Mangiare, bere/Sfogliatelle, mostaccioli e
l'ésprit napolitaine
Articoli collegati:
Mangiare, bere/Sfogliatelle, mostaccioli e l'ésprit
napolitaine
Mangiare, bere/Napoli: dolci tentazioni in convento
Città porosa, capace di metabolizzare tutto: Napoli è così. Non c'è
nulla che possa cambiarne lo "spirito, quel mix ineguagliabile d'ingegno, dignità,
raffinatezza e vivacità intellettuale che da secoli attrae e conquista chiunque passi di
lì.
Napoli, un'attrazione fatale costante nei secoli, un trend
irresistibile per chiunque, alle soglie del terzo millennio, voglia fare il turista, sia
pure soltanto per caso. Partenope tappa prediletta dei viaggiatori del Grand Tour nel
1700, ma addirittura meta obbligata per chi, nell'antichità, voleva recarsi in Italia.
Città porosa, come è stata definita di recente, che tutto accoglie e
metabolizza, con il porto e la costa limitrofa che hanno svolto il ruolo di ineludibili
calamite, messe lì ad attirare navigatori e santi, mercanti e conquistatori. Qui approda
Ulisse incantato dalle Sirene, a Pozzuoli sbarca San Paolo, per poi recarsi a Roma a
fondare quella Chiesa che sta per andare a celebrare il Giubileo del 2000.
A Napoli nasce la prima Università pubblica, voluta da Federico II,
facendovi convergere illustri studiosi. Boccaccio stregato dalla città, ambienta a Napoli
alcune delle sue novelle più gustose. Chi aveva da far traffici [puliti o meno], chi
possedeva denaro da spendere senza troppi problemi, chi - miracolato reduce da sanguinose
guerre - voleva ritrovare il ritmo della vita, veniva a Napoli, a consumare una stagione
indimenticabile, fra splendide chiese angioine, oscuri angiporti, taverne rinomate e
prostitute alla portata delle diverse borse.
Questo il volto che la città mantiene attraverso i secoli; non c'è
epidemia che l'annienti e anche alla carestia si sopperisce con piatti poverissimi che,
nel 1600, valsero ai napoletani il nome di "mangiafoglie".
L'"arte di arrangiarsi" è l'esaltazione dell'intelligenza umana, della
capacità di saper fronteggiare ogni situazione. Infine, la concezione positiva della vita
per cui basta un raggio di sole o uno squarcio di mare per essere felici, anche se la
salute è malferma, lo stomaco vuoto e i vestiti sono stracci.
Questa è la città che conosciamo attraverso la letteratura
ottocentesca; questi sono i luoghi e i personaggi che gli artisti napoletani immortalavano
nelle loro tele, mediando la tradizione attraverso le immagini vivide dell'arte pittorica.
Su questo tessuto agì l'opera del Risanamento, quando - tra grandi
polemiche - si decise che il volto di Napoli doveva cambiare: boulevards come Parigi ma,
forse, Napoli non più capitale, con i suoi fasti e la misera alacrità del suo popolo
sacrificati in nome del progresso unitario.
E poi la Belle Epoque, con un ceto elevato che a pieno titolo si
inseriva nel gotha della nobiltà europea, fino al fascismo che qui, per fortuna, non
viene mai preso sul serio e viene affrontato, spesso, con ironica indifferenza.
Infine la guerra, la città martoriata dai bombardamenti, l'arrivo
degli Americani e la capacità di adattamento di un popolo che, magrado passi attraverso
tante brutture, non smette mai la sua voglia di vivere.
E ancora il livello deprimente dell'amministrazione laurina, le mani
sulla città e l'imprenditoria "assistita", con la politica ridotta al ludibrio
di se stessa. Da un altro lato, invece, una vivacità intellettuale introvabile altrove: i
cenacoli di arte moderna e le scoperte archeologiche, l'amore per il cinema e il rigore di
una grande tradizione giuridica, la letteratura intimamente vissuta e la vita musicale, in
un'armonia tutt'altro che perduta. Di questo straordinario patrimonio, di questa cultura,
che niente ha a che vedere con quella che si considera ufficialmente tale e che pervade
gli ambienti più disparati, è permeato lo spirito di Napoli e dei suoi abitanti.
Nasce così quel messaggio originale con salde radici nel passato ma
dagli sviluppi aperti a ogni esperienza, sempre inedito e perciò ogni giorno più
affascinante, che il visitatore deve assolutamente ricercare se vuole comprendere una
realtà così variamente complessa.
