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La luce è la luce è la luce



Maurizio Fagiolo dell’Arco




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PRIMAVERA 2002

Ritorno al paese avito
Alla ricerca della pittura, una domenica mattina. Lo studio di Giuseppe Modica è in via dei SS. Quattro. Il taxi mi lascia vicino a quel Moby Dick colossale che è il Colosseo (ci sono voluti secoli per scarnificare la grande balena, ma ancora resiste), sorpasso la Hostaria al Gladiatore e l’ufficio delle tasse, costeggio posti nuovissimi (locali alternativi, la danza del ventre), entro nella chiesa di San Clemente a rivedere la più incredibile pinacoteca di pittura settecentesca romana (è chiusa la cripta, dove si trova il primo documento di lingua volgare italiana), vedo da lontano la chiesa dei Santi Quattro Coronati dove si cela uno dei dipinti più sensualmente berniniani del Baciccio (le monache di clausura non mi fanno entrare). E sono al numero 31, dove al secondo piano mi aspetta il vecchio amico Beppe. Mi saluta dal ballatoio.

L’ho un po’ trascurato nel mio recente periodo barocco. Ha dipinto molto in questo ultimo tempo, e devo vedere tutti i quadri dai quali questa monografia deve partire.

Le stanzette in via dei SS. Quattro sono piccole, lo studio non è diverso da quando in quello spazio viveva una piccola famiglia. Ma lo spazio è rischiarato dai quadri. Tanto, il lavoro di tre anni, che ho visto in qualche fiera di Bologna o in sporadiche occasioni, ma che riesco a vedere oggi nella giusta sequenza. Una dozzina di quadri grandi e impegnati che nell’azzurro del cielo-mare ripropongono i problemi di sempre: la divina proporzione, la metafisica della luce, il fascino dell’assenza, lo spessore della memoria...

Vedo molti quadri, e alla fine ne scelgo nove, per introdurre il lettore nella pittura recente del mio campione: nove come le muse, un numero perfetto. Non ci sono sobbalzi di qualità nella pittura recente di Modica, perché la precisione dell’immagine si unisce alla sicurezza della tecnica. E allora, ecco un flash su quei nove quadri che ho allineato nella mia ideale antologia.

Compenetrazione-visione (salina), 1999. Un quadro che vede affiorare il mare, con le saline, da una vecchia finestra decentrata. Mal verniciata quella finestra, vecchia e scrostata, che riflette l’interno sommato all’esterno, presentandosi come una soglia o meglio un diaframma; uno schermo che sa catturare l’assenza di diverse presenze. Un tema sperimentale risolto con geometrica severità, cangiando il vetro in specchio, modificando la piatta visione in uno sfaccettato cristallo.

Luci della notte (finestra), 1999. Qui la sorpresa è determinata dal formato dell’opera: molto allungata, quasi tre quadrati in altezza, si presenta come uno squarcio di cielo più che come un quadro. La rappresentazione è semplice: una porta-finestra che si apre sulle luci inquietanti di una notte mediterranea. La solita visione decentrata spinge l’occhio dello spettatore a cercare un centro, un asse che il pittore non ha voluto indicare. Il quadro sollecita, quindi, il suo spettatore a completare mentalmente il quadro, e allargarlo sulla sinistra o immaginarlo più esteso verso l’alto. Un gioco che ferma l’attimo in un frammento di universo.

Compenetrazione-visione, 2000. Questa è una tavola, e la pittura diventa precisa come in un maestro pierfrancescano. La porta-finestra, stavolta, si apre su un interno, con le ceramiche sbreccate di Caltagirone, ma riflette nel suo corpo il miraggio della pianura e dell’acropoli. Un quadro cattura antiche suggestioni (la finestra di Balla), il confronto con il tempio (dechirichiano) e la dannazione moderna della città. Nei due quadrati verticali, si rispecchia l’icona dello spazio e del tempo.

