetti e offra qualche protezione ai lavoratori. Se vince il no, non solo di
flessibilità non si parlerà per 10 anni, ma noi saremo percepiti come gli intransigenti
custodi di un istituto simbolo della rigidità del vecchio rapporto di lavoro. Cè
ancora un po di tempo: la proposta è lì, è quantomeno una base di lavoro.
Anche questo fa parte di un discorso aperto. E i discorsi aperti non è il caso di
chiuderli.
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