Allora andiamocene a zonzo, senza una meta, tralasciando monumenti e
chiese perché, come rispose un giorno un anziano sacerdote a chi gli chiedeva quale
edificio religioso di Napoli valesse la pena visitare: "Chiese ce ne sono tante, ma
come si mangiano qui gli spaghetti con le vongole...". Questo a significare che a
Napoli non c'è niente di più gratificante del rapporto umano, sia che esso avvenga
attraverso l'amorosa preparazione di un piatto, sia che si instauri conversando con il
tassista che vi accompagna o con il vostro vicino, in autobus dove si viaggia stipati
all'inverosimile, con il rischio [o la quasi certezza] del borseggio ma immersi nella
solidarietà umana sia pure solo per pochi minuti del tragitto che si compie.
Ognuno si sente importante anche se con molta modestia, nello
svolgimento del ruolo che la sorte, non certo sempre benevola, gli ha assegnato nella
società. Così se andando a comprare il giornale in un'edicola del centro storico, il
giornalaio si qualifica orgogliosamente "giornalista" e gli si fa garbatamente
notare, ci si può sentir rispondere, con il massimo candore: "E che non siamo la
stessa cosa? Come fareste a far leggere quello che si scrive sui giornali senza il mio
contributo?". Touché, come dicono i francesi.
Questa consapevolezza, accompagnata da grande dignità, la si ritrova
ovunque. Andate, per esempio, a ricercare qualche angolo della vecchia Napoli, seguendo le
suggestioni di Vincenzo Migliaro, un pittore chiamato il Renoir napoletano, che immortalò
nei suoi gli angoli più caratteristici che stavano per scomparire con il Risanamento.
Qualcuno di questi vicoli, come quello degli Orefici, Pennino Santa Barbara, piazza
Francese o vico Forno al Pallonetto esistono ancora e conservano, spesso, inalterata la
loro fisionomia. I palazzi sono alti e stretti in misere fasce continue, i panni sono
stesi a un sole che stenta ad arrivare fino in basso, ma l'atmosfera è sempre viva, con
un fervore di movimento che cerca di far sopravvivere l'economia precaria del vicolo.
Recatevi ai Vergini, quartiere alle spalle della centralissima piazza Cavour, a due passi
dallo splendido Museo Archeologico Nazionale. Scoprirete una città nella città, con il
suo impianto seicentesco, le grandi piazze che si aprono a sorpresa, i palazzi con scale
da sogno e le chiese barocche. E poi la gente, orgogliosa della sua appartenenza alla
zona, con il proprio microcosmo che si manifesta in comportamenti, usanze e addirittura
festività locali, nella certezza di costituire un nucleo abitativo irripetibile.
E poi la raffinatezza, comune a tutti i napoletani, che non è un fatto
accidentale, ma è un habitus che non si abbandona mai. Andate in un caffè, luogo tipico
d'incontro dove - volenti o nolenti - si viene garbatamente trascinati a suggello di
un'antica amicizia, ma anche di un incontro occasionale. Ebbene, vi renderete conto che
c'è una forma preziosa quanto la sostanza, alla quale non si sfugge. Dapprima la cura
nella scelta del locale, che viene selezionato in base al grado di assiduità della
frequentazione e alla cordialità nell'accogliervi come vecchi amici; lo sguardo di
complicità con il turista che vuole far intendere come l'operazione che egli si accinge a
fare sia una delicatissima missione, da svolgere con attenzione e tanto amore, poi la
magica frase: "A me senza", per dire che lo si vuole senza zucchero, contro
l'usanza dei caffè più antichi di mettere già lo zucchero sul fondo della tazza, per
evitare che l'aggiunta successiva faccia raffreddare il nero infuso; e, infine, l'occhio
esercitato che guarda la tazzina per saggiarne la consistenza della porcellana, perché,
se non lo sapete, a Napoli si fronteggiano due scuole di pensiero: i fautori della tazza
di porcellana elegante e i fans di quella dozzinale, vecchia e spessa che, però, ha il
merito di conservare meglio l'aroma, il gusto e il calore del caffè.
E così, sull'onda di questa gustosissima bevanda, nera come il
diavolo, calda come l'inferno, pura come un angelo, dolce come l'amore, potete tirare le
somme del vostro piccolo tour cittadino, concludendo che Napoli come la donna bella e
impossibile di una famosa canzone, si può paragonare a una tazza di caffè che sotto ha
lo zucchero anche se a prima vista sembra amara.
Articoli collegati:
Mangiare, bere/Sfogliatelle, mostaccioli e l'ésprit
napolitaine
Mangiare, bere/Napoli: dolci tentazioni in convento
|