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Wannsee, o dello sterminio ebraico



David Bidussa



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Nel volume di Kurt Pätzold e Erika Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wansee del 20 gennaio 1942, (trad. di A: Michler, Bollati Boringhieri) per la prima volta vengono storicamente definiti, presentati e documentati i testi essenziali che immettono alla politica scientificamente applicata perché si abbia come effetto lo sterminio degli ebrei in Europa. Si è diffuso un mito che Pätzold e Schwarz intendono eliminare, ovvero il fatto che improvvisamente, un giorno - il 20 gennaio 1942 - nei pressi di Berlino, nel sobborgo di Zehlendorf, in una tenuta con villa, in una stanza di medie proporzioni con ampie finestre sul parco, insomma in un habitat sostanzialmente ironico, una decina di persone si riuniscono e decidono il varo della soluzione finale della questione ebraica. Anzi inventano il sistema di sterminio.

Secondo Pätzold e Schwarz, non solo questa scena è un mito, ma è anche falsa, perché sotto questa forma sembrerebbe legittimo pensare - o autorizzare a pensare - che tutto ciò che era avvenuto fino a quel momento, era sostanzialmente rubricabile entro una dimensione di duro regime, e non secondo una drastica e violenta politica di sterminio.

Così non è. E a questo proposito è sufficiente, secondo i due autori, analizzare il comportamento dei gruppi di azione già attivi in Polonia nel 1940, che furono comunque estremamente solerti sin dall’invasione dell’Urss, il vero momento d’inaugurazione di sterminio sistematico.

Dunque se lo sterminio è già in atto, se sostanzialmente non incontra opposizioni e dubbi di sorta nella macchina militare e politica del nazismo che cosa accade a Wannsee? Perché nonostante tutto, quella conferenza costituisce un passaggio essenziale nella dinamica dello sterminio?


A Wannsee, osservano Pätzold e Schwarz, non viene deciso come si muore, ma viene sostanzialmente ratificato chi muore e chi deve morire. Ovvero fino a che punto si tratta di sterminare. Non di lasciare in vita qualche ebreo, ma di definire a partire da quale modello di albero genealogico non si è più ebrei e si rientra in quella categoria di “mezzi ebrei” per i quali è prevedibile la sterilizzazione o, al più, la lenta inclusione nelle fasce inferiori della gerarchia razziale. In altri termini Wannsee allude alla fisionomia che l’Europa -e possibilmente l’intero pianeta - dovrebbe assumere nel progetto nazista, una volta finita la guerra. Indipendentemente dalla vittoria militare, di cui già si intravedono le prime difficoltà. Perché a Wannsee la percezione della sconfitta bellica non è scartata, anzi. E per questo diviene maledettamente urgente “fare presto”, conseguire il risultato quantitativamente più rilevante “prima che sia troppo tardi”.

Questa procedura è interessante non tanto per il linguaggio esoterico o allusivo, comunque mai esplicito, con cui viene ratificata questa decisione o comunque si denomina la eliminazione degli ebrei d’Europa, quanto per la estrema rapidità con cui la si discute. E a proposito di linguaggio, nei documenti il termine usato per eliminazione è “evacuazione” che forse per molti può essere associato a un provvedimento di tipo militare, ma che per il vocabolario razzistico-biologico e geografico-razzistico del nazismo è traducibile solo all’interno di un linguaggio clinico, ovvero di espulsione dal corpo fisico della nazione, e di sparizione da uno spazio geografico dato,

La discussione di Wannsee, stando al resoconto della riunione stilato da Eichmann al termine della riunione e approvato dal suo superiore Heydrich, non include una decisione formale, ma rinvia a un “idemsentire” si sarebbe detto nel politichese italico degli scorsi anni, che non trova nessuna opposizione. E che infatti, non solo mette rapidamente in moto una macchina di morte, ma rende funzionali tutti i passaggi burocratici, operativi, organizzativi ancora incerti, poco coordinati, ma già funzionanti almeno dal giugno 1941, ovvero dal momento dell’invasione dell’Urss.

Si potrebbe ritenere che tutto questo apparato richiami una strategia diabolica di costruzione e di esecuzione, in cui la scaltrezza si somma ad una perversa intelligenza. E’ un passaggio legittimo ma che la realtà si incarica spesso di smentire. E in verità raramente la storiografia e la ricerca documentaria hanno rinviato al mittente le loro lettere di disdetta con tanta celerità come in questo caso. Il mito della mostruosità si combina con l’immagine della assoluta inessenzialità: forse un’osservazione irriverente, allorché si misuri la distanza tra una scena di salotto qualsiasi quale sembra emergere dai verbali di Wannsee e le file di cadaveri e di treni della morte che hanno per tre anni attraversato e connotato la carta geografica d’Europa nel suo cuore.

