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La memoria come antidoto al razzismo



Amos Luzzatto con Antonio Carioti



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Non passa quasi giorno senza che i mass media ci propongano vicende legate all’evento più sconvolgente del XX secolo: lo sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti. Le richieste di risarcimento delle vittime, il processo londinese che ha visto coinvolto il “negazionista” David Irving, la discoteca aperta in Polonia a breve distanza dal campo di Auschwitz, l’aggressione di Verona a un professore di origine ebraica sono soltanto alcuni esempi. C’è però anche chi contesta la rievocazione continua della Shoah, chi pensa che sia fisiologico e tutto sommato positivo l’affievolirsi del suo ricordo. Sull’argomento abbiamo interpellato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Amos Luzzatto.

L’istituzione della “giornata della memoria” per le vittime dell’Olocausto ha suscitato delle perplessità. Alcuni temono che si risolva in celebrazioni meramente retoriche, altri sostengono che sarebbe stato opportuno ricordare insieme tutte le atrocità della nostra epoca. Lei che ne pensa?

Il rischio che la memoria diventi qualcosa di meccanico e burocratico esiste per qualsiasi cerimonia ufficiale. Ovviamente dipende da come si organizzano le celebrazioni. La giornata che è stata scelta corrisponde alla data della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. Non credo si possa dire che, ricordando lo sterminio compiuto in quel lager, si corra il rischio di svalutare le altre terribili tragedie della vicenda umana. Se vogliamo rievocare ed esecrare tutti gli atti crudeli della storia, augurandoci che non avvenga più niente del genere, sono perfettamente d’accordo. Però si tratterebbe di un’affermazione astratta e generica, una semplice condanna della ferocia, ovunque essa si manifesti. Il problema invece è chiarire, attraverso un ragionamento storico comparativo, perché l’orrore della Shoah ha un rilievo e un’importanza particolari.

E’ proprio questo, infatti, che qualcuno mette in dubbio.

Noi sosteniamo invece che ad Auschwitz è avvenuto qualcosa di specifico, di drammaticamente unico rispetto a tanti altri crimini di massa. Adolf Hitler teorizzò la divisione dell’umanità in razze diverse, superiori e inferiori, stabilendo in particolare che una di queste razze, considerata degenere e contaminante, era talmente perversa e pericolosa da dover essere sterminata per intero, dovunque si trovasse, in qualsiasi età e condizione. Insomma, per i nazisti ciascun ebreo, uomo o donna, bambino appena nato o vegliardo morente, meritava di essere sottoposto alle più efferate crudeltà e di essere eliminato fisicamente, per il solo fatto di appartenere al popolo ebraico. Questa è stata la Shoah.
Capire come ciò sia potuto avvenire, come certi uomini, in fondo persone comuni, abbiano potuto spingersi fino a un simile grado di follia omicida, è un interrogativo al quale nessuno può sfuggire. E la “giornata della memoria” serve per riproporlo all’attenzione di tutti, attraverso le testimonianze dei pochi sopravvissuti a quella spaventosa esperienza.


Eppure anche nel mondo ebraico le voci sono discordi. Uno studioso americano, Norman Finkelstein, ha addirittura denunciato la nascita di una “industria dell’Olocausto”.

Attenzione, Finkelstein non ha certo detto che la Shoah non merita di essere ricordata. Ha accusato alcune persone di utilizzare lo sterminio nazista per ottenere dei risarcimenti, mercificandone in qualche modo il ricordo. Io sono in disaccordo con lui, ma non bisogna attribuirgli opinioni che gli sono estranee. La questione dei risarcimenti è opinabile, ma devo dire che molti sopravvissuti non le attribuiscono grande importanza. «Abbiamo sofferto tanto - dicono - che nessun compenso economico può alleviare la tragedia che ha distrutto le nostre vite».

Un’altra osservazione critica accomuna studiosi di opposte tendenze, come Eric Hobsbawm e Sergio Romano, secondo i quali l’Olocausto sarebbe stato strumentalizzato per giustificare il comportamento, a volte aggressivo, dello Stato d’Israele.

Non bisogna confondere due temi diversi. La politica israeliana può essere stata in alcune circostanze criticabile e riprovevole, come quella di qualsiasi altro Paese. Ma non vedo nessun collegamento diretto con la Shoah. Nessuno ha mai sostenuto, tranne trascurabili frange estremistiche, che il genocidio nazista giustificasse qualsiasi azione compiuta dallo Stato ebraico. Tant’è vero che all’interno dello stesso Israele ci sono dibattiti molto accesi sulle decisioni assunte da questo o da quel governo, ma nessuno pensa di ridimensionare il rilievo storico della “soluzione finale”.

E’ indubbio però che il peso dell’Olocausto, nell’immediato dopoguerra, ha favorito la creazione di uno Stato ebraico in Palestina.

