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Graal: una sorprendente visione



Angelica Alemanno



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Graal: una sorprendente visione

Qualche mese fa eravamo rimasti colpiti da un viaggio di Parsifal davvero allucinato, messo in scena dalla Valdoca  al Teatro Vascello, per la regia di Cesare Ronconi. Danio Manfredini (Parsifal), candido, intenso e dalla presenza scenica assolutamente dominante, era “l’eroe vecchio, alla fine del suo percorso di formazione […] antieroe-puro, l’attore cavaliere” che “cerca di rapire la complicità di un pubblico disabituato a tanta tragica forza espressiva, a tanto dolore, e lo faceva, miracolosamente, con autoironia.

Alle Officine Molliconi abbiamo assistito a un nuovo viaggio, una nuova visione del percorso rocambolesco del cavaliere fuori e dentro di sé. Si tratta di Graal, uno spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti, costruito su un adattamento di Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach attraverso testi originali di Edoardo Albinati coadiuvato dallo stesso Corsetti. I nomi dei personaggi, contaminazioni evidenti di eterogenee provenienze letterarie, affondano le radici, tra gli altri, in precedenti wagneriani. L’operazione, prodotta dal Teatro di Roma e dalla Compagnia del regista, è rientrata nell’ambito delle manifestazioni per il Giubileo 2000, invadendo e trasformando uno spazio fino a quel momento mai prestatosi a luogo di poesia.

Lo spettacolo, come altri dello stesso regista, si può definire “itinerante”, nel senso che lo spettatore segue la vicenda attivamente nel suo spostarsi attraverso lo spazio scenico privo di soluzione di continuità tra pubblico e attori. Luogo, musica dal vivo, luci e ombre danno a Graal un sottotesto narrativo, in cui più importante dell’arco narrativo totale è il viaggio teatrale nel senso stretto del termine, fatto di quadri in un certo senso autonomi, come la prima sala, cui si accede attraverso un angusto corridoio, è stata suddivisa trasversalmente, occupata per metà da seggioline di legno stile asilo nido.


Siamo infatti nel luogo dove nasce Myrlin, figlio del diavolo e di una vergine, che dà inizio al ciclo di avventure. Il bambino è interpretato da Ruggero Cara, attore caratterista dall’aspetto corpulento e villoso, che riesce a restituire, attraverso questo corpo tondo e pesantemente adulto, le movenze e le posture dei neonati. Pur bambino, Myrlin conosce già ogni cosa, del passato e del futuro, e farà presto a crescere, innamorandosi, attraverso una tenzone fisica e verbale, della bella ed efebica Niniane.

I due personaggi invaderanno di tanto in tanto lo spazio scenico in una rincorsa continua, in cui i due corpi, completamente opposti per fattura e peso, non si toccano quasi mai. Li lega da una parte la volontà sfrenata di lei di divenire discepola di lui, per conoscere le arti magiche; dall’altra il desiderio sfrenato di lui di amarla e di esserne ricambiato. Le due figure non interagiranno mai con gli altri personaggi, ma ci aiuteranno a godere appieno di quell’atmosfera magica e surreale di cui lo spettacolo si fa strumento.

Naturalmente Niniane (il cui nome significa “non lo faccio”, a ribadire il carattere ricettivo), interpretata da una Lucia Mascino (presente anche nella Rappresentazione della Passione accanto a Piera Degli Esposti) vibrante come una goccia di pioggia al sole, finirà per eguagliare il maestro, e, forse oppressa dal troppo amore che riceve, incapace di amare da donna -quale creatura quasi asessuata, diabolicamente celeste- finirà per carpire al maestro il segreto per imprigionare un uomo a sé, usando tale sortilegio contro lo stesso Myrlin. Quest’ultimo, consapevole di essere già schiavo d’amore, accetterà di buon grado la trappola.

Ma la vicenda principale, è, o dovrebbe essere, quella di Parsifal, rozzo gallese alla ricerca di nuove avventure in grado di conferirgli l’esperienza necessaria per divenire Cavaliere a tutti gli effetti. Ma questo eroe puro di Corsetti ha la dominante del fanciullo, l’ingenuità forse un po’ sopra le righe del bambinone in mutande che non riesce neanche ad allacciarsi i pantaloni per la fretta istintiva di compiere qualche gesto eroico.

Il corpo statuario e possente di Filippo Timi conferisce una corporeità tutta umana a quel personaggio che avevamo lasciato in Danio Manfredini come casuale rivestimento di un’anima altra, magica. Ma questa “materialità”, questo peso dell’ingombro fisico, rischia a tratti di trasformarsi in una ricerca di candore tutta esteriore.

Più convincente Roberto Rustioni nei panni di Gawain, prima nella separazione determinata da Lancillotto, poi nella scena quasi ginnica nel castello del Cavaliere Verde. Qui Gawain, da poco ripescato dal fiume, viene ospitato in una camera verticale, una sorta di strano “materasso Jumping” verde, sollevato per metà da un gancio industriale, (molti sono infatti i materiali originali del luogo riutilizzati in forma espressiva). La precarietà della posizione del personaggio Gawain nell’accettare la sfida del Signore del castello, un gioco di scambio dove sono in ballo l’onore e la sincerità, è doppiamente rafforzata dalla posizione precaria dell’attore. Davvero una sfida recitativa non indifferente giocata con pulizia e verità: sul materasso mobile nonché costretto in una condizione di semi-nudità.

Ma ciò che ci ha convinto di più di questa scelta registica cupa e onirica, è senz’altro l’aspetto più importante: questo colare lento e inesorabile del personaggio dentro il corpo dello spettatore, che percorre le stesse strade, incontra gli stessi luoghi, gli stessi folletti, ha le stesse visioni di quel Viaggiatore archetipico e interiore che è il Parsifal.

In funzione di questa identificazione, citiamo fra tutte la scena più originale ed efficace, la visione del Graal: gli spettatori giungono prima di Parsifal sulla sponda di una sorta di lago artificiale, e si accomodano sulle sedie disposte lungo la riva. Il Cavaliere bambino comincia a camminare sullo specchio d’acqua, quasi sorretto da una forza miracolosa. Le luci soffuse si fanno a poco a poco più intense e seguiamo il corpo in penombra allontanarsi fino all’altra sponda. Parsifal guarda l’acqua immobile, e lentamente la superficie del lago si placa e come in uno specchio rivela a lui e a noi, increduli, l’immagine magica del Re Pescatore e di una donna denudata che regge il Graal. L’effetto scenico è assolutamente dirompente, tutti assistiamo al ricomporsi dell’effimero del teatro nel nascere di una luce riflessa. Davvero spettacolare. Sorprendente. Vale tutto lo spettacolo.

Concludiamo con un brano di un’intervista a Giorgio Barberio Corsetti comparsa in La Porta Aperta (ottobre 2000):“… la storia di Perceval ci racconta di come si raggiunge il cuore dello spirito nel momento in cui non si è in grado di fare le domanda giusta. Da questa perdita scaturiscono mali incalcolabili. Tutto il mondo sa che quel ragazzo non ha fatto la domanda giusta e lui passerà anni e anni alla ricerca di quel centro che aveva toccato senza accorgersene […] In questa vicenda c’è un destino tragico: da un gesto minimo di non consapevolezza scaturisce un disastro che ha a che fare con qualcosa di originario, con la capacità rigeneratrice dell’eroe che feconda il mondo, che lo fa rinascere. Vorrei che attraverso l’emozione, si cogliesse la tragedia di non essere in contatto profondo con il proprio spirito, della perdita del sacro che è dentro ognuno di noi.” Davvero qualcosa di profondamente attuale.

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