Vorrei cercare di sottolineare nella forma più semplice, ma anche più lapidaria, che cosa suscita la lettura dei documenti pubblicati in questo libro. Per rendere immediato ciò che intendo dire mi servirò di una fonte parallela. Nel testo della sua deposizione nei mesi dell’istruttoria, Adolf Eichmann così descrive l’evento Wannsee: “Heydrich voleva mostrare che il suo potere era aumentato ed era diventato il padrone di tutti gli ebrei. Io partecipavo per la prima volta a una seduta di alti funzionari e segretari di stato e notai come tutto si svolgesse con grande gentilezza e amicizia. Poi fu offerto del cognac e la riunione terminò. Questa fu più o meno la conferenza di Wannsee” (riportato in Sergio Minerbi, Eichmann. Diario di un processo, Luni 2000, p.47).

Di tutta la riunione Eichmann ricorda sostanzialmente il cognac e un clima cordiale. Si potrebbe dire di convivialità. Questo dato può infastidire un lettore sensibile. Ma appunto questo fatto ha un valore altamente significativo e non sminuente: Wannsee più che un evento in sé è una procedura di passaggio. Si potrebbe esser indotti a ritenere che ciò diminuisca la dimensione del terrore. E’ vero esattamente l’opposto. Proprio per questa sua apparente insignificanza, Wannsee costituisce l’atto di accusa più latente a un meccanismo culturale e politico.


Nella pratica sterminazionista del nazismo non c’è una data al di qua della quale siamo dentro un sistema politico duro e autoritario e al di là della quale entriamo nello scenario apocalittico.

Non c’è un momento nella storia delle pratiche politiche in cui si dà una metamorfosi repentina dei sistemi politici, della loro natura, del modo di intendere il meccanismo di controllo governanti/governati o meglio, nel caso dei regimi totalitari, quello schiavi/sudditi/padroni. I regimi politici certamente, nel tempo della loro durata, modificano le loro procedure di azione e di governo, ma queste comunque rispondono a principi fondativi costanti che concernono l’identità tra profilo ideologico e pratiche politiche perseguite per conseguirlo e realizzarlo.

Ma i regimi politici non sono come Minerva che nasce già formata compiutamente dalla testa di Giove. Hanno una storia e spesso hanno una trasformazione che mette in contrasto principi ideologici e fondativi con pratiche di governo. Laddove si produce differenza o distanza o comunque distonia tra queste due sfere dell’azione umana, in politica, noi dobbiamo osservare e confrontare i momenti di passaggio e comprendere dove quegli snodi evenemenziali, politici, culturali mettano in discussione i fondamenti teorici e politici del sistema politico dominante e vigente.

Ma laddove le procedure non determinano fratture noi dobbiamo considerare non che niente sia successo e che ci sia indifferenzialismo nel tempo di un regime politico, ma prendere atto che in quel regime politico, nei fondamenti ideologici che lo connotano, nelle pratiche politiche che lo rendono funzionante, nelle burocrazie che trasformano una decisione in pratica diffusa e applicata, si esprimono una volontà e una cultura che sono parte di una pratica sociale per la quale le cose avvengono.

Wannsee non era scritta in nessun programma e nessuno scadenzario, ma faceva parte di una procedura. Non si parla in quella sede di stragi di treni che devono partire e arrivare, perché non è necessario, dato che tutti sanno benissimo di che si parla. Questo silenzio, o meglio questa assoluta irrilevanza di precisare l’oggetto della discussione è l’indicatore più significativo di una pratica politica.

Si potrebbe aggiungere una postilla. Recentemente i giornali hanno annunciato una nuova possibilità di conoscere dall’interno la macchina dello sterminio, grazie alla pubblicazione del memoriale di Adolf Eichmann durante i mesi della sua prigionia in Israele nel corso del suo lungo interrogatorio. Ma è davvero così? Il testo di quel diario, infatti, forse ci consegna delle sensazioni e delle notizie, ma soprattutto ci trasmette la retorica di un individuo che fino all’ultimo ha giocato la carta dello sprovveduto, della ruota di un ingranaggio più grande di lui, e che tuttavia è affascinato e ammaliato dalla macchina di cui faceva parte.

