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Ferramonti, un lager dimenticato



Maria Teresa Cinanni




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Auschwitz, Treblinka, Dachau sono nomi tristemente noti a tutti, soprattutto da quando i libri e le proiezioni cinematografiche sull'argomento hanno varcato il confine del settore specialistico per abbracciare un pubblico più vasto ed eterogeneo. Poco conosciute rimangono invece località come Fossoli e Ferramonti, i luoghi italiani dove venivano convogliati gli ebrei destinati ai grandi campi di concentramento europei. Più che di veri e propri lager, si trattava di centri di raccolta, appartati dal resto dell'abitato e recintati con filo spinato, per impedire la fuga dei prigionieri.

Il più grande luogo di prigionia degli ebrei stranieri e apolidi presenti in Italia durante il secondo conflitto mondiale fu il campo di Ferramonti a Tarsia, vicino Cosenza, sorto il 4 giugno 1940 su richiesta del Ministero degli Interni e finalizzato ad ospitare "internati civili di guerra". Secondo le disposizioni iniziali, l'internamento in questo campo avrebbe dovuto riguardare i soli ebrei cittadini di stati nemici, come ad esempio i polacchi rifugiati in Italia; nei fatti, invece, furono arrestati anche ebrei dei paesi "alleati".

Costituito da lunghi capannoni in carpilite, materiale legnoso scarsamente isolante e posto nei pressi della linea ferroviaria che collega l'entroterra cosentino alla fascia ionica e alla Puglia, il campo di Ferramonti non si discostava molto, nell'aspetto esteriore, dall'immagine tipica di un lager o, ancor di più, da quella dei ghetti dell'Europa orientale, dove gli ebrei vivevano isolati dal resto della popolazione.

Le baracche appartenevano a due diverse tipologie: alcune erano casermoni a pianta unica, altre godevano di una sommaria ripartizione interna. Quasi tutte erano affiancate tra loro e messe in comunicazione a due a due, attraverso un braccio di collegamento che conferiva loro una strana forma ad "U", nel cui centro si trovava la baracca più piccola, preposta alla cucina e ai lavatoi. Il tutto sorgeva a 35 Km da Cosenza, in una zona acquitrinosa, mai bonificata e accuratamente evitata dagli abitanti del posto, perché fonte di malaria e altre malattie allora incurabili.


Inizialmente il campo di Ferramonti era riservato solo ai prigionieri di sesso maschile, non sottoposti né all'obbligo di lavorare, né a violenze sommarie da parte degli organi preposti alla sorveglianza del campo che, anzi, apparivano molto comprensivi verso le esigenze degli internati, a condizione che non si verificassero disordini o insubordinazioni. Tra la fine del 1940 e l'inizio del 1941 fecero il loro ingresso nel campo anche le donne e i bambini provenienti da Paesi dell'Europa centro-orientale, da dove erano fuggiti con la speranza di raggiungere la Palestina; poi, alla fine del '41, fu la volta di slovacchi, greci, un consistente numero di cinesi e altri non-ebrei provenienti dai campi di concentramento del centro-Italia o dalle piccole città di provincia, ove le minoranze perseguibili venivano spesso relegate.

Ferramonti fu comunque un campo particolare, nel senso che, diversamente da Auschwitz e da altri lager dell'Europa orientale, i prigionieri riuscirono ad instaurare rapporti di solidarietà con gli abitanti dei paesi vicini, dapprima molto diffidenti nei confronti degli internati che il regime fascista insisteva nel presentare come "esseri pericolosi nocivi per la società", poi sempre più disposti ad aiutarli o a barattare con loro merci di prima necessità. Infatti, per rendere più sopportabile la prigionia e per combattere la noia, gli internati svolgevano varie attività: oltre a studiare e insegnare le lingue straniere, costruivano oggetti di artigianato da offrire agli abitanti del posto, in cambio di pane e olio.

La situazione però degenerò nel 1943, quando l'arrivo di un cospicuo numero di ebrei dal Nord Italia rese completamente insufficienti gli approvvigionamenti del campo, la fame divenne un dramma quotidiano e la denutrizione favorì l'insorgere di nuove patologie, che si aggiunsero alla malaria contro la quale gli internati lottavano da sempre. I detenuti cominciarono così a vendere alla popolazione del luogo tutto ciò che possedevano, persino i vestiti e le scarpe, pur di assicurarsi un quarto di pane, quotato sul mercato nero fino a 7-8 lire.

Intanto le numerose sconfitte militari e i primi segni di sfaldamento del partito fascista determinarono un ulteriore accanimento contro gli ebrei, considerati i maggiori responsabili della situazione. In questo clima va inserito l'ordine impartito dal Ministero degli Interni di trasferire i prigionieri di Ferramonti in provincia di Bolzano dove, però, non vi erano lager, né altre località di internamento. "Non è azzardato supporre - afferma Carlo Spartaco Capogreco, presidente della Fondazione Ferramonti - che il trasferimento avesse come meta reale i lager tedeschi".

Nello stesso giorno in cui venne impartito l'ordine di trasferimento a Bolzano, però, Mussolini venne deposto dal Gran Consiglio, e l'ordine rimase senza seguito. La situazione degli internati di Ferramonti non mutò, almeno fin quando, il 27 luglio 1943, il nuovo primo ministro Pietro Badoglio dispose il rilascio degli internati politici italiani, ebrei compresi, esclusi i comunisti e gli anarchici, che per il momento sarebbero rimasti nei campi. Nel frattempo, dopo lo sbarco degli americani in Sicilia e a seguito delle pressanti richieste dei prigionieri, il "capo" del campo calabrese non si assunse la responsabilità della liberazione degli internati senza un'apposita comunicazione ministeriale, ma ne facilitò la fuga, lasciando aperti i cancelli. In due giorni la popolazione di Ferramonti si dimezzò e dopo una settimana nel campo erano rimasti solamente gli ammalati e alcuni anziani. Così, grazie a una serie di circostanze fortuite, i prigionieri di questo lager non subirono le gravi repressioni nazifasciste e sfuggirono all'infausta sorte dei loro correligionari.

Oggi dell'originaria struttura del campo rimane circa un 10%, poiché le baraccopoli, esistenti fino agli anni Cinquanta, furono smantellate per far posto al tracciato autostradale della Salerno-Reggio Calabria, e del campo di Ferramonti si ricorda ben poco, anche perché la maggior parte della gente del posto sembra aver rimosso ciò che avvenne solo 50 anni fa.

Nel 1988 è sorta a Cosenza la Fondazione Ferramonti, la cui finalità è quella di testimoniare al mondo l'esistenza di questo campo. A tutt'oggi, la Fondazione è l'unica istituzione culturale operante in Italia sorta nel nome e sul luogo di un campo di concentramento fascista. "La Fondazione - afferma il presidente - nasce con il duplice fine di salvaguardare la memoria e promuovere l'impegno etico e socio-culturale. Essa ha notevolmente favorito il dibattito sulle tematiche a lungo trascurate dell'internamento e dell'antisemitismo italiani e ha aperto un dialogo con molti ex prigionieri sia a Ferramonti che negli altri circa 50 campi di concentramento italiani, ignorati dalla nostra storiografia". A questo fine, il 25 aprile di ogni anno, viene organizzato dalla Fondazione un Meeting Internazionale, dal titolo "Storia, Memoria, Identità".


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