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Berlusconi è il prodotto di un'Italia malata

Marco Vitale


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"Ipse vult esse dominus et simul vult esse mercator: esse autem dominum et mercatorem impossibile est". Riferito a Alvise Gritti, Venezia 1534.

Qualche anno fa Paolo Sylos Labini, parlando del nostro Paese, lo definiva un paese bruttino. Io apprezzai allora questa espressione così misurata ed elegante e qualche volta mi capitò di citarla, anche se, dentro di me, pensavo che non fosse realistica. Oggi Sylos parla di un paese che attraversa un periodo fosco. Ed io, che sin da allora giudicavo il nostro paese un paese fosco, come posso chiamarlo oggi?

Qualche volta mi viene alle labbra l’espressione: turpe. Ma, forse, è meglio rinunciare a questi aggettivi che, inevitabilmente, finiscono per esprimere stati d’animo soggettivi e sostituirli con una constatazione più oggettiva. Io credo che possiamo semplicemente parlare di un Paese dove nessuno dei grandi fondamenti di una democrazia effettiva funziona. Non funziona la giustizia. Non funziona la stampa. Non funziona il rapporto tra elettore e Parlamento, se è vero che i parlamentari eletti in una certa compagine politica perché portino avanti una certa linea politica vengono a trovarsi, in Parlamento, schierati su una linea e in compagini del tutto opposte a quelle originarie.

Non funziona il ruolo dei sindacati, partiti occulti e con poteri economici importanti, totalmente privi di regolamentazioni, trasparenza ed "accountability". Non funziona il dibattito democratico, perché appena qualcuno solleva dei problemi veri, basati sulle cose e sui fatti, andando, sia pure con spirito costruttivo, contro la linea ufficiale, viene aggredito ed intimidito con violenza inaudita. Siamo ormai proprio all’intolleranza assoluta ad ogni ragionamento critico basato sui fatti, non tanto nell’ambito dei politici, ma piuttosto di tutti quelli e di tutto quello che, anche lontanamente, si avvicina alla politica. Non funziona nessun principio di deontologia professionale, di rispetto della professionalità, di responsabilità personale.

Possiamo, in questo contesto, meravigliarci che la corruzione sia così fiorente? E possiamo, collegando i due argomenti, lanciare la suggestione che, dopo tutto, la corruzione è, in gran parte, da ricondurre alla posizione istituzionalmente anomala di Berlusconi? La risposta è negativa su entrambi i punti. In questo contesto non dobbiamo meravigliarci che la corruzione sia così fiorente, anzi dobbiamo meravigliarci che rimanga relativamente contenuta; non possiamo in alcun modo imputare a Berlusconi di essere la causa principale della corruzione italiana. Non possiamo e non dobbiamo, perché così facendo ci precluderemmo la comprensione dei fatti e, quindi, anche ogni speranza di correzione degli stessi.

Il ricordo storico di Sylos Labini sull’Inghilterra del ‘700 è, certamente, corretto e suggestivo. Ma abbiamo tanti altri esempi più recenti che dimostrano che la corruzione si può vincere o, meglio, contenere, anche in paesi meno blasonati della grande Inghilterra. Del resto la corruzione restò molto alta in Inghilterra sino alla fine dell’800 e fu solo in quella fase che, attraverso un miglioramento di tanti meccanismi democratici, fu in sostanza debellata.

Oggi la lotta alla corruzione è diventata un tema di politica internazionale che vede impegnati organismi come l’Onu, la Banca Mondiale e Transparency International che, tra l’altro, fa un monitoraggio continuo dell’evoluzione della situazione nei diversi paesi. L’esplosione della questione russa dimostra che, quando la corruzione di un Paese diventa troppo grande e minaccia di attaccare il sistema, la comunità internazionale si difende. E l’epicentro della difesa sono gli Stati Uniti.

Quando Sindona, al vertice del suo potere, acquistò la Franklin Bank negli Usa, avendo una qualche idea della persona e dei suoi metodi, io dissi, allora: "Sindona ha sbagliato campo di gioco. Se fosse rimasto in Italia, sarebbe diventato ministro del Tesoro. In America verrà travolto". Così è stato e così sarà sempre. Anche gli Stati Uniti sono oggi molto più corrotti di quanto non fossero negli anni ’60. Ma essi hanno interiorizzato il principio che, al di là di un certo limite, la corruzione diventa pericolosa.

