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Lotta Continua-Br/Il caso Rossa e l'antica ambiguità

Stefano Caviglia

 

 

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Quell’intervista dell’Espresso alla figlia di Guido Rossa che ha riaperto il capitolo Lotta Continua-terrorismo è frutto di una decisione presa a tavolino? E perché tenere viva oggi, a vent’anni di distanza, una polemica contro gli intellettuali e i giornalisti di quel movimento, ricordando che alcuni di loro "hanno fatto carriera?". Enrico Arosio, l’autore dell’intervista, rispedisce al mittente sospetti e veleni scatenati dal suo pezzo: "Chi pensa che l’ispiratore dell’intervista sia il direttore Rinaldi fa torto alla libertà dei giornalisti dell’Espresso. Per quanto ne so, Rinaldi potrebbe non averla neppure letta prima della pubblicazione".

E allora ci racconti. Com’è nata l’idea di quell’intervista?
Il 24 gennaio ricorrevano i vent’anni dall’uccisione di Guido Rossa. Il condirettore Pansa, molto sensibile al tema del terrorismo, mi ha chiesto l’intervista alla figlia di Rossa, che già avevo intervistato in passato. Tra l’altro avrebbe dovuto esserci anche un articolo dello stesso Pansa sui vent’anni della morte di Rossa, che poi è saltato. La ragione per cui abbiamo voluto ricordare la morte di Guido Rossa è semplice ed evidente: è uno dei delitti-chiave delle Br, da cui inizia la sconfitta della lotta armata. Non vedo perché si debba pensare che dietro ci sia dell’altro.

D’accordo, ma quella citazione così lunga dell’articolo di Lotta Continua, infilata in una delle sue domande è sembrata un colpo sparato con il mirino...
Non vedo proprio perché. Prima di fare l’intervista sono andato a documentarmi, cercando gli articoli di quei giorni. Ho trovato quello di Lotta Continua, e l’ho citato perché mi è sembrato molto significativo.

Secondo Adriano Sofri l’ha citato in modo tendenzioso, stravolgendone il senso reale. Dice che ha commesso una "piccola infamia"...
Ho estrapolato alcune frasi, con intento polemico, ma non ho manipolato alcunché. Non potevo evidentemente riportare tutto l’articolo. Se lo avessi fatto, mi creda, il senso di quello che volevo rappresentare sarebbe uscito rafforzato. Il linguaggio di quel corsivo è il classico linguaggio da "cattivi maestri". E Sofri è un bell’esempio della categoria.
Ma c’è ancora bisogno di discutere gli articoli di Lotta Continua del 1979?
Io penso di sì. Nel momento in cui molti ex terroristi escono dal carcere per buona condotta e gli intellettuali di allora proseguono le loro brillanti carriere, penso che ci sia anche bisogno di ricordare gli scritti che hanno incitato alla violenza e quali ne sono gli autori. Anche perché i sottoproletari che hanno preso sul serio quelle parole hanno fatto la fine che hanno fatto, mentre i professori che li hanno ispirati hanno fatto carriera nella borghesia.

Anche Gad Lerner non ha apprezzato molto la sua citazione. Secondo lui Lotta continua ha fermato molta gente in procinto di passare al terrorismo...
Però ha anche riconosciuto che ci furono situazioni di pressione della base su chi scriveva il giornale, che produssero decisioni vergognose. Questo mi ha fatto piacere. Ecco, se la mia intervista può servire a riaprire una riflessione su tutto questo ne sono soddisfatto.

Quindi lei pensa che non abbiamo discusso abbastanza delle colpe del terrorismo e della violenza degli anni Settanta?
Io dico che sul tema "cattivi maestri" non si è mai fatto un bilancio completo e onesto. Anche perché questo bilancio non è bene accolto da chi ha militato da quella parte e ha delle colpe da farsi perdonare.

E pensa che sia una necessità morale ricordare ai rivoluzionari che poi hanno fatto carriera come borghesi le loro colpe di allora?
C’è un bisogno civile, che io sento anche come giornalista dell’Espresso. Penso che sia positivo cercare di dialogare con quei lettori che hanno il senso della nostra storia. Altrimenti accettiamo tutti di vivere in una specie di presente indeterminato. E poi c’è un bisogno di verità, di ricostruire il clima intellettuale di quegli anni, di ricordare la storia e la provenienza delle persone. Io ho 41 anni. A vent’anni simpatizzavo per Toni Negri. Mi influenzavano le cose che scriveva. E come me tantissimi altri giovani di allora. Alcuni di loro sono arrivati alla violenza attraverso quegli scritti. Penso che sia giusto dirlo.

E di Sabina Rossa, a vent’anni dalla morte del padre, che impressione ha avuto?
E’ una persona ferita. Aveva sedici anni quando è stato ucciso suo padre e secondo me non ha ancora finito di fare i conti con quella tragedia. A differenza di altri, lei non ha fatto carriera.




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