Luci della notte (immersione ed emersione dello sguardo), 2000. L’aveva detto Leonardo Sciascia quindici anni fa che nello stesso quadro Modica sembra far muovere la luce, cambiare l’ora e la stagione. E qui l’esperimento si può controllare a colpo d’occhio: il régard di Modica diventa filmico e non più soltanto pittorico: il quadro è la pellicola impressionata da un lunghissimo piano-sequenza alla Godard che viene inchiodato nel tempo fermo della tavola di superficie. Mistero di una visione ottenuta per somma di visioni, ma anche per sottrazione di memoria.

Quasi lo “Spasimo”, 2000-2001. Qui l’interno nell’esterno (ricordate il metafisico?) diventa leggenda. L’antica chiesa siciliana (lo Spasimo) si dissolve nella chiesa senese (San Galgano), tanto per dire che Isola e Continente slittano come slides intelligenti. L’albero si somma all’architettura, il pavimento a mattonelle si rispecchia nel blu del cielo. Quadri come questi danno il senso di un lungo viaggio che non è mai avvenuto o meglio si è verificato tutto nella stanza della memoria. Viene alla mente l’eroe di de Chirico che rema sulla sua barchetta, nel mare increspato che si colloca sul parquet della sua stanza borghese. Ha scritto un giorno Modica: “La realtà che viaggia dal qui presente alla sua rifrazione speculare per poi ritornare a noi acquista il fascino del viaggio e del percorso (la realtà ci viene restituita attraverso l’avventura del tempo e lo spiazzamento della rifrazione)...”.

Sole, 2001. Il solito quadro verticale, composto di due quadrati: una striscia di cielo. E stavolta c’è il sole sul sale. Pellizza da Volpedo rischiara il balcone del suo amico Balla. Sono i protettori della pittura d’un divisionista del Duemila, l’operazione colorata e netta del movimento del tempo fermo. L’enigma dell’ora svaria nella malinconia d’una bella giornata.

L’albero nella cava, 2001. L’avrà dipinta venti volte Modica, questa cava, che somiglia a una visione lontana di Manhattan. L’albero si sovrappone al paesaggio moderno in una visione sovrumana, troppo disumana.

Lo sguardo di Medusa, 2001. Quell’occhio in primo piano (ricordate il metafisico? “Bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa”) vigila lo sfondo del mare e la stereometria delle saline, ritrovando l’enigma del faro e del sole. Il riflesso di un riflesso di un riflesso.

Luci della notte (inseguire la pittura), 1999-2000. E questo è un punto d’arrivo. Un quadro quasi quadrato, di formato monumentale, che inquadra una porta finestra divisa in dodici riquadri: le ore del giorno o i mesi dell’anno si riflettono sulla tela luminosa. Nei vetri (appannati o scheggiati) si riflettono tutte le qualità della luce: la luna, la lampadina che si rispecchia dall’interno, il tramonto, un fuoco enigmatico, la luna, le lampare, le luci sul molo. Ancora una casistica di riflessi e di tecnica. Per Modica si tratta di un punto d’arrivo, ma anche di un nuovo punto di partenza: complesso e misterioso.

Non è facile definire il valore che la luce assume in Modica. Forse si può comprendere soltanto con la sua tautologia. Ricordate Gertrude Stein? “Una rosa è una rosa è una rosa”. Allo stesso modo, si potrebbe dire per il lavoro degli ultimi dieci anni di questo pittore mediterraneo: la luce è la luce è la luce.

AUTUNNO 1972
Preistoria di un pittore
Sono apparsi in questi trent’anni, a proposito della pittura di Modica, decine di cataloghi, più o meno lussuosi, qualche libro, plaquettes raffinate. Molti, moltissimi si sono accorti di questo pittore che grida il suo silenzio. Critici e letterati ci hanno condotto pazientemente nel suo labirinto, con fili d’Arianna efficaci e sofisticati. Eppure, sono ancora avvolti nelle brume gli inizi di Modica. Sembra incredibile, ma alcuni vengono qui svelati per la prima volta: forse perché Modica è riservato almeno quanto è cocciutamente silenzioso!