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Ed è proprio l’America dei primi 10 anni del secolo che ci fornisce, forse, l’esempio più illuminante di questa problematica. Verso la fine del secolo, anche la democrazia americana era preda della corruzione più grave a tutti i livelli, dallo strapotere economico dei "robber baron" ("i malfattori della grande ricchezza") agli incesti più gravi tra potere economico e potere politico. I "rings and halls" (politicanti affaristi) prosperavano a spese del pubblico erario vendendo diritti pubblici e proteggendo chi sfruttava il delitto e il vizio; in molte città la polizia era sul libro paga della malavita; il sistema politico era dominato dal sistema dei "caucus" (commissioni occulte di dirigenti di partito che assegnavano e mercanteggiavano ogni tipo di carica).

Fu poi il Paese, nel suo insieme, che si mosse, prima in chiave di rivolta e poi attraverso la costruzione di nuove leggi, nuove istituzioni, nuovi meccanismi. Fu il ventennio dal 1896 (l’anno della prima battaglia di Bryan) al 1916 (l’anno della seconda battaglia di Wilson) il periodo delle riforme e, attraverso le riforme, della battaglia vinta contro la corruzione. Furono gli anni delle battaglie contro gli sfruttatori ed i corrotti di tutti i tipi, ma furono anche gli anni della nuova organizzazione dei governi locali, del referendum, del suffragio femminile, delle elezioni primarie, delle leggi contro le pratiche corrotte, dell’istituzionalizzazione del merito, delle misure difensive e preventive contro la criminalità, delle misure a favore della gioventù a rischio e di quelle in difesa delle ricchezze naturali del Paese contro la speculazione, della legislazione per contenere i poteri dei grandi trust economici.

Fu in quegli anni, prima nei singoli stati e poi, con Theodore Roosvelt, a livello federale, che tutti i meccanismi della democrazia vennero smontati, ripuliti e rimontati. Nel 1900, per fare l’esempio più significativo, il Wisconsin era dominato da un milionario trafficante di legnami, da un boss delle ferrovie e da un loro mandatario politico, sicché l’intero Stato "era un vassallo degli interessi ferroviari, forestali ed elettorali che, attraverso il complesso dei funzionari federali, nominavano ed eleggevano governatori, senatori e rappresentanti al Congresso; questi, a loro volta, usavano il potere per arricchire i loro sostenitori. La protezione statale e federale era impiegata per gli stessi fini. La sessione biennale del Parlamento era un carnevale a beneficio di pochi. La politica era un commercio privilegiato, al quale potevano accedere uomini ambiziosi soltanto col consenso della macchina statale. Pochi ritenevano possibile un altro sistema; e nessuno sfidava il governo dell’oligarchia che distribuiva le cariche elettive o di nomina in vista della conservazione del proprio potere politico e industriale. Non c’era nessuna protesta organizzata. La stampa era indifferente e controllata".

Dopo 25 anni trascorsi sotto la guida del giovane La Follette, che riuscì ad essere eletto Governatore dopo una grande battaglia politica nel 1900 mobilitando tutte le forze sane dello Stato, il Winsconsin era diventato la Danimarca del Nuovo Mondo, offrendo un modello che fu ammirato e seguito da tutto il Paese.

Quello che è avvenuto negli USA - il passaggio da una fase di denuncia ad una fase di ricostruzione - è esattamente ciò che non è avvenuto in Italia negli anni ’90. All’azione positiva di una parte della magistratura, a una tesa partecipazione di larga parte dell’opinione pubblica, non ha fatto seguito la fase istituzionale, culturale, politica. Ma questo non è casuale. E’ la conseguenza del fatto che le forze favorevoli alla corruzione, come sistema, hanno finito per prevalere sul piano politico, favorite da una magistratura che ha, in gran parte per sua stessa colpa, perso ogni immagine di serietà, indipendenza, affidabilità.

Per questo la corruzione, pur avendo mutato probabilmente volto ed assunto aspetti sempre più sofisticati e difficili da identificare, resta da noi così rilevante ed è destinata a diventare sempre più importante. Possiamo attribuire tutto questo a Berlusconi? Magari la soluzione fosse così semplice.

