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Droga: no al proibizionismo



Stefano Anastasia con Susanna Marietti



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Dopo quelle di Palermo del ‘93 e di Napoli del ‘97, si è tenuta a Genova, dal 28 al 30 novembre scorsi, la terza Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, alla quale hanno preso parte circa 2.000 operatori del settore. La Conferenza è stata segnata dall'assenza del Presidente del Consiglio Giuliano Amato, nonché dalle polemiche che hanno fatto seguito all'intervento del Ministro della Sanità Umberto Veronesi e dalle proteste delle associazioni e dei centri sociali, che fin dalla sua presentazione non si sono riconosciuti nel programma della Conferenza governativa, "Educare al benessere, prevenire gli abusi, liberare dalle dipendenze".

L'associazione Antigone, che da anni si batte per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, ha preso parte anche al contro-convegno dal titolo "No al proibizionismo: l'altra politica sulle droghe", organizzato dai due cartelli dissidenti presenti a Genova, quello dei centri sociali ("Mdma", che è l'acronimo della Movimento di massa antiproibizionista, ma anche il nome della molecola dell'ecstasy) e quello che, oltre ad Antigone, raccoglie sotto di sé, tra gli altri, l'Arci, Magistratura Democratica, la Cgil, la Lila, Forum Droghe, il Gruppo Abele e la comunità San Benedetto di Don Gallo.

"Il programma della Conferenza di Genova è apparso fin da subito privo di coraggio", dice Stefano Anastasia, Presidente di Antigone. "Basti dire che non era neanche previsto un tavolo di lavoro specifico sulla riduzione del danno - e sulle esperienze che l'Europa ha portato avanti in questo campo - che dalle Conferenze precedenti era invece all'ordine del giorno. Quando lo abbiamo fatto notare, ci siamo sentiti rispondere dal Ministro Livia Turco di stare tranquilli, che si sarebbe parlato di riduzione del danno nell'ambito dei lavori del gruppo sull'inclusione sociale possibile!".

Alla Conferenza di Napoli del '97 il Governo si impegnò appunto nella direzione di un rafforzamento delle politiche di riduzione del danno, nonché della depenalizzazione del consumo di droga e delle condotte devianti ad esso connesse. Che bilancio si può fare di questi tre anni?

Come abbiamo spiegato nel documento con il quale, come cartello, ci siamo presentati a Genova, la politica del Governo nei confronti della riduzione del danno si è rivelata del tutto insufficiente. Più che per un esplicito contrasto nei confronti dei progetti che le si ispirano, è la stessa interpretazione che di essa è stata data ad essere fuorviante. La riduzione del danno presuppone un'apertura culturale volta a decriminalizzare alla radice il consumatore di sostanze stupefacenti, il quale deve veder rafforzata la propria auto-responsabilizzazione dalla libera scelta di convivere con il consumo. E' solo attraverso l'uscita dalla clandestinità che egli potrà imparare a distinguere tra uso e abuso di droga, potrà liberarsi dai comportamenti devianti e potrà eventualmente incamminarsi verso una scelta consapevole di disintossicazione.

Le politiche governative hanno dimostrato di trascurare completamente questo sfondo culturale e operativo, limitandosi a una serie di interventi sanitari isolati, intesi come tamponi in vista dell'unica possibilità di scelta concessa, che resta quella del 'drug free'. Inoltre, perfino interventi così limitati non sono ancora riusciti ad entrare a pieno titolo fra i servizi offerti dal Sistema sanitario nazionale, rimanendo a tutt'oggi al livello di esperimenti, i quali ancora possono attingere, per finanziarsi, quasi esclusivamente al Fondo antidroga.

Nei Paesi europei in cui la riduzione del danno è stata davvero praticata, si è rivelata una politica di successo su vari fronti. In Svizzera, ad esempio, dove la fase sperimentale della somministrazione di eroina medica si è ormai conclusa, si è riscontrata una diminuzione dei reati connessi all'uso di droga (e anche a seguito di ciò questo Paese sta riformando la propria legge penale, cosa che il Portogallo ha già fatto). Anche l'Olanda procede sulla strada di un analogo esperimento scientifico, mentre la Germania sta sperimentando le cosiddette 'safe injection rooms'. C'è anche una relazione della Commissione Igiene e Sanità del Senato che riferisce in termini positivi queste esperienze. Ma l'Italia, nonostante ciò, continua a rimanere sempre più indietro.