Lo sguardo circolare - la  città in orizzontale -1999
olio su tela, cm. 100x180

Ha trovato però qualcuno più cocciuto di lui, in questo particolare settore.Quali sono gli inizi di un artista? quali orizzonti ha conosciuto? quale è stata la sua infanzia? E già, oggi sembra facile affermare che questo metodo appartiene allo psicanalista; da parte mia ho imparato a praticarlo sul corpo della pittura metafisica, accorgendomi che, senza approfondire la “tragedia dell’infanzia”, non avrei mai capito Savinio, senza comprendere l’“infanzia tenebrosa” non avrei mai stanato de Chirico, senza afferrare il senso degli studi dechirichiani al Politecnico, non avrei mai compreso l’enigma della Metafisica.

E allora, ecco il risultato di quelle inchieste condotte in occasione di questo libro. Modica ha lasciato Mazara del Vallo per trasferirsi a Palermo: a 19 anni, è una matricola della facoltà di architettura. Un anno dopo, un gruppo di amici decide di trasferirsi nel Continente (non sembra un racconto pirandelliano?) e Modica decide di seguirli, tanto più che vanno a Firenze. E lui non cerca altra verità che quella dei musei, altra vita che quella delle architetture e dei quadri. Ecco che cosa significa per un ventenne con gli occhi pieni di luce la scelta di una città (Firenze); e poi di un’altra, definitiva (Roma).

A Firenze, Modica si iscrive alla facoltà di Architettura dove studia tre anni: non sono pochi gli esami e non sono senza significato le materie scelte: tutti esami che hanno a che fare non con la parte tecnica ma con il versante più storico (artistico) dell’architettura; e sono ben venti. Abbiamo ritrovato in fondo all’ultimo cassetto dello studio una interessante tesina, sul problema spaziale, etnico, topologico del fico d’India: il sottotitolo della tesina potrebbe essere utilizzato anche per i quadri dipinti oggi (“Riduzione analitica tra presenza e assenza”).

Poi arriva la decisione forse maturata a lungo: l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti, a Firenze, là dove le file di giapponesi assediano il marciapiede per consumare con gli occhi il David di Michelangelo.

Segue regolarmente i corsi di pittura fino al diploma che arriva nel 1978, a venticinque anni. Il docente che Modica ricorda ancora con affetto e rispetto è il suo professore di pittura, Gustavo Giulietti, di origine siciliana: gli comunica soprattutto l’amore per le tecniche e la perizia esecutiva della pittura.

Intanto è iniziata la vicenda pubblica della pittura. La prima mostra è in un locale del Comune di Mazara del Vallo nel gennaio 1973; la seconda nel giugno dello stesso anno, nel “Club Famiglia Trapanese” di Palermo. Modica sta per compiere vent’anni. A Firenze, la prima mostra personale arriva soltanto nella primavera 1976, ed è nella Galleria La Stufa in via Cavour. La pittura di questi anni è orientata (stavo per dire disorientata) tra oggettività, astrattismo, new dada, concettualismo, iperrealismo. “Presentare un giovane (scrive Elvio Natali nella presentazione della mostra del 1976) ancora sprovvisto di una documentazione critica di rilievo ha il sapore dell’avventura”. Ma il critico parlava già di “metafisica” e di “personaggi (ovviamente pirandelliani). La luce mette a fuoco l’oggetto in questi quadri che vedono comporsi le varie presenze in Situazioni (questi sono i titoli seguiti da un numero che il pittore assegna ai quadri esposti).

M.F.d’A. Ma come facevi a sopravvivere, un mazarese a Firenze?

