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I dieci minuti che mutarono la storia

Vittorio Zucconi

 

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Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica (www.repubblica.it) del 19 luglio

L'orologio dell' Apollo 11 indicava "meno 30 secondi" e Charlie Duke, il direttore del volo a Houston, avrebbe dato 30 anni di vita per fermarlo. In 30 secondi esatti, l'ordine finale di "ignition" dei retorazzi per la discesa sulla Luna sarebbe dovuto partire o la missione sarebbe fallita. Ma dall'"Eagle" che stava sospesa sopra la Luna, in quella domenica di luglio sulla Terra, Neil Armstrong e Buzz Aldrin non davano più segni di vita.

00 :29... 00 :28... 00 :27 ... Dove sono finiti, ma perché non trasmettono, ringhiava Duke masticando la canna di una biro. Una mano si posò sulla sua spalla. Era la mano di Pete Conrad, l'astronauta di riserva, l'uomo che 30 anni più tardi sarebbe Charlie, stai calmo: vedrai che è soltanto un problema di antenna. E dall'altoparlante uscì la voce di Armstrong, dal luogo più lontano che mai figlio della Terra avesse raggiunto, distante 400 mila chilometri: "Houston?". "Roger, Eagle, bene". "Houston, siamo pronti". "Go Eagle go, vai". Aldrin, il copilota, allungò il ditone del guantone e schiacciò il pulsante "Proceed" procedere. I retrorazzi si accesero ubbidienti. "Eagle" cominciò a vibrare sotto la loro controspinta. L'orologio a Houston segnava le 03 :07:00 PM del 20 luglio 1969.

Dieci minuti esatti li separavano dalla Luna. Saranno i dieci minuti che 600 milioni di terrestri seguirono con lo stomaco in bocca, che nessuno di noi dimenticherà mai, nell'orgoglio di una generazione che può dire: siamo arrivati sulla Luna. Non un americano, un russo, un bianco o un nero, ma un uomo, uno di noi, uno come noi, ce l'ha fatta. Dieci minuti che sospesero gli odi e le guerre, che "fusero i fusi" orari tenendoci tutti svegli e che ci diedero, per 600 secondi, la fugace nozione della stupidità delle nostre risse quotidiane. Eccoli, quei dieci minuti che cambiarono il mondo. Riviviamoli, come allora, forse per l'ultima volta, insieme.

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Zero più 10 secondi dall'accensione. "Appena in tempo", sbuffò Armstrong che non sapeva ancora che un giorno di 30 anni dopo, nel 1999, sarebbe sprofondato nella polvere di un Festival di Sanremo. "Buona fortuna", li interruppe la voce dell'uomo più frustrato del mondo, l'astronauta Mike Collins che si era fatto tutto il viaggio con loro soltanto per restare in orbita attorno alla Luna ad attenderli.

Zero più 25 secondi. "Umm...", disse Armstrong. "Umm... cosa ?", risposero in coro apprensivo il compagno Aldrin e Houston. "Tutti i riferimenti per la navigazione sono in ritardo. Ho paura che siamo fuori rotta". Ma il computer... intervenne Aldrin. "Il computer sbaglia, ti dico". Il computer dovette capire il suo errore, perché la navicella cominciò a contorcersi sotto le spinte dei motori che il pilota automatico azionava disperatamente per ritrovare la rotta memorizzata e perduta. Mi dirà anni dopo Aldrin, nella sua casa della California: "Pensai: sparacchia troppo. Resteremo a secco e andremo a sbattere sulla Luna".

Zero, un minuto e 45 secondi. Un segnale rosso di allarme. "Errore 1202", lampeggiava. "Errore 1202". "Che cavolo è l'errore 1202?", disse Aldrin. "Non ne ho la più pallida idea", rispose Armstrong. "Aquila" era scesa a tremila metri. Piombava senza controllo verso il grigiore che ormai riempiva gli oblò. Zero più tre minuti. "Gli dico di abbandonare", mormorò da Houston Charlie Duke. Aspetta. Un ragazzo di 27 anni, Steve Bales, responsabile di "Guido", l'acronimo del sistema di navigazione, entrò di corsa nella sala. "Non fermarli", gridava. "1202 è il messaggio che il computer manda quando si riavvia. Ora riparte". Aveva 27 anni, Bales, e in quel momento tenne tra le sue mani la Storia. Aveva ragione. Dopo pochi secondi, il computer riprese a funzionare.

