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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it


Professor Thieme, come si può caratterizzare il buddhismo rispetto ad altre religioni?

Il buddhismo ha avuto un’importanza eccezionale, più di ogni altra religione e di ogni altro pensiero di origine indiana, conquistando l'intera parte orientale dell'Asia. Ancora oggi esso è molto importante in Giappone, ed esercita una forte influenza anche in Indocina e in alcune isole come Giava, Bali, ecc. Anzitutto bisogna dire che il buddhismo originariamente non è una religione, bensì una dottrina della liberazione e della salvezza che si rivolge ai monaci mendicanti che si sono già lasciati alle spalle la casa e la patria con lo scopo dichiarato ed esplicito di far trovare loro la liberazione definitiva dal mondo. In un primo momento il Buddha si rivolge esclusivamente a loro, come è evidenziato dal fatto che i discorsi vengono sempre introdotti con la formula “o monaci mendicanti”. L'enunciazione delle “quattro nobili verità” del buddhismo si apre sempre così: “Questa, o monaci mendicanti, è la sublime verità...”. Anche l'uso del termine “sublime”, cioé “arya”, indica che la dottrina non è destinata alle masse, ma a pochi eletti che essa deve soccorrere con la verità affinché giungano a quella liberazione che per il comune mortale rimane inaccessibile. Il Buddha dice: “Questa è la verità della sofferenza. Nascere è sofferenza, invecchiare è sofferenza, ammalarsi è sofferenza, e morire è sofferenza. Essere uniti a chi non ci è caro, è sofferenza, essere separati da chi ci è caro, è sofferenza, non ottenere ciò che si desidera, è sofferenza”. Queste sono le sette radici della sofferenza dell'uomo.

Il Buddha afferma che la vita è intrinsecamente sofferenza, sia per quel che riguarda gli eventi biologici, dalla nascita alla morte, sia per ciò che il destino ci riserva: essere costretti a convivere con le persone che non amiamo, separarci dalle persone che invece amiamo, o essere nell'impossibilità di ottenere ciò che desideriamo. Per tutto ciò, la vita è sofferenza: “Questa è, o monaci, la verità della origine della sofferenza, che è la sete che trova piacere ora in questo, ora in quest'altro, un godimento accompagnato dalla passione, una sete che si rinnova sempre”. “E questa è, o monaci mendicanti, la verità del superamento della sofferenza: separarsi dalla sete, abbandonarla, disfarsene, voltarle le spalle”. Questo è l'unico momento in cui troviamo una certa veemenza nel Buddha. In termini sempre nuovi egli invita a liberarsi dalla sete, il che però non è affatto facile, dato il continuo rinnovarsi della sete stessa.

La “sete” di cui parla il Buddha, cioè l’attaccamento al piacere sensibile e alla vita intesa come persistenza nell’essere, è la causa del dolore dell’esistenza. Qual è la via che conduce alla liberazione dalla “sete”?

E' la via relativa alla quarta verità, la via che conduce al superamento della sofferenza e che consiste nel vedere, immaginare, parlare e agire in modo giusto, ma anche nel mangiare e nell'impegnarsi in modo giusto, e infine nel conoscere e nel meditare in modo giusto. È questa la via media, con le sue otto componenti, che si allontana dalla vita tesa alla gioia e al piacere, ma che è altrettanto lontana dalla vita dell'asceta il quale castiga il proprio corpo, quando lo costringe a distendersi sulle punte di chiodi, o quando lo riduce a scheletro attraverso il digiuno. La via media è quella del monaco, e comincia dal vedere le cose nel modo giusto, come sono veramente. In una donna, per esempio, il monaco non bada alla sua bellezza, ma la vede per quella che è. Il giusto vedere significa non lasciarsi ingannare dal bell'aspetto delle cose.