E per quanto riguarda la depenalizzazione?

Qui, se possibile, la situazione è ancora peggiore. Le riforme approvate in questi anni - riforme senz'altro positive, come la legge sull'incompatibilità fra carcere e Aids o l'innalzamento della pena per l'affidamento in prova ai Servizi Sociali, fino alla stessa legge Simeone - sono più che altro scelte di decarcerizzazione. E questo nonostante la Conferenza di Napoli si sia pronunciata in maniera molto chiara sulla depenalizzazione dei consumi di droga, per quanto il Ministro Turco, nel suo discorso conclusivo, abbia voluto negare quest'evidenza, sostenendo che a Napoli la depenalizzazione, al contrario della decarcerizzazione, non era un obiettivo condiviso da tutti.

A sconfessare le affermazioni della Turco basti il fatto che per ben due volte, mentre si discuteva in Parlamento la legge sulla depenalizzazione dei reati minori, il Governo chiese di non affrontare il problema della droga in quanto stava lavorando ad un progetto complessivo di riforma sul tema. La politica di decarcerizzazione, comunque, si è rivelata inadeguata, e i dati al proposito parlano da soli: come risulta dal Rapporto Nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione (Il carcere trasparente, Castelvecchi, 2000), al 31 dicembre 1999 i detenuti tossicodipendenti in Italia erano 15.097, vale a dire il 29,26% della popolazione carceraria, cui vanno sommati i 2.392 tossicodipendenti affidati in prova al Servizio Sociale.

La violazione della legge sulla droga interessa 33.059 reati, il 20,39% del totale. La metà dei tossicodipendenti è in carcere per detenzione di sostanze stupefacenti e piccolo spaccio, mentre l'altra metà lo è per reati diversi, solitamente contro il patrimonio, necessari a procurasi droga per uso personale. Negli ultimi dieci anni la percentuale dei tossicodipendenti in carcere è rimasta sostanzialmente invariata. Per non parlare dei detenuti sieropositivi che, sempre al dicembre 1999, erano 1.638, di cui 1.382 tossicodipendenti, e 163 sono i detenuti in Aids conclamato, come se la nuova legge che li riguarda non fosse ancora entrata in vigore.

A Genova, il Ministro della Giustizia Fassino ha parlato chiaramente di decarcerizzazione dei tossicodipendenti senza depenalizzazione. Voi dunque non condividete la linea del Ministero?

L'intervento di Fassino è stato deludente. Non solo egli ha cancellato dal proprio discorso qualsiasi idea di depenalizzare le condotte legate al consumo di sostanze stupefacenti, ma anche qualsiasi idea di ridurre i limiti di pena per il reato di spaccio. Inoltre, il ministro ha citato le comunità terapeutiche come unica alternativa al carcere, rischiando che questo venga letto come una sconfessione di tutto il lavoro fatto in questo campo con enti pubblici quali i Ser.t e con i servizi per programmi di inserimento sociale. Del resto, in un successivo intervento, egli stesso ha ammesso alcuni limiti di queste posizioni, dettate da un’assenza di consenso nella maggioranza.

Ci sono, si badi, due problemi da tenere distinti: il primo è quello dell'illusorietà di affidare alle alternative alla detenzione ogni possibilità di ridurre il numero dei tossicodipendenti in carcere. Si è visto che non è così, che questa politica non ha funzionato. Come risulta dai dati visti prima, l'affidamento in prova non ha diminuito il numero dei detenuti tossicodipendenti, e il numero dei tossicodipendenti sottoposti a trattamento si è semplicemente sommato a quello di coloro che sono in detenzione. Ampliare l'affidamento in prova - come pure Fassino a Genova ha proposto, dicendo di voler innalzare gli anni di pena, che attualmente sono quattro, al di sotto dei quali si può accedere a questa misura - senza ridurre l'impatto penale della legge è insufficiente, e non esce sostanzialmente dalla logica della legge Jervolino-Vassalli. L'altro problema è quello dell'attuazione della misura alternativa, che non deve essere affidata alle sole comunità di recupero, luoghi chiusi in cui una prospettiva limitata potrebbe vedere maggiori garanzie custodialistiche. Ma questo finirebbe con l’affidare alle comunità un vero e proprio ruolo di controllo penale.

