Parsifal in Valdoca
Angelica Alemanno
Nel 1999 uscivano su diversi quotidiani italiani recensioni su questo Parsifal della
Valdoca, "una trasposizione teatrale dalla potenza assolutamente peculiare
acrobatico, erotico, danzante" (Franco Cordelli Corriere della sera). Ed è
così che rivediamo in questa stagione al Teatro Vascello di Roma lo spettacolo-evento,
come oggi si amano definire le rappresentazioni fuori dagli schemi del teatro
tradizionale, e rimaniamo stupiti.
La prima importante versione romanzata del Parsifal fu quella di Chrétien de Troyes,
grazie al quale il mito del Graal entra per la prima volta nella letteratura francese. Dal
XIII secolo in avanti, molte saranno le rielaborazioni, dal poema di Wolfram Von
Eschenbach al dramma musicale di R. Wagner (1882). Ma chi fu Parsifal e perché ancora
oggi risveglia ispirazione poetica?
Il personaggio di Parsifal attraversa diversi romanzi del ciclo bretone: era uno dei
cavalieri di Re Artù che meritò, per la purezza del suo cuore, di conquistare il sacro
Graal e di divenire re. Quella purezza era dovuta alla mancanza di qualsiasi
contaminazione del mondo esterno, con accanto lunica presenza della madre. La storia
dunque segue la genesi di un cavaliere che da giovane e selvaggio, un individuo quasi
astratto, una tabula rasa, cresce attraverso leducazione,
emancipandosi in una lenta ascesa verso la perfezione.
Quello che è fondamentale dunque è il rapporto del personaggio col mondo nuovo in cui
entra, ed è forse questa la chiave interpretativa per comprendere anche il senso delle
successive elaborazioni.
La volontà profonda di Parsifal di crescere e di sopravvivere è
venata di un misticismo che lo assimila alleroe della ricerca interiore così
presente nella cultura successiva, soprattutto rinascimentale e romantica. E se nella
cultura medioevale cavalleresca lindividuo era tenuto a piegarsi alletichetta
delle istituzioni umane e doveva pur sempre integrarsi in un quadro sociale perfettamente
stabilito e codificato da ferree regole collettive, possiamo azzardarci a dire
conformiste, il Parsifal di oggi, mantenendo del vecchio la purezza e la
positiva forza eroica, non può che inserirsi nellutopia, che nel caso del Parsifal
della Valdoca sembra identificarsi con lutopia stessa del Teatro e dellAttore.
Il mondo che lo circonda sulla scena diventa allora specchio dei suoi tentativi, e quello
esterno, antagonista, diviene lo specchio degli spettatori, ignari di quei
codici, lontani dai valori mistici e positivi di ricerca.

Il Parsifal della Valdoca, interpretato da un Danio Manfredini intenso e dalla presenza
scenica assolutamente dominante, è leroe vecchio, alla fine del suo percorso di
formazione, ma proprio per questo, un po come un Budda occidentale, è martire e
guerriero, puro e folle, ebete e savio.
La scena è nuda, la pianta del palco è delineata da infinite lampadine da ribalta che
trattengono lo spazio della rappresentazione nella dimensione della magia. All'interno
della coralità dellazione distinguiamo un Parsifal giovane (Fabrizio Miserocchi),
che con trecce e coda capriolando si sposta fendendo laria con una lunga canna,
forse il retaggio della spada del cavaliere e unico oggetto di scena costante che passa
dalle sue mani a quelle del Parsifal-capocomico, o riposa a terra durante le violente e
liberatorie parate dei clown. Cè luomo saltimbanco (Giuseppe Semeraro) che
corre sul monociclo inseguendo i compagni, e cè la fatina rosa e leggiadra
(Caterina Genta), dal tenero sguardo interrogativo, che con semplici piroette condivide
estatici momenti di sospensione tra le braccia del saltimbanco.
Solo loro tre sono personaggi "ibridi", diversi dal gruppo e insieme simili alla
razza del pubblico: solo loro non hanno il lungo naso posticcio del crudele
splendore del mondo. La fatina-Caterina Genta ci spiega che le prove venivano
lavorate sullo sfondo del testo poetico di Mariangela Gualtieri, compagna nella vita e nel
lavoro del regista Cesare Ronconi, testo registrato dalla voce di Danio Manfredini,
presente di persona alle prove solo nellultimo mese di lavoro. Oltre alla voce di
Manfredini, che peraltro ci introduce nello spettacolo prima dellentrata degli
attori, ci sono brani dellopera di Wagner nonché linconfondibile brano di
Kurt Weill sullutopia: "Yukali".

Estenuanti i provini per tuttItalia, effettuati dal regista insieme alla carovana in
crescita degli attori che mano mano venivano scelti. Si perde la sessualità di questi
personaggi, tra seni piccolissimi e corpi nervosi abituati a lavorare sul ritmo, nello
sforzo e soprattutto, aggiunge la fatina-Caterina Genta, in estrema libertà:
"
ogni replica è diversa dalle altre, ogni volta riusciamo a ricreare emozioni
e a farne nascere di nuove, il lavoro del gruppo è predominante e assolutamente
liberatorio. Ogni volta la recita è preceduta da un training coinvolgente e necessario
alla buona riuscita dello spettacolo. Danio è davvero il centro catalizzatore e ci guida
in progress soprattutto sul palcoscenico".
Cè un velo invisibile che trattiene nel mistico silenzio della platea il senso
della messa in scena. Sono tutti camuffati da clown gli attori-acrobati-ballerini, leggeri
e pesantissimi, il cui sforzo nel movimento e nella parola è palpabile e diviene
inscindibile dalla funzione espressiva di ogni coreografia (curata da Catia dalla Muta).
Voci artefatte, grida profonde disumane e gioiose, il disegno scenico dei corpi in
movimento che culminano in parentesi orgiastiche, riescono a riprodurre il sentimento
dominante: una tragica solitudine.
Antieroe-puro, lattore cavaliere cerca di rapire la complicità di un pubblico
disabituato a tanta tragica forza espressiva, a tanto dolore, e lo fa, miracolosamente,
con autoironia. Sarà questa la moderna ricerca del Graal nel Teatro?
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