Dall'altro lato, non bisogna nemmeno chiudere gli occhi o distoglierli, come fa l'asceta. La via media ci permette di guardare le cose, anzi ci esorta a guardarle veramente. Il secondo passo consiste nell’immaginare nel giusto modo. Una volta vista, la donna non dev'essere immaginata a partire dal suo aspetto seducente che accende la libido. La psicologia indiana sostiene - e a mio avviso correttamente - che l'amore non nasce dalla vista dell'oggetto, bensì dalla sua rappresentazione nella mente; per evitare di cadere nella sete della libidine bisogna controllare le immagini che conserviamo delle cose viste. Parlare nel modo giusto significa invece che, una volta che riusciamo a vedere, e ad immaginare le cose come sono, saremo moderati nelle parole, ovvero esse non saranno non esuberanti né sprezzanti.

Dopo questi primi passi, inizia la seconda parte della via del monaco verso la liberazione dalla sofferenza. Questa riguarda l'alimentazione e gli sforzi da compiere. Nell'alimentazione egli deve rispettare la regola che gli impone di uscire una sola volta al giorno, prima dell'ora di pranzo, per mendicare il suo pasto. Non deve uscire di nuovo, né mangiare altro. Ma è altrettanto sconsigliabile che egli arrivi al punto di patire la fame. Ogni giorno deve praticare esercizi di respirazione e stare seduto immobile per alcune ore; questi sono gli sforzi per lui giusti. Ultimo dei mezzi per giungere al giusto meditare, è la giusta consapevolezza delle proprie azioni: il monaco, quando si alza, dev'essere consapevole del fatto che ora si sta alzando, e così anche quando siede, quando cammina, ecc. Rendersi conto di ogni azione, costituisce una prevenzione contro l'improvviso insinuarsi di passioni nella sua mente.

Così, per gradi, si sviluppa la facoltà di meditare nel giusto modo. Anche qui bisogna evitare la modalità non mediana, la trance dei fachiri, in cui si perde completamente coscienza, ma si vive come in un sogno beato. Percorrendo la via media, il monaco entra nel nirvàna, cioè nella “estinzione”, nello spegnersi della sete, e con ciò arriva al superamento della sofferenza. Questo stato di liberazione cui può giungere in questa vita, è seguito dalla “grande estinzione” nella morte, màha-nirvàna.


Dove troviamo la dottrina del Buddha? Quali sono i testi autorevoli da cui essa si attinge, e come sono strutturati?

Esiste un grande numero di opere canoniche, suddivise secondo le categorie. Una delle più antiche e più importanti è una Regola per la disciplina dei monaci. In un'altra opera sono raccolti i discorsi del Buddha, i sutra. Tra questi c'è sicuramente materiale spurio, aggiunto e attribuito al Buddha in epoca più tarda. Le quattro nobili verità costituiscono invece - di ciò sono convinto uno dei documenti più antichi; lo dimostra il modo stesso in cui sono espresse, il quale, devo dire, non sempre è stato adeguatamente inteso. Data la mole della letteratura, la distinzione tra ciò che è antico e ciò che non lo è, acquista grande importanza. Anzitutto esistono due tradizioni di opere canoniche, una meridionale - che nell'insieme è quella più antica - e una settentrionale. Ciò che hanno in comune può essere considerato come il patrimonio più antico, tra cui secondo me, le parole attribuite al Buddha, come le quattro nobili verità.

Laddove invece si tratta di singole regole, è probabile che siano state aggiunte quando si sono rese necessarie. Voglio fare l'esempio della regola che vieta ai monaci di accettare un invito di entrare in casa; quando essi mendicano il cibo, devono fermarsi davanti alle porte. Ecco una regola che ha tutto l'aspetto di essersi imposta per evitare incidenti spiacevoli, come litigi tra monaci che si incontrano in una casa, ad esempio, perché uno crede di aver ricevuto meno dell'altro, o perché il monaco arrivato per primo non vuole dare spazio al secondo. Per i discorsi del Buddha è diverso. Essi portano l'impronta della autenticità, alla sessa stregua delle “parole del Signore” nella Bibbia, i lògoi kyriakoi, sulle quali concordano, nell'insieme, i tre evangelisti sinottici. In entrambi i testi è riportato ciò che i discepoli si ricordavano del maestro - sia del Cristo che del Buddha. Del resto è più facile che i discepoli ricordino gli insegnamenti che hanno ascoltato personalmente. Invece i racconti sull'infanzia del Buddha e sul periodo precedente la sua conversione, non erano probabilmente argomento di discorsi fra il maestro e i discepoli, e già per questo la loro attendibilità è discutibile.