G.M. All’inizio, vivevo con piccoli aiuti della mia famiglia, che ho cessato di chiedere quando ho completato gli studi all’Accademia. Ero però molto fortunato. Un gallerista di Firenze, Raffaello Banchelli, mi acquistava un quadro al mese per 250.000 lire, e poi venne negli anni seguenti un gallerista di Colonia (Herbert Reich che ancora mi segue) che mi acquistava una tela 50x70 ogni mese per 500.000 lire.

M.F.d’A. E quali sono i pittori che amavi o frequentavi?

G.M. Ricordo la pittura di Silvio Loffredo e Piero Vignozzi (ricordo anche la pittura del decennio precedente di Fernando Farulli). E, tra gli astratti fiorentini, seguivo Gualtiero Nativi e Vinicio Berti. E poi c’era Adriana Pincherle, molto più anziana di me che era una nostra buona amica. Mi ricordo che le tenni piccoli corsi di incisione, una tecnica che praticavo anche per sopravvivere. Insomma non me la cavavo troppo male.

In una mostra collettiva che si tiene a Pistoia, L’altra realtà (1982), Pier Carlo Santini scrive una paginetta profetica su questa pittura (caro Pier Carlo, un pancione e un sigaro al primo sguardo, un cervello instancabile dopo il primo scambio di idee).

Il più giovane del gruppo, Giuseppe Modica, esce dall’Accademia di Firenze appena tre anni fa, con una vocazione però manifestatasi assai precocemente. Le opere degli ultimi due anni, pur tesorizzando le esperienze anteriori, si discostano da quelle tensioni che caratterizzano i grandi quadri precedenti con scene incombenti traversate da strutture contrapposte che proiettano ombre cupe, drammatiche. C’è qui il senso di desolazione che ci prende di fronte alla città lacerata, ridotta a un cantiere; e questo abbandonato, deserto. Anche Modica compone e ordina le sue “allegorie del tempo”, come lui stesso le chiama, per pochi elementi immediatamente percepibili, chiaramente connessi, isolati.

Questa riduzione, ovviamente, accresce ed esalta il valore degli episodi, indipendentemente dalla loro consistenza dimensionale. Anziché cercare l’evidenza illusiva delle forme, per renderle più pregnanti e aggressive, Modica le semplifica, le spoglia di fisicità, le depura. Le sue fonti, tra cui, ancora, è da considerare la fotografia, possono trovarsi nella miriade delle immagini che incontriamo un po’ dovunque, su cui poi l’artista compirà le sue scelte e il suo giudizio.

Nello stesso anno, la Galleria La Soffitta (Casa del Popolo, Colonnata a Sesto Fiorentino) ospita una mostra personale presentata da Renzo Federici, un curioso della pittura, che scrive altri spiccioli di profezia. Modica ha quasi trent’anni.

Si direbbe, il suo, un mondo di desolazione urbana, di angoli oscuri e dissestati, nei quali la vita intera sembra sintonizzata sulla cadenza lentissima e spietata dei tarli, sul passo felpato e cieco delle talpe o delle muffe. Dove nulla può più muoversi se non secondo un disegno larvale e tardo, ma che certamente si compirà. Qualcosa come una contaminazione tra vecchio film parigino e crudele fotogramma di fotografo realista americano.

Già la luce in questi quadri è sempre notturna, o meglio di quel crepuscolo o tardo pomeriggio che negli anfratti della città arriva presto e dura lunghissimo, scolorito e immoto, come una privazione o una condanna. E non ha riverberi o sussulti: è quieto e opaco, calando come un bagno sordido, un fall-out da cui non ci si salva, e installandosi perpetuo. Anziché esaltare le cose, o almeno i loro contorni estremi, e certe loro materie umbratili, scivola su di esse, le avvolge di una mucillagine tremolante, fino ad intaccarne l’oggettiva consistenza, il positivo vigore. E se certe apparenze s’allentano entro a questo vischio, altre ne risultano come risecchite e volatilizzate in un arido polverìo.