Questo è un altro discorso. Nel 1947 l’Onu votò la divisione della Palestina, all’epoca sotto mandato britannico, in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo. Vorrei ricordare che lo stesso Andrej Gromyko, allora rappresentante sovietico alle Nazioni Unite, affermò il dovere morale di compensare gli ebrei per le sofferenze e le atrocità subite. Nel processo di formazione dello Stato d’Israele il fatto che gli europei fossero consapevoli della propria responsabilità per lo sterminio hitleriano è stato un elemento politico e psicologico rilevante. Si volle offrire agli ebrei un punto di riferimento stabile, un luogo dove rifugiarsi se le persecuzioni fossero riprese. Ma questo non significava avallare in anticipo ogni comportamento dei governi d’Israele.

Non crede però che da parte occidentale ci sia stata una certa indulgenza verso le asprezze della politica israeliana nei riguardi dei palestinesi?

Non nego che Israele possa aver commesso degli abusi, ma non è certo l’unico Paese mediorientale che si sia comportato in modo condannabile. Nel 1947 l’Onu decise che accanto a Israele sorgesse uno Stato palestinese autonomo. Ma quando gli ebrei proclamarono la loro indipendenza, nel maggio 1948, ben sei Paesi arabi circostanti mossero guerra al “nemico sionista”, con l’intenzione di impedire la spartizione della Palestina decisa dalle Nazioni Unite. E in questo modo impedirono anche la nascita dello Stato palestinese. Io non intendo giustificare Israele sempre e comunque, ma vorrei ricordare che i territori su cui dovrebbe sorgere oggi la patria di Yasser Arafat e del suo popolo sono stati per 19 anni nelle mani di due Paesi arabi, Egitto e Giordania, che avrebbero potuto crearvi uno Stato palestinese già nel 1948-49.

Il fatto è che all’epoca gli arabi sognavano di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Proprio così. Ma molti lo dimenticano troppo facilmente. Io ritengo che i palestinesi abbiano tuttora diritto a un loro Stato, come l’avevano nel 1947. Ma se questo diritto finora è rimasto solo sulla carta, la responsabilità non può essere fatta ricadere completamente e unilateralmente su Israele. Pensi allo stesso problema di Gerusalemme. Per quasi vent’anni gli arabi hanno controllato la parte orientale della città e avrebbero potuto benissimo farne la capitale dello Stato palestinese. Se le cose fossero andate così, tutte le tragiche difficoltà attuali non avrebbero ragione di esistere.

Tuttavia si obietta che spesso chi critica Israele viene tacciato di antisemitismo, mentre gli avversari arabi dello Stato ebraico sono presentati come dei potenziali genocidi, quasi degli eredi di Hitler.

Mi pare che questo appartenga al passato. Oggi Arafat è parte in causa nelle trattative di pace e nessuno, tranne alcuni gruppi oltranzisti, lo dipinge più come un nazista. E’ ovvio che in un conflitto lungo e sanguinoso le posizioni tendono ad irrigidirsi. Se i palestinesi si limitano a chiedere i diritti che furono loro negati nel 1947-48, è impossibile accusarli di antisemitismo. Ma quando nella propaganda araba ritroviamo gli stereotipi dell’ebreo come un essere perfido, avido e ingannatore, che ruba la terra altrui, e magari in certi Paesi mediorientali viene tradotto e diffuso Mein Kampf di Hitler, allora siamo di fronte a qualcosa di più delle semplici conseguenze di un duro contrasto politico.

Passiamo dal mondo arabo a quello cattolico, visto che è appena uscito in Italia il libro di John Cornwell che accusa Pio XII di connivenza con Hitler. Le comunità ebraiche si sono opposte alla beatificazione di Papa Pacelli, ma alcuni ricordano che lo stesso Pontefice ricevette a suo tempo calorosi elogi per l’impegno profuso dalla Chiesa allo scopo di aiutare le vittime delle persecuzioni antisemite naziste. Non c’è una contraddizione in tutto questo?

Direi di no, perché si parla di due questioni completamente diverse. Canonizzare un uomo significa attribuirgli una statura spirituale straordinariamente elevata, superiore a quella delle persone normali, cosa ben diversa dal riconoscere che alcuni atti importanti della Chiesa cattolica, nel periodo 1943-45, valsero a salvare numerosi ebrei.
Ho letto il saggio di Cornwell, ma non posso dare un giudizio molto approfondito, perché non sono uno specialista della materia. Probabilmente il libro presenta anche aspetti deboli dal punto di vista della documentazione, per quanto l’autore sostenga il contrario. Mi sembra tuttavia che il comportamento di Pio XII e della Chiesa cattolica non possa andare esente da critiche.


Quali in particolare?