Perciò si può dire che quasi tutte le notizie contenute nelle leggende sulla vita del Buddha, non corrispondono alla verità storica e che quindi sappiamo molto poco sulla sua persona. Io non darei per certo neanche il fatto che fosse figlio di un re come affermano le biografie. È possibilissimo che proprio questo particolare sia stato aggiunto dai monaci per sottolineare la scelta di vita umile di un monaco mendicante, a differenza di quella vissuta in un palazzo reale all'insegna dell'agiatezza. - Ma è altrettanto impossibile escludere che il Buddha fosse di sangue reale: semplicemente non possiamo saperlo. Invece possiamo essere certi, a mio avviso, dell'ultimo viaggio del Buddha che lo conduce dal Bihàr a Kushinàgara. Come per gli ultimi giorni del Cristo, il resoconto dell'ultimo viaggio e delle ultime ore del Buddha è molto dettagliato. Non sorprende il fatto che i discepoli si ricordano tanti dettagli in questo caso, mentre è impossibile ricostruire gli spostamenti durante gli anni del pellegrinaggio. Come nel caso del Cristo, anche la presenza del Buddha viene segnalata ora in una località, ora in un'altra, senza ulteriori notizie.

Ma il racconto dell'ultimo viaggio è certamente autentico, come anche la causa della sua morte che ci viene riferita, e cioè una forte diarrea causata dal cibo. Non è probabile che i discepoli abbiano inventato un particolare di questo tipo. Dobbiamo immaginare un uomo anziano, che aveva un’ottantina d’anni, essendo il Buddha uno dei pochi fondatori di religioni che non sono stati bruciati o crocefissi. Un vegliardo, dunque, che giunge con i discepoli ad un fiume. Si toglie la veste - che gli serve anche come superficie sulla quale dormire - per farsi il bagno. Dopo sente freddo, e come concessione alla malattia e alla fragilità del vecchio corpo, egli chiede ad un discepolo di piegare in due la veste in modo da ottenere uno strato doppio. Infatti la regola prescrive di dormire su uno strato semplice di stoffa.


Possiamo dunque affermare che il buddhismo ha una originaria tendenza egoista la quale solo in seguito viene superata dal buddhismo del Màhayana?

In effetti, il Buddha non ha parlato delle quattro nobili verità e della via alla liberazione ai profani. Essi non le avrebbero comprese: si tratta infatti di un insegnamento che non si adattava a tutti. Per chi è coinvolto nel movimento della vita quotidiana, la verità circa la sua intrinseca natura come sofferenza, è troppo difficile da comprendere e da accettare. Ai profani il Buddha si rivolge con sermoni che propongono una morale piuttosto convenzionale, malgrado esprima un'eccezionale mitezza. Tutti devono essere buoni nei confronti degli altri, i padroni giusti con i loro subordinati, i bambini obbedienti verso i genitori, i genitori non troppo severi con i figli. Si tratta di insegnamenti assai diversi da quelli contenuti, ad esempio, nel discorso sulla montagna che era invece rivoluzionario e proponeva una morale inaudita per quei tempi e per quel luogo. Nel discorso del Buddha non c’è nulla di così dirompente come l'invito ad amare i propri nemici e a porgere l'altra guancia. Il suo insegnamento per i profani era volto, per la sua stessa convenzionalità e mitezza, a procurare amici al nuovo ordine. I seguaci di Buddha trovavano facilmente chi dava loro da mangiare, e l'ordine cresceva senza incontrare ostacoli, almeno fino a quando il numero sempre crescente di monaci mendicanti non cominciava ad essere un peso per la società.