Poi gli orizzonti si allargano per Modica. Lo troviamo più di frequente, nel quartiere popolare del Celio, a un tiro di schioppo dal Colosseo: lo accoglie una modesta pensione in via dei Santi Quattro, insieme alla compagna Carla che ha conosciuto nella mostra presso la Galleria La Stufa. Modica continua a nutrirsi di pittura nei musei, e ora anche nelle mostre d’arte: ma ogni estate, per lunghi mesi, ritorna nel suo paese natale a fare il pieno di luce.


Lo sguardo circolare. Agrigento -1999
olio su tela, cm. 100x200

ESTATE 1983
La luce ritrovata
Tra il 1983 e il 1990, la pittura di Modica sboccia alla luce. Affiorano i motivi che sono ancora oggi presenti nei suoi quadri, lo affiancano alcuni critici e scrittori che ancora oggi lo amano, viene anche qualche modesto successo dal quale però il prudente pittore riesce a difendersi. In una mostra che si tiene nell’estate 1984 nella Pinacoteca Comunale di Saponara (un paese vicino a Messina) appaiono, nella trama dell’iperrealismo, le visioni di un nuovo Modica. Alcuni motivi come la vetrina con il riflesso solido del mare, oppure le onde che si riflettono nel cielo, presenti in alcuni quadri del 1983, li ritroveremo nel lavoro di vent’anni.

In catalogo si leggono alcuni Appunti di lavoro firmati dal pittore. Le parole sembrano bilanciare il peso delle immagini: Savinio e la memoria, la metafisica e il mito. Un nuovo start, per un pittore trentenne.

Scoprire e rivelare non è solamente compito dell’archeologo, che spesso analizza ed entra scientificamente nella storia per trovare i precisi connotati dell’epoca e del tempo [...]

Così ora individua il presente e il plumbeo trascorerre del quotidiano e contemporaneamente il mito, la proiezione fantastica che ad esso (il quotidiano) sono legati in chiave dialettica. [...]

Dal profondo del tempo, ovvero dello “spazio del tempo” emerge la memoria. [...]

Le immagini vengono messe a fuoco dalla ragione la quale contribuisce a rendere trasparente e chiaro, a portare in superficie (concetto caro a Savinio), alla luce questi elementi nascosti e dispersi nelle acque torbide della nostra memoria.

Un pittore siciliano lo appoggia proprio mentre Modica sta per affrontare il “salto vitale” a Roma. Bruno Caruso presenta la nuova pittura di Modica in una mostra a Roma (Galleria Incontro d’Arte 1985) replicata a Palermo (Galleria La Tavolozza 1986). Parla di un mondo sul quale avverte l’incombere di una catastrofe: riesce a leggere nella pace quotidiana della veduta l’incubo della visione.

I luoghi eletti di quest’artista singolare, apparentemente sfolgoranti di luce pareva fossero stati improvvisamente oscurati da un’eclisse parziale che ne aveva sfocati i contorni, così che le due situazioni di luce e di ombra finivano per coesistere nella visione totale dei suoi quadri: con la debita conseguenza di provocare un’atmosfera irreale ed inquietante carica di quell’elettricità che abitualmente precede i cataclismi. [...] Ma guardando con attenzione quei luoghi ci si accorge che altri non sono che i luoghi della nostra vita quotidiana, forse troppo crudelmente spogliati e mascherati dei camuffamenti delle convenienze e delle illusioni. E velati da una nebbiolina che nella realtà potrebbe apparire persino irreale (e che potremmo chiamare foschia, caligine o riverbero), ma che nella metafora ci appare densa di avvertimenti.

È indispensabile citare a questo punto un breve articolo apparso sul “Corriere della Sera” a firma Leonardo Sciascia (26 febbraio 1986). “Pittore per letterati”, Modica inizia con la conquista proprio del più grande; il simbolo quasi di quella Sicilia orgogliosa e gattopardesca che non si ritiene inferiore a nessuno. Si legge in questa pagina illuminata, una felice intuizione sulla mutazione della luce all’interno dello stesso quadro: è certamente una metafora letteraria, ma è anche una nuova verità per l’analisi inquieta di Giuseppe Modica.