Berlusconi c’entra poco o nulla con il tema generale della corruzione italiana, anche se, ovviamente, potrebbe essere stato protagonista di episodi di corruzione anche rilevanti. Anche i tentativi di batterlo e bloccarlo sul piano giudiziario sono falliti, e io dico fortunatamente falliti, perché essi erano, anche, in gran parte improvvidi. Prendiamo la vicenda relativa alla presunta corruzione di esponenti della Guardia di Finanza. Io ho l’assoluta "certezza" (derivante non da prove ma dall’esperienza, dal "id quod plerumque accidit") che le aziende di Berlusconi abbiano pagato dei "pizzi" a qualche esponente della Guardia di Finanza; sono altrettanto certo (perché, come lui stesso mi spiegò un giorno, nelle sue aziende lui sapeva tutto di tutti ed è semplicemente ridicolo pensare che lui non fosse al corrente di vicende di questo tipo) che Berlusconi sapesse dell’esborso di questi "pizzi" e li abbia approvati.

Dopodiché lo considero moralmente e politicamente innocente ed anzi considero lui, come grandissima parte degli imprenditori italiani, anche giuridicamente innocente, in quanto vittima di un sistema di estorsione organizzata che da almeno 30 anni era dominante nell’ambito della Guardia di Finanza, un fenomeno di dimensioni assolutamente sconosciute agli altri Paesi industrializzati, tanto che, sin dagli anni ’60, ricordo, il "Wall Street Journal" gli dedicò una delle sue storie.

Questo giudizio, espresso da me che, sia chiaro, non voto Berlusconi e anzi lo considero politicamente un pericolo pubblico, è lo stesso di quello di milioni di persone che lo votano. Ed è un giudizio corretto o, perlomeno, profondamente comprensibile.

Il vero problema da dibattere sarebbe: preso atto che per 20 – 30 anni questo è stato il sistema, che cosa possiamo fare per cambiarlo? Altro che ricondurre tutto ad una questione personale del signor Berlusconi.

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Ma se oggi il tentativo di fermare Berlusconi giudiziariamente è, per fortuna, fallito, non è credibile sostenere che anche le sue fortune sono dovute alla sua decisione di entrare in politica. Quando prese questa decisione (e io credo che l'abbia presa almeno quindici anni fa!) era molto più debole economicamente di oggi. E lo era anche quando questa decisione si estrinsecò, più recentemente, con la costituzione del partito Forza Italia. Ma a questo punto la forza economica di Berlusconi era già molto importante ed il miglioramento dei conti del suo gruppo negli ultimi anni, certamente notevole, è stato il risultato del venire a maturazione di investimenti e iniziative da lui imposte in passato e di nuove corrette decisioni finanziarie (ad esempio la quotazione in Borsa, che in passato Berlusconi aveva sempre rifiutato), piuttosto che di particolari benemerenze e vantaggi derivati dalla politica.

La politica certo non gli ha fatto male neanche al portafoglio, contraddicendo tante previsioni dei suoi amici e consiglieri, che gli dicevano che ne sarebbe uscito rovinato. Berlusconi ha vinto su entrambi i tavoli: sul tavolo della politica perché, in modo ormai irreversibile, è diventato un leader nazionale; sul tavolo aziendale perché è più ricco di prima e la discesa in campo gli ha fatto fare delle cose aziendalmente assennate che, da solo, senza la sfida politica, probabilmente non avrebbe avuto la forza e la lucidità di realizzare.

Ricondurre questi successi alla sua - certamente non modesta - capacità manipolatoria, ad un suo presunto abuso della politica, non mi sembra fondato. Resta, dunque, solo ed esclusivamente il problema di Berlusconi grande imprenditore, uomo ricchissimo e al contempo leader politico, uomo di governo o quantomeno aspirante tale. E la questione ritorna ad essere semplicemente una questione di funzionamento del sistema democratico.

Un grande imprenditore e uomo ricchissimo, con le più svariate connessioni con l’economia e la società, non può, in un paese democratico moderno, (ma neanche nella Venezia del 1500) occupare posizioni di leader politico e di governo. E questo a prescindere dalle attività che svolge. Questa conclusione non è legata specificamente alla televisione e ai giornali e l’averla prospettata in questo senso è stato uno dei grandi errori di base. Certamente il fatto che l’attività principale di Berlusconi sia l’attività televisiva ed editoriale aggrava la situazione.

Ma Berlusconi opera ed operava in modo rilevante anche nella gestione del risparmio, nella grande distribuzione, nel settore immobiliare ed in molti altri. E’ difficile pensare a provvedimenti di politica economica che non interferiscano con i suoi interessi privati. Ma sarebbe lo stesso per Agnelli in Italia, per Wallenberg in Svezia, per Bill Gates negli Usa.