E' importante distinguere, dunque, tra l'insegnamento della dottrina della liberazione per i monaci e l'insegnamento etico destinato ai profani amici dell'ordine. Il Buddha viveva in pace con il mondo, aveva il dono di farsi molti amici e di conquistarli con il suo insegnamento; uno dei suoi ammiratori e amici era il re Ajatashàtru che aveva ucciso il padre per accedere al trono. L'operato del Buddha era ben accetto, essendo la morale da lui divulgata accettabile anche per chi non aveva intenzione di seguirla: non poteva non fargli piacere l'idea che, almeno il prossimo, la seguisse. Come il Nazareno, anche il Buddha era molto ammirato e rispettato dalle donne che vedevano in lui l'incarnazione dell'ideale umano. Di tale affetto testimonia il resoconto del funerale del Buddha, dove sono molte le donne che si avvicinano e piangono sconsolate.

Ad ogni modo, rimane il fatto che il pensiero centrale del buddhismo è la liberazione del singolo, ed è per questo che l’originaria dottrina della tradizione meridionale è rigorosa nel suo rivolgersi ad un piccolo gruppo di monaci. Ma sin dall'inizio essa è mitigata dalla promessa fatta ai profani secondo la quale essi, mostrandosi miti e gentili in questa vita, rinasceranno in condizioni migliori. Il merito morale sarà ripagato dal fatto che essi, nella prossima reincarnazione, saranno migliori e più savi. In tal modo, da una incarnazione all'altra essi possono accrescere sempre di più la loro facoltà di comprendere la sofferenza del mondo, di farsi monaci e di giungere infine alla liberazione.

Con il diffondersi dell’insegnamento del Buddha, la dottrina perdeva man mano il suo originario rigore. I seguaci del Buddha svolgevano un'attività missionaria, e ciò comportava che predicassero anche ai profani, ai quali non potevano imporre la dottrina nella sua purezza. Infatti, non solo si giungeva a promettere ai profani la liberazione, ma inoltre si introducevano elementi di religiosità popolare ai quali i profani non volevano rinunciare. Tutto ciò è avvenuto soprattutto nella forma settentrionale del buddhismo, chiamata il màhayana, la quale, da dottrina di liberazione per pochi eletti, si è trasfortmata in una religione per i molti. I seguaci del màhayana chiamavano il buddhismo meridionale hìnayana. “Yana” può essere tradotto con “veicolo” o con “via”. Il buddhismo del nord si autodefinisce dunque come il “veicolo grande” perché è aperto a molti, possibilmente a tutti; e chiama “veicolo incompleto” il buddhismo destinato a pochi. Aprendosi a molti la dottrina deve indebolirsi, dal momento che nella forma pura essa presuppone una vita monacale. Inoltre lo scopo non può essere più un estinguersi della sete, che al profano non dice niente e tanto meno lo attira. Così il Nirvàna, che originariamente significa un estinguersi, si trasforma in uno stato eterno di beatitudine.

Qual è il concetto del Sé sviluppato dal buddhismo?

In realtà, già nel primo buddhismo meridionale, si nega addirittura l'esistenza di un Sé. Il Buddha invece, che non parlava di cose che non sapeva, non ha detto niente a proposito del Sé. Ciò di cui ha parlato, invece, sono le cinque componenti della personalità o skànda. Si tratta, ad ogni modo, dell'esposizione di fenomeni empiricamente osservabili. Che cos'è una persona? In primo luogo, la persona ha la facoltà di percepire e di essere, a sua volta, percepita. La prima componente consiste dunque nella percezione, in senso sia attivo che passivo. Oltre la percezione vi è,poi, la facoltà di dividere la realtà secondo i samskara, cioè “categorie” o “concetti” - secondo la traduzione che io dò a questo termine. L'uomo si caratterizza quindi per la sua conoscenza dei generi universali, su cui si basa la coscienza del proprio genere attraverso la quale egli sa di essere un uomo, non diversamente da come sa che un singolo cane appartiene al genere dei cani, o che una quercia è un albero. In terzo luogo, la persona possiede la consapevolezza di essere una persona distinta, all'interno del genere, ed è qui che possiamo individuare la coscienza di sé, una coscienza individuale in grado di affermare: “Io sono diverso da tutti gli altri”, il che è diverso dall'affermare: “Sono un essere umano”. Gli skànda sono questo: affermazioni sul Sé che si ricavano dall'esperienza.