Zero più cinque minuti. A due mila metri, altri jets direzionali si accesero e con la lenta grazia di una tartaruga di mare, il Lem fece una piroetta e puntò le quattro lunghe zampe verso la magnifica desolazione del Mare Tranquillitatis. Stavano scendendo bene, a novanta chilometri all'ora. Zero più cinque minuti e 50 secondi. Un altro lampo: "Errore 1201. Che cavolo...". Armstrong non attese neppure che "Guido", da Houston, desse l'ordine di ignorare anche l'Errore 1201. Aldrin lesse: 300 metri.

Armstrong guardò sotto di lui e vide quello che aveva temuto: il punto previsto per l'allunaggio era già passato. Sotto le zampe scorreva un paesaggio ignoto e cattivo. Zero più sei minuti e mezzo. Cominciò il duello fra l'uomo e il computer impazzito. Come l'astronauta di Odissea nello spazio alle prese con Hal 2000 il ribelle, Armstrong escluse il computer e cominciò a svolazzare da solo alla ricerca di un tratto di Luna sgombro. La voce di Aldrin lesse: cento metri, Neil. Zero più sette minuti. Novanta metri, recitava la voce di Aldrin in una sorta di litania funebre, ... sessanta... A Houston, Duke e i controllori di volo impazzivano. Noi terrestri, soli davanti ai televisori lontani, impazzivamo con loro. Qualcuno a Houston, in mezzo a quella cattedrale di superbia tecnologica, cominciò a pregare sotto voce : "Sono nella valle delle ombre della morte, ma non hanno paura....".

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Zero più otto minuti e 30. Nella casa di Jan Armstrong, la moglie, l'altoparlante collegato con la navicella perduta tacque. La Nasa aveva tagliato il collegamento, per risparmiarle l'agonia in diretta. La donna chiamò la sala di controllo, spiegò calma: "Ho il diritto di sapere che cosa succede a mio marito. Se non mi riattaccate subito, vado dai giornalisti in giardino e faccio una scenata". Non aveva ancora finito di parlare che la voce di suo marito tornò a frusciare dall'altoparlante ricollegato : "Houston, ho preso il controllo io". Zero più nove minuti. Armstrong pilotava come nessun pilota umano aveva mai pilotato: rasentando alla cieca la superfice lunare, sfiorando creste fatali. "Buzz, carburante?". "Ci restano 30 secondi". Aldrin pensò: "Almeno moriremo da eroi".

Nove minuti e 20 secondi. Un tratto di Luna pulito, oltre un crinale. O lì o niente. Gli restavano 25 secondi di carburante per l'allunaggio, ma il terreno era sconosciuto. Se le zampe del Lem fossero sprofondante o si fossero posate sghembe, sarebbero morti in quel punto. Non sarebbero mai più ripartiti. Il presidente Nixon, alla Casa Bianca, aveva già preparato in segreto il discorso funebre : "Sono soli adesso, eroi morenti nella immensità dello spazio...". "Fu come guardare la propria tomba vuota dall'alto", mi disse Aldrin. Nove minuti e 35 secondi. Dieci metri, contava Aldrin... Una tempesta di polvere si alzò, strappata al sonno di miliardi di anni. Quattro metri.. Contatto, gridò Aldrin. I sensori penzolanti dalle zampe avevano toccato il volto della Luna. La navicella si posò, dolce.

Dieci minuti. La voce nella casa della moglie, nel centro di controllo, nelle nostre case, suonò tranquilla. "Houston, qui è il Mare della Tranquillità. The Eagle has landed. L'Aquila è allunata". Jan Armstrong pianse da sola. Erano le 3 e 17 minuti del pomeriggio, a Houston. Ma per l'umanità era già domani. Avevamo conquistato la Luna. E non sapevamo che farcene.

 

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