Thic Nhat Hanh: Il respiro salverà il
mondo
Ivo Lini
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Primo esercizio: inspirare pensando intensamente alla propria
inspirazione. Secondo esercizio: espirare pensando intensamente alla
propria espirazione. Tutto qui. Per Thic Nhat Hanh, il monaco buddista
più famoso dopo il Dalai Lama, la via della salvezza dei singoli e
dei popoli non ha bisogno di troppe complicazioni. La liberazione
dalla rabbia, dal conflitto, dalla paura passa per un’azione
apparentemente molto semplice: avere consapevolezza. Del proprio
respiro, tanto per cominciare. E poi, via via, del proprio corpo,
delle proprie emozioni, fino a intuire l’unità di se stessi come
organismo che esiste soltanto nella sua relazione con gli altri.
Giovedì 26 ottobre, Thich Nhat Hanh ha parlato all’aula magna dell’Università
La Sapienza di Roma. Davanti a un migliaio di persone, questo monaco
proposto nel 1967 da Martin Luther King come premio Nobel per la Pace,
ha ripetuto i principi della sua dottrina. Che è poi l’applicazione
di alcune tecniche buddiste ai momenti più comuni della vita
quotidiana. Presenza mentale, presenza mentale, presenza mentale.
Presenza mentale nel sapone che si gonfia mentre laviamo i piatti, nel
boccone del cibo masticato lentamente, nei piedi che camminano o nella
schiena seduta. Presenza mentale persino nel fumo di una sigaretta (“per
poi capire che si tratta di un’attività nociva per sé e per gli
altri”). Consapevolezza del presente e tutto il resto fuori. Fuori i
rimorsi del passato, fuori i progetti e le preoccupazioni del futuro.
Fuori, cioè, tutto quanto impedisce di amare e di ascoltare le
ragioni del prossimo.

Detta così, sembra una delle tante formule sbrigative dei santoni
della New Age. Ma la storia di questo monaco impone di sospendere il
giudizio. Nasce, Thic Nhat Hanh, nel 1926, in Vietnam, dove viene
ordinato monaco a 26 anni. Nel 1961 è negli Stati Uniti per insegnare
religioni comparate. Due anni dopo decide di tornare nel suo Paese e
di schierarsi contro la guerra: diventa il riferimento di coloro che
propugnano la via d’uscita non violenta, ispirata a Gandhi e al
Buddha. Nel 1964 fonda i Piccoli gruppi di pace, nuclei che si
dedicano alla ricostruzione del paese. Poco tempo dopo benedice i
primi sei monaci dell’ordine dell’”Inter-essere”, la prima
autentica via all’impegno sociale del buddismo: la sua azione
non-violenta viene attaccata sia dagli americani, in quanto troppo
neutrale, sia dai vietnamiti, in quanto collaborazionista.
Più tardi, è Martin Luther King a restare colpito dal pensiero del
religioso vietnamita. Sono anni molto intensi: Thich Nhat Hanh
incontra Paolo VI, si impegna nel dialogo tra le religioni, insegna la
comprensione dell’interdipendenza di tutte le cose. Ma al termine
della “sporca guerra”, gli viene negato l’ingresso nel suo
Paese. Emigra in Francia, allora, dove nell’82 fonda Plum village,
il villaggio delle prugne: da allora vive tenendo seminari sulla
consapevolezza e scrivendo libri tradotti in tutto il mondo (il più
conosciuto “Il miracolo della presenza mentale”, ed. Ubaldini). Ma
non cessa il suo impegno sociale. Nell’89, assieme al Dalai Lama,
viene nominato patrono dell’Associazione per la risoluzione non
violenta dei conflitti. Primo intervento, una dura critica ai
pacifisti per la rabbia contenuta nella loro azione: “Sapete
scrivere lettere di protesta, ma mai lettere d’amore”, dice.
L’ultima sua utopia è Manifesto 2000, un documento già firmato da
tutti i premi Nobel per la pace e da decine di milioni di persone nel
mondo, in cui promuove una cultura della non violenza che parta dalla
piccola rivoluzione personale della consapevolezza. Un documento, già
consegnato alle Nazioni Unite, considerato il punto più alto dell’Anno
internazionale per la cultura della Pace, proclamato dall’Onu, primo
anno della Decade della non-violenza 2000-2010 (per il testo completo
del manifesto l’indirizzo è “www.nobelweb.org”).
C’è stupore, nell’aula magna, quando Thich Nhat Hanh immagina che
la soluzione del conflitto in Medio Oriente potrebbe essere raggiunta
più facilmente se prima degli incontri bilaterali venisse tenuta
qualche pratica della consapevolezza del respiro. “Sarebbe bene far
precedere i colloqui da qualche giorno di sedute sulla presenza
mentale”, dice senza scherzare. “Il lavoro del presidente Clinton
ne risulterebbe agevolato”.
Più attento, il pubblico, quando Thich Nhat Hanh parla della pratica
quotidiana. “Nella nostra comunità”, spiega, “ogni volta che
suona la campana torniamo al respiro. Perché con la consapevolezza
del nostro respiro portiamo pace a noi stessi e lasciamo spazio alla
compassione per il prossimo”. Poi va sull’esempio pratico: “Molte
persone sono incapaci di ascoltare con compassione. Magari, se sono
ben disposte, possono arrivare a sette-otto minuti di ascolto dell’altro.
Poi scattano altre sensazioni: rabbia, voglia di chiudere in fretta il
discorso, magari di schiacciare l’interlocutore. Eppure, imparare ad
ascoltare l’altro, significa attenuare la sua sofferenza, che è la
sofferenza del mondo”.
Come una madre che tiene in braccio il bimbo, dice il monaco, è
possibile abbracciare il proprio corpo con la consapevolezza. E
calmarsi. “Purtroppo”, osserva, “l’Occidente ha perduto la
capacità di ascoltare il corpo, le sue richieste, la sua supplica di
un nutrimento migliore, che non lo affatichi. Ma non esiste
alternativa: bisogna fare pace con il corpo, con i pensieri.
Altrimenti a prendere il sopravvento sono le emozioni negative. E la
disperazione che domina il mondo”.
Per sostenere l’impegno di Plum Village, adottando a distanza un
bambino vietnamita, è possibile inviare centomila lire a La rete di
Indra, ccp: 33045006, viale Gorizia 25/c- 00198 - Roma (specificando
la causale)
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