Limitiamoci all’Italia. Le leggi razziali, che trasformavano gli ebrei in cittadini di seconda categoria, isolati ed emarginati dal consorzio civile, risalgono all’autunno del 1938. All’epoca Pacelli non era Papa, ma comunque non vi fu alcun intervento della Chiesa cattolica per condannare quell’atto immorale e vergognoso. Durante la prima parte del pontificato di Pio XII, iniziato nel 1939, il Vaticano assistette senza reagire alle persecuzioni antisemite. Dal 1938 al 1943 la Santa Sede si limitò a difendere i diritti degli israeliti che a suo tempo si erano convertiti al cristianesimo.
Sotto l’occupazione tedesca, gli ebrei vennero avviati allo sterminio. E molti cattolici, anche in conseguenza dell’educazione all’amore per il prossimo tipica della religione cristiana, si adoperarono per aiutarli, li nascosero e li nutrirono, a volte anche a rischio della propria vita. Parecchie istituzioni religiose, conventi, sacerdoti agirono in un modo ammirevole, che va riconosciuto. E senza dubbio lo fecero con l’avallo del Vaticano. Inoltre quando i nazisti chiesero alla comunità ebraica romana un riscatto di 50 chili d’oro, la Santa Sede si offrì di aiutarla.

E allora perché permangono tante riserve sulla figura di Pio XII?

C’è un altro lato della medaglia, che non possiamo dimenticare. Per quale motivo il Papa non reagì alle retate e alle deportazioni verso i lager, alla caccia all’uomo che avveniva sotto i suoi occhi? Perché non chiese ai credenti di opporsi alla strage? Almeno metà dei tedeschi erano cattolici e in alcuni Paesi dove si stava consumando il genocidio (Polonia, Ungheria, Croazia) i fedeli della Chiesa di Roma costituivano la quasi totalità della popolazione. Ma un’aperta ribellione di Pio XII alla Shoah non ci fu.
E’ stato detto che il Vaticano voleva evitare il peggio, ma qualcuno dovrebbe spiegarmi che cosa mai avrebbe potuto essere il peggio rispetto al genocidio di un popolo intero, ai bambini mandati nelle camere a gas o usati come bersaglio per il tiro a segno dalle Ss. Che cosa si può immaginare di ancora più orribile?

Forse la Santa Sede temeva persecuzioni rivolte verso i cattolici.

Se questa è la risposta, allora bisogna dirlo con chiarezza. Il Papa non se la sentiva di esporre il mondo cattolico alla furia nazista con un proclama di aperta solidarietà verso gli ebrei perseguitati. E’ un atteggiamento umano, la cui debolezza si può anche comprendere, ma mi sembra abbastanza in contraddizione con l’idea di beatificare Pio XII.

Veniamo ai nostri giorni. E’ davvero così allarmante la situazione in Germania da far ipotizzare un esodo degli ebrei tedeschi di fronte al neonazismo crescente?

Vorrei precisare che cosa ha realmente detto Paul Spiegel, presidente delle comunità ebraiche in Germania. Innanzitutto ha espresso il desiderio degli ebrei tedeschi, 85 mila persone, di vivere in un Paese civile e la loro intenzione di agire perché ciò sia possibile. Poi ha invitato le forze democratiche a non lasciare gli ebrei soli nella battaglia contro il razzismo. Ma se dovesse verificarsi una situazione di reale e immediato pericolo per le nostre comunità, ha concluso Spiegel, non esiterei un momento a invitarle ad abbandonare la Germania.

Da queste parole traspare una forte preoccupazione. Dunque i neonazisti tedeschi sono una minaccia concreta?

Certamente sono un pericolo reale, grave, ma ritengo che li si possa combattere efficacemente e sconfiggere, purché si comprenda che si tratta di una battaglia che non interessa solo gli ebrei, ma l’intera civiltà europea. Se dovessimo perderla, precipiteremmo di nuovo nella barbarie.

Eppure c’è chi sostiene che i gruppi di giovani naziskin sono solo bande teppistiche, senza spessore politico.

Proprio per questo bisogna agire tempestivamente e bloccarli subito, prima che si trasformino in un grosso movimento, dotato di una forte consapevolezza ideologica. La “giornata della memoria” serve appunto a educare le nuove generazioni, a far maturare in loro il rifiuto del razzismo e dell’intolleranza con il ricordo delle atrocità perpetrate nel passato.
A tal proposito vorrei far notare che i movimenti neonazisti sono purtroppo una realtà palpabile, mentre non c’è traccia, almeno in Europa occidentale, di gruppi neostalinisti. Nessuno oggi esalta il Gulag o le foibe, mentre non mancano affatto gli esaltatori di Auschwitz, che dal teppismo generico potrebbero passare a un’azione politica più efficace. Quando si contesta la “giornata della memoria” tirando in ballo i crimini del comunismo (che io, intendiamoci, condanno con la massima fermezza), ci si dimentica troppo spesso di questo dato elementare.

Per concludere passiamo dalla Germania all’Italia. Come giudica il Movimento sociale di Pino Rauti? Che effetto le fa la prospettiva che il centrodestra concluda degli accordi con quel partito in vista delle elezioni politiche?

Ritengo che si tratti di una forza con evidenti connotazioni di nostalgia fascista, con la quale preferisco non avere rapporti di alcun genere. Se altri partiti pensano che un’alleanza con Rauti sia compatibile con una scelta democratica, devono cercare di dimostrarlo. Io francamente non ci credo.



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