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Herbert Marcuse, l'ultima spiaggia di Utopia

Leonardo Casini

 

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 50 di Reset del settembre-ottobre 1998

Non sono occorsi molti anni, subito dopo il 1968, per comprendere - con la crisi dei movimenti della "nuova sinistra" - che la notorietà e la diffusione del pensiero di Herbert Marcuse, uno dei massimi ispiratori dei movimenti di rivolta di quel periodo, era stata, all’epoca, eccessiva; il grande riflusso politico-culturale dalla fine degli ’70 in poi, la crisi ideologica e politica del marxismo, la caduta del Muro di Berlino e il crollo del "comunismo reale" hanno poi accumulato altra polvere sul nome di un pensatore che appariva sempre più fuori moda. Ma oggi , all’opposto, ci si sta accorgendo che anche quella polvere è diventata troppo alta e spessa, che si è andati oltre il segno e che Marcuse è stato uno dei più grandi pensatori politici del nostro secolo, ingiustamente dimenticato, come era stato prima ingiustamente e improvvisamente sopravvalutato, sotto la pressione degli eventi.

Nella ricorrenza del centenario della nascita ( Marcuse nacque a Berlino il 19 luglio 1898 da una ricca famiglia ebrea), si diffonde così sempre più il sospetto che l’oblìo in cui Marcuse è stato confinato è eccessivo : convegni ( se ne terrà uno internazionale a Roma, presso il Goethe-Institut il 15-16 ottobre prossimo), giornate di studio, seminari, saggi, giornali e riviste quest’anno ricordano in modo discretamente frequente il pensatore tedesco, emigrato negli Stati Uniti all’ascesa al potere del nazismo. E’ anche vero che il centenario della nascita di Marcuse coincide con la ricorrenza del trentennale dal 1968, e che questa concomitanza ha contribuito notevolmente - nello spirito di fine millennio - a ritornare a quei temi e ha stimolato il bisogno di fare bilanci, valutazioni, riflessioni sul personaggio e sulla sua influenza in quella stagione importante del nostro secolo. Ma non sarebbe avvenuto tutto ciò se non vi fossero motivi più profondi di rinnovato interesse per un pensiero troppo frettolosamente messo da parte.

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Ciò che oggi si può con più agio considerare anzitutto, potendo vedere con maggiore distacco i cinquantasei anni (1922-1978) di produzione filosofico-politica di Marcuse, è la grande varietà di motivi e di influssi culturali che hanno inciso lungo l’ampio sviluppo del suo pensiero, in cui il marxismo ha avuto sicuramente un ruolo decisivo, ma di cui non è stato certo l’unica matrice. Basti pensare che l’ultima opera di Marcuse, La dimensione estetica, è sostanzialmente un brillante pamphlet di accusa contro l’estetica marxista ortodossa.

Nell’intero arco evolutivo dell’opera di Marcuse occorre anzitutto ricordare la sua ottima e vastissima preparazione di germanista, e il lavoro monumentale pubblicato a 24 anni come dissertazione di dottorato, Il Romanzo dell’artista nella letteratura tedesca (Der Deutsche Künstlerroman), che in quasi cinquecento pagine ripercorre questo genere letterario dall’epoca romantica, a fine Settecento, a Thomas Mann ; un’opera in cui è visibile l’influenza hegeliana, anche attraverso l’interpretazione di Giörgy Lukàcs. Poi è da menzionare l’importante influsso di Husserl e di Heidegger , di cui fu brevemente assistente a Friburgo dal 1929 ai primi anni ’30. Frutto di questa altissima scuola è il volume L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, pubblicato nel ’32, in cui il pensiero di Hegel viene interpretato in maniera originale, a partire dallo storicismo diltheyano e dalla concezione heideggeriana della storicità.