Non posso dire se il Buddha abbia respinto il concetto di un Sé. Ritengo che egli avrebbe detto semplicemente: “Non so se esista una cosa del genere”. Certo ciò crea una difficoltà per la filosofia buddista,una difficoltà relativa alla necessità di rispondere alla domanda su chi è l'oggetto della liberazione. Infatti, se non esiste un Sé, non vi è nulla che possa essere liberato.

Un'altra dottrina importante del Buddha è quella della “generazione in dipendenza da altro”. In che cosa consiste precisamente? E che cosa distingue tale generazione dalla dottrina di una totale determinazione causale?

“Generazione in dipendenza” significa che l'esistenza di uno stato di cose è la premessa perché possa generarsi l'altra. Non si tratta di un “causare” nel senso che l'esistenza della prima ponga necessariamente anche l'esistenza della seconda. La sequenza della generazione comincia con la condizione del non-sapere o avìdya.. La condizione del non-sapere corrisponde a quella componente della persona, o skànda, per cui si possiedono i concetti e si conoscono i generi delle cose, come abbiamo detto prima. Tali concetti, i samskara, sono innati, alla stessa stregua delle idee platoniche, anche se, secondo la dottrina buddista, sono affetti dall'errore. L'ultima parola del Buddha a questo proposito è l'affermazione: “I generi non sono eterni”.

Ma è su tali generi universali, prodotti dall'illusione, che si fonda la nostra consapevolezza di appartenere al genere umano permettendoci di dire: “Sono un uomo”. E tale consapevolezza è a sua volta la base imprescindibile per poter affermare, all’interno del genere umano, “Sono un individuo”. E solo in qualità di individuo, noi perveniamo alle percezioni sensibili. È difficile stabilire se il Buddha credesse che tali percezioni fossero un'illusione dato che affondano le radici in concetti che sono fallaci. Ad ogni modo, sono i sensi e le percezioni a mettere l'individuo in contatto con il mondo: con gli occhi noi “tocchiamo”, per così dire, luce e colori, con la pelle tocchiamo l'esterno degli oggetti, con la lingua il loro gusto, ecc. Così si genera il contatto, dal contatto si genera la sensazione, dalla sensazione la sete, e dalla sete ciò che il Buddha chiama il “prendere”, upadàna, intendendo probabilmente il rapporto sessuale, risultato del tipo di sete più imperioso di tutti. Dal fatto che l'uomo “prende” la donna, si genera il divenire, nell'embrione, e solo quando vi è l'embrione può esservi nascita. Appena vi è nascita, vi è anche la sofferenza e l'infelicità della vita. Ma tutto svanisce se tolgo e supero il non-sapere, l'ignoranza, il che avviene attraverso le quattro nobili verità.

Si danno interpretazioni diverse di questa dottrina che è molto oscura. Per la mia interpretazione è essenziale la possibilità di invertire la sequenza: non può esserci nascita se non c'è generazione; non può esserci generazione se manca il “prendere”. Il “prendere” non può avvenire se non c'é libido. Non può esserci libido senza sensazioni. Le sensazioni non possono generarsi senza contatto. Il contatto non avviene senza la percezione sensibile. La percezione non si dà se non vi è persona. La persona può generarsi solo se ci sono i concetti. I concetti ci sono solo se c'è non-sapere, ignoranza, avìdya .

Nello Hìnayana non solo si rinuncia al concetto del Sé, ma in fondo anche alle divinità, dal momento che esse sono assai marginali per la liberazione dell'uomo. Si tratta dunque di una religione “atea”?