La linea tracciata dal Ministro della Sanità è invece ben diversa.

Questa è stata una bellissima sorpresa, di certo il momento più alto di civiltà sociale che il Governo ha espresso a Genova. Veronesi ha interpretato una vera filosofia di riduzione del danno, di accettazione e tolleranza del consumo, prendendo atto in maniera molto laica del fatto che il proibizionismo si è dimostrato una politica incapace di pagare. Lo ha fatto da scienziato, certamente, nel senso che da scienziato si è basato su dei dati e su una sapiente interpretazione di essi. Ma questo non significa, come Amato ha voluto liquidare il suo intervento, che lo abbia fatto solamente da tecnico, escludendo con ciò una dimensione politica. Il discorso di Veronesi portava con sé una chiara strategia operativa, un'applicabilità politica e sociale molto concreta, e non posso che deprecare la sconfessione di Amato, sottolineata ancor più dalla sua assenza a Genova.

Forse da un Governo di centro-sinistra vi aspettavate qualcosa di differente.

Non so che dire. Vedo, da un lato, con grande rammarico, come il centro-sinistra si adoperi a rincorrere i voti dell'elettorato moderato anche a costo di rinnegare i propri valori, specie su temi di grande impatto sull'opinione pubblica come sono quelli che stiamo discutendo. A ciò siamo stati abituati anche prima che si aprisse l'attuale competizione elettorale, come dimostra ad esempio quel pacchetto-giustizia che equiparò il reato di scippo a quello di rapina. Dall'altro lato, vedo una difficoltà profonda del centro-sinistra a trattare al proprio interno problemi che comportano grandi implicazioni etiche, dalla pillola del giorno dopo alle tossicodipendenze.

E comunque, resta il fatto che soltanto un quarto del nostro Parlamento abbraccia posizioni anti-proibizioniste. In queste condizioni è difficile portare avanti una strategia che vada nella giusta direzione. Forse dovremmo sperare che l'opinione pubblica si riveli più avanti dei politici, come si dimostrò nel 1993, quando un referendum popolare chiese di abolire la penalizzazione dell'uso personale di sostanze. Oggi, tristemente, quest'opinione pubblica si vede sconfessare la propria volontà.

A proposito di competizione elettorale, Berlusconi ha dichiarato che se andrà al Governo abolirà la somministrazione di metadone nelle carceri. Voi cosa ne pensate?

E' un'affermazione gravissima. Abbiamo avuto casi anche recenti di ragazzi morti in carcere proprio perché nell'istituto in cui si trovavano non veniva somministrato loro il metadone, cosa che spinge il tossicodipendente verso qualsiasi incontrollata sostanza, nel tentativo illusorio di far fronte alla crisi di astinenza. Quello che invece si sarebbe dovuto fare, è un resoconto preciso della sperimentazione col metadone, una raccolta puntuale dei dati, un lavoro scientifico che potesse servire da base per un ampliamento ed un miglioramento di questa pratica. Ciò non è stato fatto, e l'Italia ha perso un'occasione per apportare un proprio contributo nel confronto con gli altri Paesi europei.

La somministrazione del metadone nelle carceri deve essere incrementata, seguita in maniera più adeguata da un presidio medico. Da questo punto di vista, ci aspettiamo molto dal passaggio - ancora e da troppo tempo purtroppo solo in fase sperimentale - della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, che speriamo adeguerà gli standard sanitari del carcere a quelli del resto della nazione. Forse anche loro troppo bassi, è vero, ma questo è casomai un motivo per lavorare ad innalzarli, e non certo per discriminare anche su un tale terreno la popolazione detenuta. La privazione della libertà è tutto quanto la pena detentiva deve poter infliggere: che il detenuto venga discriminato ulteriormente, e per di più nell'ulteriore posizione di debolezza del malato, non è cosa che una società moderna e civile possa tollerare.

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