Eichmann, ricordano Pätzold e Schwarz nel loro volume sulla Conferenza del Wannsee, nelle sue memorie in realtà trasmette e riflette sulla sua improvvisa percezione di essere stato al centro della storia, di aver fatto da funzionario anonimo, a quella Storia, quale nessun burocrate avrebbe mai pensato di fare.

Sarebbe bene avere questa fotografia in mente, ogni qualvolta si ragiona e si propinano lodi sulle virtù inossidabili dell’amministrazione a fronte di una sfera politica troppo facilmente liquidata come mondo dei fannulloni. Il sentimento dell’antipolitica corazzato della capacità invitta dei tecnici anonimi non ha mai prodotto dettati costituzionali democratici.

Ma non solo. Il volume di Kurt Pätzold e Erika Schwarz, al di là dello specifico tema e della circostanza evenemenziale che intende documentare e indagare, a me sembra che indichi qualcosa di più. Nel 1961, con il processo Eichmann si propone il primo passaggio della memoria, dai sopravvissuti ai figli nati dopo, e la scena salottiera di Wannsee tornerà tra tante in quel processo. Ma essa si presenta già allora con un doppio statuto che riguarda anche le nostre difficoltà odierne a fare i conti e a confrontarci con la memoria.

Il processo Eichmann è il primo fenomeno mediatico in cui il confronto con la storia cessa di essere pedagogico per divenire civile. Tra Eichmann e chiunque in quell’aula di tribunale c’era una cabina di vetro, perché Eichmann era già un fenomeno televisivo anche per quello spettatore che fisicamente si fosse trovato in quell’aula. Tuttavia questa può apparire una questione di dettaglio, al più una mera teatralizzazione.

Con il processo Eichmann conta che l’evento storico si trasforma in memoria del trauma. In quell’aula non entrano e parlano solo i sopravvissuti, ma anche e comunque in loro vece spesso intervengono i figli dei sopravvissuti, secondo una dinamica che il processo Papon ha ulteriormente incrementato e allargato.

Il Novecento per quanto possa apparirci un secolo breve, che ha consumato, prima ancora di concludersi cronologicamente, tutte le proprie energie e la propria forza creativa è in realtà un secolo lungo perché riscrive le forme attraverso le quali si trasmette memoria e si costruisce consapevolezza storica.

Marc Bloch in Apologia della storia, libro di riflessione negli anni della sua clandestinità, scriveva che nella storia esistono generazioni lunghe e generazioni corte. Generazioni che rimangono legate ad un evento che segna lungamente la storia e generazioni che si riflettono in un avvenimento che presto si dissolve e la loro memoria è mangiata con la sua stessa eclissi. Comunque la generazione in questo senso non è una classe di età, ma si fonda in relazione a un accadimento che ne definisce contorni, immaginario, pensieri, angosce, incubi, emozioni, parole e, forse prevalentemente, silenzi.

Il processo Eichmann è la dimostrazione che una generazione è segnata non dall’età, ma da un trauma. E che questo non chiude un’epoca ma pone il problema di come si trasmette una memoria e si conserva una riflessione per la storia. Ovvero come si trasforma una generazione, che non rappresenta se non una fase relativamente breve, in una fase più lunga. Le fasi più lunghe di solito si chiamano civiltà.

Quella che si inaugura con il processo Eichmann, è la fase che ha per fondamento la ricerca quanto mai impervia e l’impegno per l’affermazione dei diritti. A partire dal fatto che il risarcimento del torto non è né monetizzabile, né risolvibile per via burocratica, ma avviene per riti di passaggio, attraverso i quali ogni generazione, racconta a se stessa i luoghi e i crocevia della propria vicenda e colloca dei segnalibri.

Pätzold e Schwarz ci aiutano a mettere un segnalibro laddove per comodità noi avremmo posto un monumento in nome della costruzione del mito, ovvero a rendere significativo un evento, ma senza assolutizzarlo. A riconoscerlo in una catena simbolica, culturale e operativa che lo rende terribilmente umano e non orribilmente extra-umano. In breve a fare in modo che il male nella sua banalità si manifesti e si spieghi nel suo lato anche di gretta stupidità.

Per l’orgoglio dell’animale-uomo essere stati dominati da uno scemo è, probabilmente, la sconfitta più cocente e, forse, ma non vorrei essere troppo pessimista, l’antidoto più efficace, per quanto possibile, a prevenire il suo ripetersi. Alle volte anche l’orgoglio può aiutare.


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