Non direi atea, dal momento che non viene negata l'esistenza delle divinità.Cert è che nelle antiche leggende buddiste gli dei hanno per molti versi un ruolo da comparse; essi, per esempio, dopo il sermone del Buddha, fanno scendere una pioggia di fiori e fischiano con le dita in segno di applauso - una scena che viene rappresentata spesso nell'arte buddhista. Dal processo della liberazione, gli dei sono del tutto assenti. Tutto ciò nel Màhayana cambia completamente. Le divinità scompaiono, o quasi, e il divino viene rappresentato dalle figure dei Buddha del passato, i cosiddetti Bòdhi-sàttva che ricompaiono sulla terra, sotto centinaia e migliaia di spoglie diverse, ma sempre con uguale perfezione. Tra i Bòdhi-sàttva, alcuni spiccano particolarmente, come per esempio il Buddha Amida che ha un ruolo particolare in Giappone. - Così dal buddhismo si sviluppa un politeismo popolato da figure di Buddha, un politeismo che mantiene poco di quel che, per valide ragioni, ritengo sia l'essenza della dottrina del Buddha.


Un incontro affascinante tra la cultura greca e quella indiana è avvenuto quando una parte dell'India fu conquistata dai Greci. Dall'incontro è nata un'opera interessante, il Milìnda-pànha, nella quale il re Milinda interroga un monaco buddista. Ma più in generale nasce uno stile dell'arte figurativa, la cosiddetta arte del Gandhàra. Può dirci qualcosa a questo proposito?

L'incontro tra il re Milinda e il savio buddista Nagaséla è il tema che occupa l'intera opera piuttosto voluminosa. Se in esso si fossero effettivamente incontrate le filosofie dell'India con quelle della Grecia, il libro sarebbe stato l'opera più importante dell'antichità. Sotto quest'aspetto, i dialoghi del libro sono una grande delusione. Il re, il cui nome originariamente è Menàndros , Milinda nella pronuncia indiana, non è certo una figura rappresentativa della cultura greca. Infatti egli si limita a domande del tipo : "È vero ciò che si dice di voi, che credete questo o quest'altro?", commentando le risposte del buddista per es. come segue : "Ciò che tu dici, o mio savio Nagaséla, è sicuramente la verità". Quindi in questo caso non si può parlare di un vero incontro tra due culture. Per quanto riguarda l'arte greca invece, la sua influenza sull'arte buddista è effettivamente notevole. Gandhàra era la provincia al confine dell'India a nord-ovest, che fino agli ultimi secoli a.C. era governata dai successori di Alessandro Magno, tra i quali era anche Menandro. Nel primo periodo della cultura indiana, l'arte figurativa era del tutto assente. Trattandosi, come ho detto, di un politeismo senza templi né immagini, non ci sono pervenuti idoli o simili per il semplice motivo che non esistevano.

Solo nel 2º secolo a.C. comincia a svilupparsi un'arte nel vero senso della parola, con le prime costruzioni in pietra. Nei primi edifici in pietra - di cui alcuni, soprattutto luoghi di culto, ci sono pervenuti - si rispecchia ancora la tradizionale dominanza del legno; infatti, la pietra viene lavorata in modo da evocare l'immagine di travi di legno che si curvano sotto un peso. È caratteristico della prima epoca che, mentre le scene della vita del Buddha sono rappresentate sui muri di cinta, è assente la figura del Buddha stesso. Per es. si rappresenta l'albero sotto il quale il Buddha si è risvegliato alle sublimi verità, o le orme dei suoi piedi, quando ha camminato sull'acqua, ma mai il Buddha stesso. Penso che l'impossibilità di rappresentare il Buddha sia dovuto ad un estremo rispetto per l'idea dell'estinguersi, del Nirvàna, un rispetto che non ammette un'esserci del Buddha nel mondo terreno, neanche in figura. Il contatto con l'arte greca provoca un radicale cambiamento. La raffigurazione del Buddha s'ispira visibilmente alla figura di Apollo. Dal momento che gli indiani hanno i capelli lisci, il ricciolo tipico di Apollo diviene segno distintivo del Buddha trasformandosi nell'arte indiana in un bernoccolo sulla testa. Più tardi se ne aggiunge, allo stesso modo, un altro: le membrane che uniscono le dita del Buddha e che si rifanno alle sottili striscie di marmo tra le dita delle sculture, lasciate dagli artisti greci per evitare che le dita si spezzassero.