Tra gli anni Trenta e i Quaranta - dopo che Marcuse divenne membro, nel ’32, dell’"Istituto per la ricerca sociale" di Horkheimer e Adorno - pubblicò sulla "Zeitschrift für Sozialforschung" una serie pregevoli saggi in cui rielaborava alcune categorie fondamentali del marxismo ( come ad es. il lavoro) sotto una angolazione esistenziale heideggeriana, e andava anche rivedendo, alla luce di questa filosofia politica, concetti fondamentali della tradizione filosofica e ideologica occidentale, dall’edonismo antico al liberalismo moderno. Su Hegel tornerà poi nel 1941, con Ragione e rivoluzione, un’opera in cui tutto il pensiero hegeliano viene interpretato in chiave "negativa", vale a dire in opposizione alle dittature nazifasciste che stavano devastando l’Europa.

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Poi l’incontro con la metapsicologia di Freud. Quel che Hegel aveva rappresentato per Marcuse sul piano più rigorosamente teoretico, rimanendo per lui un modello filosofico permanente, un ineguagliato culmine del pensiero speculativo e della comprensione dialettica della logica, della storia e dell’estetica, divenne, a partire dagli anni Cinquanta, per il nostro filosofo, Freud sul piano dei meccanismi psicologico-sociali e della genesi istintuale profonda della civiltà. Risultato di questo nuovo grande influsso è Eros e civiltà, del 1955, un’opera veramente rivoluzionaria, forse il capolavoro di Marcuse, in cui per la prima volta egli formula una proposta positiva, di società "liberata" dai meccanismi della repressione sociale che Freud considerava inevitabili per la costruzione di una civiltà, e quindi ormai irreversibili: l’impegno di Marcuse sta qui tutto nel dimostrare, al contrario, che la rinuncia degli istinti non sarebbe affatto indispensabile per la vita familiare, per il lavoro, per le istituzioni fondamentali della vita associata.

A testimoniare poi quanto fosse critica la sua fedeltà al marxismo sta Il marxismo sovietico, del 1958, in cui il filosofo svolge una linea di pensiero sottile, difficile, ma nitida e trasparente: dimostrare come il comunismo sovietico può essere criticato a partire dallo stesso marxismo, e come, facendo leva su quanto rimaneva di quest’ultimo nell’ideologia e nella società sovietica, si poteva compiere una sorta di "rivoluzione interna" al cosiddetto "socialismo reale". Un’ipotesi purtroppo fuori dalla storia e dalla concretezza, ma suggestiva e significativa degli orientamenti ideologici e politici di un uomo che potremmo chiamare il "padre di tutti i dissensi" antiautoritari, il filosofo che non ha mai smesso di contestare, a Ovest come a Est, i regimi che si autodefinivano "democrazie" - in tutti i sensi possibili - e dicevano ispirarsi alla tolleranza (una tolleranza a cui egli aggiunse polemicamente l’aggettivo di "repressiva").

Veniamo così alla diagnosi della società tecnologica avanzata che Marcuse ha tracciato ne L’uomo a una dimensione del 1964. Qui la prospettiva si rovescia : tutti gli spazi alternativi, tutte le forme di opposizione, tutte le dimensioni "altre" da quella della tecnologia al servizio dei consumi e del potere capitalistico (come anche della dittatura terroristica sovietica) sarebbero conquistati dal dominio apparentemente "democratico" della società industriale avanzata : l’uomo, la società e la cultura sarebbero ridotti all’unica dimensione tecnologico-consumistica, che condiziona nel profondo bisogni e desideri umani, precostituendoli. Una società, quindi, senza vera opposizione e senza libertà, come suona già l’inizio dell’opera : " Una confortevole levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico".

L’avversione ad una tecnologia che conterrebbe in sé già incorporata un’ideologia del dominio è di chiara matrice heideggeriana e prosegue, da sinistra, la condanna che Heidegger pronunciò contro la tecnica, in cui vide l’estremo consumarsi del nichilismo moderno. Nulla sfugge a questa non-libertà, tutte le classi, compresa la classe operaia, sono ormai pienamente integrate nel "sistema"; solo fuori del sistema, si potrebbe ancora trovare qualche potenziale rivoluzionario, "al di sotto della base popolare conservatrice", tra gli emarginati, " il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili", e - così termina L’uomo a una dimensione, con una citazione di Walter Benjamin - " è solo per merito dei disperati che ci è data la speranza".