Nelle fantasie di Modica, enormi pietre squadrate emergono dal mare di Mazara a formare fantasmagoriche cale, rifugi non rassicuranti: tutte non si sa se disegnate dalla corrosione dell’acqua o se dall’acqua cancellate - e ne resta qualche traccia - dei rilievi, delle figure e decorazioni che in tempi immemorabili recavano. Alcune sono sovrastate dalle cupole rosse di San Giovanni degli Eremiti, altre da presentimenti di giardini, di agrumeti. I tempi slittano, si intersecano, trovano rispondenze, trasparenze, fusioni. In uno stesso quadro, la luce dà l’illusione di mutare, di star mutando: e che ne ricevano la vicenda i colori, le forme. Grande sensibilità, grande perizia.

L’anno dopo, la pittura geologica di Modica, il suo enigma marino, conquista un vecchio innamorato della pittura, il mio amico Marcello Venturoli (Galleria Incontro d’arte, maggio 1987). Già il titolo della presentazione rivela un destino: “Dipingere il tempo”. E poi Venturoli coglie alla perfezione i suoi punti di riferimento nel “realismo magico” e nella “metafisica”; e infine riesce a avvertire nel futuro del pittore una intenzione “più ‘astratta’ e pura”.

Non è pittore limitato e limitante, se la sua area di elaborazione è volta verso gli esempi che ho detto, incombe sulla sua pittura la nobile aura del Museo, quel far classico, che ha sovente esercitato nei pittori di ieri una pressione negativa, e in quelli di oggi quasi uno sgomento, specie quando questi non si piegano agli svolazzi e ai chiaroscuri, alle calligrafie e alle simmetrie degli “anacronisti”. [...] Si tratta di una pittura minuta eppure trasparente, fuori dalle larghezze di imbastitura di chi si è formato sugli impressionisti, eppure armoniosa nel tono, solitamente fra gli ocra e gli azzurri come se il quadro fosse stato vissuto dal principio alla fine non sub specie grafica ma cromatica.

Ancora un anno, ed è destinato ad arrivare il paladino di ogni metafisica: Vittorio Sgarbi, ferrarese (tutti i ferraresi sono matti o geniali, certificò Giorgio de Chirico). Presenta la mostra organizzata dalla Galleria La Tavolozza (Palermo febbraio 1989) con un titolo, L’ammodicazione del sogno, matto o geniale come lui.

È difficile sottrarsi al fascino dei suoi quadri azzurri e infiniti, perché lui insiste su diversi luoghi comuni della nostra psicologia e della nostra cultura: il risultato mantiene un carattere di profonda originalità. Certo noi vediamo ciò che sappiamo, ma la forza dell’arte è la conservazione dello stupore del quotidiano, della capacità di meraviglia, principio maturato nell’estetica barocca: “è del poeta il fin la meraviglia”. Noi restiamo stupiti di fronte ai risultati di Modica. Anche se la meraviglia non è nell’eccesso, nella mostruosità, nelle deformazioni. Dunque Modica passa indenne attraverso il mito del sogno, della luce mediterranea, della metafisica, del surrealismo. Guardiamo e troviamo un mondo che in qualche modo ci appartiene: anche la classicità della Sicilia, la tradizione della Magna Grecia, i templi, il mare, e poi perfino gli ammiccamenti alle mode letterarie incrociati con il fascino delle proprie antiche radici. In un dipinto come la Terrazza di Pessoa vediamo un balcone sul mare con le piastrelle sbrecciate come sarebbe, come è, in un palazzo di Palermo, in una gattopardesca dimora. Ciò che preme a Modica è evocare, alludere a un intero mondo con limpidi frammenti di visione, smuovere stratificazioni di pensieri, ed emozioni sepolte, o forse mai a noi appartenute, ma che egli ci fa credere nostre.