Partendo da Gandhàra, l'arte figurativa si è diffusa in tutta l'India e arricchendosi sempre più di caratteristiche propriamente indiane, è divenuta un'arte ricca e vivace. Già ai tempi del nostro Medioevo, buddhismo e induismo si erano completamente aperti all'arte visiva, e l'induismo é addirittura esuberante nella varietà delle sue creazioni, talvolta bizarre e fantastiche, quando la divinità rappresentata lo suggerisce; ma altre volte essa raggiunge la massima espressione della bellezza nell'umano. - Quanto al buddhismo, esso ci ha dato alcune delle figure più belle ed umanamente avvincenti, in alcune rappresentazioni dei Buddha. Vi troviamo sempre una grande intensità artistica tesa a dare forma, nell'espressione del volto e nell'atteggiamento del corpo, alla pace raggiunta - con se stessi, con il mondo - in paziente attesa dell'estinguersi della esistenza, l'espressione di beata certezza è trasfigurata da una grande gioia interiore. - Nelle rappresentazioni cinesi, questa stessa espressione di gioia a noi sembra un ghigno, ma agli occhi dei cinesi il riso del Buddha esprime la gioia che egli ha provato nell'essersi liberato dalla sofferenza. Penso inoltre al Buddha di Kamàkura in cui si riscontra alla perfezione l'originaria rappresentazione indiana.

Il personaggio dell'India moderna che ha inciso di più ed esercita il maggior fascino, è senz'altro Mahatma Gandhi. - Nel pensiero di Gandhi, lei vede una continuità rispetto alla tradizione indiana, che ci ha esposto con così profonda conoscenza e tanto entusiasmo? Secondo lei, in che cosa si riscontra questa continuità, e quale potrebbe essere la sua attualità per noi? In che cosa consiste, in particolare, l'attualità di Gandhi?

Anzitutto, troviamo in Gandhi un'idea che è fondamentale, nell'induismo, come ho già avuto modo di sottolineare; si tratta della verità. La sua autobiografia s'intitola "My attempts with truth" - "I miei tentativi con la verità." - Probabilmente Gandhi non era neanche consapevole di adottare, come principio della propria vita, uno dei fondamenti dell'induismo. Sotto quest'aspetto Gandhi è indù, un indù osservante, ma libero di superstizioni, che nella religione vedeva in primo luogo l'attuazione di ideali etici. Ma egli era indù anche nel fatto che non ha messo in discussione il sistema delle caste. Per lui quel sistema era un dato di fatto, inscindibile dall'induismo. Gandhi voleva che gli "intoccabili" potessero entrare nell'atrio del tempio, per partecipare della visione salutare dell'immagine del dio, ma non si è spinto fino al punto di rivendicare, come loro diritto, l'entrata nel tempio, alla stregua dei membri delle altre caste, e di toccare i piedi del dio. Nella sua personalità Gandhi, a mio avviso, ha realizzato un elemento dell'India antica che mi ha sempre attratto in modo particolare: mi riferisco al carattere mite, alla gentilezza, quale viene rappresentata per eccellenza dal buddhismo.

Alla base è la profonda convinzione che con la dolcezza e la gentilezza si ottiene più di quanto si ricavi con la durezza e l'aggressività. Gandhi è stato, sì, corraggioso nella lotta, al punto che è andato in prigione infrangendo le leggi quando era necessario; ma anche nella lotta adoperava principi non-violenti ovunque potesse. Il fascino del Buddha secondo me consiste nella esemplare dolcezza e mitezza con cui si è rivolto a tutti, ed è per lo stesso motivo che la figura di Gandhi ci colpisce. Ricordare l'insegnamento per il quale ci si rivolge con gentilezza anche ad un potenziale nemico affrontando i dissidi e i conflitti, all'insegna della verità e della mitezza, sarà importante per il futuro progresso della civiltà.

(traduzione: Christiane Schulz)

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