Il vero paradosso è che proprio quest’opera, che preclude così drasticamente ogni possibilità di cambiamento e di opposizione, divenne il vademecum dei rivoluzionari del ’68. Certo, una simile diagnosi mette sotto accusa in modo implacabile, sullo stesso piano, capitalismo e comunismo, e, alla radice di ambedue, la stessa struttura tecnologica avanzata, scatena di per sé una spontanea reazione ad un "sistema" così soffocante. I contestatori trovarono quindi in questo libro il più fedele rispecchiamento della loro rabbia e i motivi della loro rivolta.

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Ma la plumbea atmosfera attribuita alla società tecnologica, descritta così efficacemente ne L’uomo a una dimensione, apparve essere dipinta a tinte troppo fosche, e svanì ben presto: quell’analisi non poteva reggere né ad esami più rigorosi né alla prova dei fatti. Fu lo stesso Marcuse ad accorgersene nelle opere successive (soprattutto nel Saggio sulla liberazione del 1969) allorché manifestò nuova fiducia nell’utopia di una società liberata. Una frase significativa, su cui grava chiaramente il peso delle tante obiezioni rivoltegli, esprime un nuovo modo di concepire la società tecnologica, ed è rivelatrice di un grande mutamento di prospettive: "E’ ancora il caso di sottolineare che non sono la tecnologia, né la tecnica, né la macchina gli strumenti della repressione, ma la presenza in essi dei padroni che ne determinano il numero, la durata, la forza, il posto nella vita, e il bisogno di esse? E’ ancora il caso di ripetere che la scienza e la tecnologia sono grandi veicoli di liberazione, e che è soltanto il loro uso e il loro condizionamento nella società repressiva che fa di esse il veicolo della dominazione? ".

Marcuse, come si è detto, si può definire solo in modo molto generico un pensatore "marxista". I suoi tratti più originali ed efficaci stanno, a mio avviso, nell’aver scorto nella liberazione dell’eros - da non confondere con la "liberazione sessuale", da lui vista come un altro condizionamento strumentale della società repressiva - il futuro di una società più aperta e libera. Una liberazione dell’eros come liberazione delle energie creative profonde dell’uomo, della libido come fonte di un ethos di uomini liberi e solidali tra loro; un eros da intendere come radice estetica, come possibile fonte di un mondo più "bello", meno deturpato dall’aggressività, dalla violenza, dalla distruzione della natura e dell’ambiente, dalla guerra, dall’odio razziale e di classe.

Marcuse sostenne in tutte le sue opere che l’arte e l’estetica - nella duplice radice semantica di quest’ultima nella "sensualità" e nella "bellezza" - rappresentano l’opposizione al dominio e al principio di realtà repressivo; l’arte, la fantasia e l’immaginazione sono opposte alla schiavitù della repressione e possono diventare la forma di una società più autentica, bella e libera. Non a caso l’ultima opera di Marcuse, il suo "testamento spirituale ", ha per titolo, nell’edizione inglese e italiana, The Aesthetic Dimension, La dimensione estetica, e nell’edizione tedesca Die Permanenz der Kunst, la "permanenza dell’arte", intesa come dimensione insopprimibile e fondamentale della convivenza sociale. Fino a quella bellissima espressione che compare nelle sue ultime opere: "la società come opera d’arte".

Un’"utopia", senza dubbio. Ma le utopie muovono la storia. E il vecchio Marcuse forse ha ancora qualcosa da dire alla civiltà del Duemila, che si preannuncia ogni giorno più dominata da uno sviluppo tecnologico sempre più accelerato e vertiginoso, che invade tutti gli ambiti della vita umana. L’arte e l’estetica, la bellezza in tutte le sue forme e la creatività umana potranno essere - anche se non nella misura dell’utopia marcusiana - un qualche antidoto?

Il solo fatto che ci poniamo questa domanda forse non ha reso inutile l’operosa riflessione, sviluppatasi per oltre un cinquantennio al centro del nostro secolo, di Herbert Marcuse.

 

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