In questi casi vi è solo da chiedere un effettivo totale distacco fra l’attività politica e la gestione del patrimonio e delle aziende private. Si tratta di materia, comunque, difficile e dai risultati sempre parziali. Ma è l’unica via democraticamente percorribile. Eppure non è stata percorsa. Perciò anche qui è, ormai, molto molto tardi. E’ credibile sollevare seriamente questa questione oggi, dopo che per mesi e mesi si è trattato con Berlusconi sulle riforme costituzionali, in sede di Bicamerale, come se nulla fosse? E’ credibile sollevare queste questioni o insabbiarle a seconda di quanto fa comodo?

Io credo che, oggi, nessuno possa con un minimo di credibilità sollevare la questione dell'incompatibilità di Berlusconi leader politico e uomo d’affari, perché tale questione non è stata sollevata con la necessaria determinazione al momento giusto, perché per lunghi periodi si è fatto finta di niente, perché gli elettori italiani hanno dimostrato con il loro voto di essere totalmente insensibili alla questione. Fatto questo coerente con un Paese cinico, scettico, ademocratico.

Dunque noi, senza rendercene ben conto, stiamo con Berlusconi compiendo un ciclo che avevamo già percorso secoli fa. Quando pian piano i nostri comuni rinunciarono al loro regime democratico per affidarsi a forme di signoria, alcuni di quelli che assunsero il controllo delle città basarono il loro potere sulla forza e sulla maestria nelle armi. Ma altri erano solo mercanti ricchissimi che, stanchi di comprare e vendere lana, o di gestire i vari Banchi da loro stessi creati o di investire denaro nelle "venture" marittime, trovarono più interessante comprare le loro città. Come i Medici a Firenze.

Dunque la situazione è seria e, proprio perché lo è, non consente soluzioni o scorciatoie facili. Certamente una buona legge sulle incompatibilità può essere di qualche aiuto, soprattutto se potessimo affidarne l'"enforcement" alle autorità americane. Certamente la proposta di Sylos Labini, di richiedere l’applicazione del decreto n. 361/1957 è correttissima. E’ veramente il minimo che si poteva e doveva fare.

Un autorevole precedente lo troviamo nel Senato Romano. Questo consesso riuniva gli uomini più ricchi della città; quindi, passata la fase iniziale della Repubblica, quando a Roma, dopo la prima guerra punica e grazie alla enorme espansione dei possedimenti, si sviluppò la grande ricchezza, era un organo dove la ricchezza era elemento di forza e di onore. Tuttavia anche in questo Senato plutocratico, i senatori non potevano essere titolari di "appalti" pubblici.

Ma anche qui non è tardi, maledettamente tardi? Altro è dire a un giocatore che sta sulla soglia: no, tu non puoi entrare per questi e questi motivi. Altro è farlo entrare, farlo giocare alla grande e poi, a metà del gioco, dirgli: no, ci siamo sbagliati; tu non puoi più giocare, devi uscire. Credo che costui, se fosse persona decisa, non uscirebbe, e credo anche che avrebbe ragione a non farlo.

Allora, resta poco da fare. Resta solo la prospettiva di contenere il giocatore con la buona politica; resta da affrontarlo a viso aperto sul piano delle idee, delle capacità operative, degli uomini; resta solo, anche qui, un grande impegno per una rifondazione democratica.

Il breve periodo che Berlusconi ha trascorso al governo è stato un disastro per il Paese. Ma pochi hanno colto la relazione che esisteva tra la sua politica, e gli interessi che lo sostenevano, e questo disastro. Mentre lui, da uomo intelligente quale è, ha molto imparato ed oggi è un leader molto migliore di allora. Inoltre nel suo blocco politico sono confluite parte delle forze produttive sane ed attive del Paese.

Dunque l’impegno contro la corruzione resta un obiettivo primario del nostro Paese. Ma esso non deve avere come target Berlusconi, quanto la ricostruzione dei meccanismi fondamentali della democrazia. Bisogna dare qualche risposta positiva ai quattro bisogni fondamentali del nostro Paese: bisogno di diritto; bisogno di cittadinanza; bisogno di autorevolezza; bisogno di uguaglianza.

E’ rispondendo a questi bisogni che si possono, pian piano, ricostruire quei principi, quei valori, quelle regole che rendano, in futuro, impensabili operazioni e personaggi come Berlusconi.

Ma, oggi come oggi, Berlusconi si potrebbe battere solo con la buona politica, che, purtroppo, non ci sarà!

 

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