Lo vogliamo dire? Ormai les jeux sont fait. Un pittore ha conquistato un suo microcosmo e soprattutto ha intuito come dipingerlo; d’altra parte (difficile che le due cose vadano insieme), un pittore ha trovato qualcuno che lo capisce, e anzi una critica molto ricettiva e autorevole. Dal 1985 lo seguo anch’io, ma i tempi non sono maturi perché parli del suo lavoro.

AUTUNNO 1991: INTERMEZZO
Le stanze inquiete
Il testo che segue accompagnava una mostra antologica che si è tenuta a Aosta, Giuseppe Modica. Le stanze inquiete, Tour Fromage, 12 ottobre 1991-12 gennaio 1992. L’ha voluta Janus, ed era accompagnata da un ermetico repertorio di simboli costruito da Modica sulla falsariga del mio dizionarietto.
Un pittore che dipinge pittoricamente. Una tela trasparente e luminosa che cattura alcuni luoghi e alcuni oggetti della memoria o della cultura. Una operazione di pura pittura che si appoggia a uno spazio particolare (la Sicilia) e a un tempo particolare (la memoria). Una pittura che ha qualche parente (de Chirico e Savinio) e qualche avo (Piero della Francesca, Seurat). Un uomo paziente, che sa ridare al tempo il suo giusto significato (orientale, islamico) e allo spazio il suo giusto luogo (quell’isola come inconscio privato e collettivo).
Ho conosciuto Modica attraverso Bruno Caruso. Era nel 1985: quel pittore di spazi prospettici deformati, di accentuazione coloristica e formale mi sembrava ancora alla ricerca d’una sua sigla. Ho accettato di scrivere per la sua pittura nell’estate scorsa. E nello spazio di pochi mesi ho visto chiarirsi la sua pittura fino alla perfezione attuale. Un ricercatore, quindi, di idee e di accostamenti giusti, divenuto pittore di pittura.

Quelle forme e quegli oggetti esibiti sulla tela, quei luoghi e quegli spazi si sono rifusi nel lavoro pittorico. E mi dànno oggi lo spunto per un dizionarietto pittorico. Nove lemmi, tanto per non chiudere il discorso, ma per lasciare i problemi quello che sono: problemi. Come tanti altri nel passato e pochi nel presente, Modica continua a domandarsi il perché delle cose finché queste ci saranno; e continua a fare pittura proprio perché continua a domandarsi il perché delle cose...

ARTIFICIALE Arte fatta ad arte, e quindi artificio. Un microcosmo coniugato al passato. Il quadro di oggi si rispecchia nella tela di Savinio e de Chirico, ma anche nel muro di Piero o nella tavola del Giambellino. Tutto è vero, ma tutto diventa finto, coniugato al passato o proiettato sul futuro. L'obiettivo dell’arte rimane, con tutti i suoi codici misteriosi, l’arte stessa.

In una serie di quadri, una donna è una statua o ricalca l’orizzonte di un’isola lontana. In un’altra serie, una cava sicula si rispecchia in un baratro, o si identifica con un bagno misterioso. Accanto al paesaggio (antico), c'è sempre un oggetto (di oggi) che raggruma l'immenso in un attimo di forma.

GEOMETRIA Ha avuto un periodo iper-realista, Modica; e ne ha avuto un altro astratto-geometrico. Anche a non saperlo, risulterebbe chiaro davanti a un gruppo di quadri 1991. Chiaro e distinto, scompartito e ripartito. Il cielo e il mare e la terra; ma anche le quinte e gli spaccati e il fondale. Precisione e geometria (araba, forse). L'edificio, che più volte appare nei quadri recenti, somiglia a quell'antico tempio palermitano in cui arrivano a coniugarsi il cubo con la sfera. Anche la geometria viene ritrovata nel tempo della memoria.

