Essi fanno
riferimento, come accenna Marco Vitale nell'intervento pubblicato su questo stesso numero
di "Caffè Europa", a una norma entrata in vigore nel lontano 1957, quando
Berlusconi era un vulcanico ventenne, ancora ben lungi però dal costruire un impero
economico e dal fare il suo trionfale ingresso nell'agone politico.
Venne varato allora il Dpr 361, testo unico delle leggi per l'elezione
della Camera dei deputati, nel quale si legge tra l'altro: "Non sono eleggibili
inoltre coloro che, in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di
imprese private, risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di
somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole
entità economica, che importino l'obbligo di adempimenti specifici, l'osservanza di norme
generali o particolari protettive del pubblico interesse, alle quali la concessione o
l'autorizzazione è sottoposta".
Che Mediaset sia "vincolata allo Stato" per "concessioni
di notevole entità economica", quelle riguardanti le frequenze televisive, nessuno
può negarlo. Si potrebbe pensare quindi che il caso di Berlusconi coincida pienamente con
questa causa di ineleggibilità. E ne conseguirebbe che il Cavaliere non avrebbe mai
dovuto mettere piede a Montecitorio come rappresentante dei cittadini italiani. Del resto
lo scopo della norma è abbastanza chiaro: evitare che assumano il compito di legiferare
persone le cui fortune economiche personali dipendono direttamente da leggi dello Stato.
Tuttavia Berlusconi non è così sprovveduto da scivolare su una simile
buccia di banana. E si è infatti cautelato prima di entrare in politica, cedendo la
presidenza del suo gruppo a Fedele Confalonieri. Ciò nonostante, nel 1994 tre cittadini
presentarono alla Camera un ricorso per far dichiarare ineleggibile l'allora presidente
del Consiglio: Berlusconi non sarà più il "rappresentante legale" della sua
impresa, sostenevano i ricorrenti, ma detiene comunque "in proprio" la
maggioranza delle azioni.
Questa argomentazione venne però respinta con voto quasi unanime dai
membri dell'apposito Comitato per l'ineleggibilità e le incompatibilità di Montecitorio,
compresi quasi tutti gli esponenti della sinistra. L'espressione "in proprio",
replicò l'organismo parlamentare, deve intendersi come "in nome proprio" e non
può certo essere interpretata estensivamente in una materia come questa, che riguarda il
diritto fondamentale dei cittadini di presentarsi alle elezioni. Un reclamo dello stesso
tenore fu ugualmente bocciato nel 1996, all'inizio della presente legislatura.
Da un punto di vista formale, insomma, Berlusconi sembra essere in una
botte di ferro, anche se la soluzione da lui adottata può essere discussa sotto il
profilo sostanziale. D'altronde già in passato il Cavaliere aveva aggirato in maniera
analoga, attraverso la cessione della proprietà del "Giornale" al fratello
Paolo, il divieto, stabilito dalla legge Mammì, di controllare contemporaneamente più
reti televisive e un quotidiano nazionale.
Per far valere l'ineleggibilità del leader di Forza Italia ci vuole
quindi un nuovo provvedimento, che modifichi il decreto del 1957, come suggeriscono
appunto i tre autorevoli studiosi di cui sopra. A farsi portatore di questa istanza in
Parlamento è stato il deputato Elio Veltri dei Democratici, che ha presentato un apposito
progetto di legge per estendere l'ineleggibilità a chi sia semplice controllore di una
società titolare di concessioni statali.
Se la proposta passasse, Berlusconi non potrebbe più essere eletto
parlamentare, anche se potrebbe continuare a guidare Forza Italia dall'esterno delle
Camere. Ma soprattutto potrebbe gridare alla persecuzione, potrebbe dire che i suoi
avversari politici hanno approvato una legge "ad personam", recante il nome e il
cognome del destinatario, fatta apposta per tenerlo fuori da Montecitorio. Ed è palese
che, in un'eventualità del genere, ogni ipotesi di accordo tra maggioranza e opposizione
sulle riforme istituzionali andrebbe a farsi benedire.