LUCE Luce diffusa, luce proiettata, luce fredda e calda, luce-colore e colore-luce. La luce affocata del deserto, e quella opaca della tempesta. Tramonto e alba, crepuscolo e mezza luce. Proiezione e luce allo specchio... Tutte le possibilità della sorgente luminosa, troviamo esplorate in un quadro di Modica. Luce fiamminga e luce olandese, luce di Antonello e luminosità di Piero della Francesca; luce tendente allo scuro di Stomer e luce tendente al chiaro di Vermeer. La luce della luce della luce ...

MEMORIA Avere una terra per memoria: idea lontana di Mazara del Vallo. Il frutto e il fiore: zagare e lumie, fichi d’india. Tornare a un luogo dove ritrovano un nome e cognome la dialettica eterna della vita (Luigi Pirandello) e la pittura plastica e chiaroscurata (Antonello da Messina, Caravaggio) la scultura virtuosistica (Serpotta)... Lo spirito arabo si accavalla a quello romano-imperiale. 1 dolci sono troppo dolci, i profumi troppo profumati, le passioni troppo appassionate, la pittura esageratamente pittorica. In quell’idea affocata (di Africa desiderata) perfino il Colosseo che è a tre passi dallo studio di Modica perde il connotato di romanità per diventare una ossessione mediterranea...

MOBILI (NELLA VALLE) Il mobile è uno dei primi appoggi mentali nella vicenda dell'infanzia: è un personaggio e un teatrino allo stesso tempo. Chissà che anche nell’inconscio di Modica non ci sia un terremoto come in quello del Metafisico? L’idea che un frammento normale trasportato fuori del suo contesto arrivi a diventare soggetto e non più oggetto. Il comò o il tavolino di Modica si compongono negli specchi (rappresentati o mentali) come modesta presenza vitale a confronto con la eternità della natura. E con la sua cattiveria.
Il mobile accanto alle lastre dismesse del pavimento a ceramiche di Caltagirone è povero, umano troppo umano. Ma è pur sempre a confronto col cielo più azzurro e con la terra più ocra, col mare più indaco e con gli intonaci affocati dal sole o dorati... Il mobile rappresenta, a dire la verità, tutto l’ottocento che si nasconde dietro a quel duemila che il pittore vorrebbe affrontare sulla sua tela. E un personaggio che ha trovato il suo autore: pirandellianamente.

NATURA MORTA Ovvero “vita silente” come volle chiamarla più di mezzo secolo fa Giorgio de Chirico (come in inglese o in tedesco). Le cose non sono morte ma quanto mai vitali: sono un rappel alla memoria. Un segnale della deperibilità (vanitas vanitatum), ma anche un brandello di eterno...
E il pittore si mette davanti a un frutto o una cosa, ambientandola in un paesaggio, come nel primo mattino del mondo, ponendosi in quell’enigmatico atteggiamento che si chiama creazione. Dipingere un frutto nel suo corpo sensuale, designare l’ora attraverso l’ombra, collocarlo nell’effimero quasi eterno del paesaggio: ecco lo scavo a vista che si intravede in un quadro di Modica.
Oggetti che si somigliano, collocati in uno spazio che è quasi sempre lo stesso. Per dire che forse il viaggio non è mai accaduto, che è solo un surplace sulla memoria. Ha detto Mario Mafai mezzo secolo fa: “Scoprire la realtà, accettare la realtà, impegnarsi a non modificare la realtà. E nei confini della realtà trovare ancora da illudersi, da sognare”.

SICILITUDINE Il bello di avere un paese è che, almeno, puoi fuggirne via, aveva più o meno scritto Cesare Pavese. Dopo le orge di internazionalismi, si è capito che le radici sono un fattore positivo nella vita di un artista. Un paese è la scena dei primi ricordi, è il palcoscenico del Rimosso; quasi il telone bianco. sul quale si proietta la tragedia dell’infanzia.

Un paese come la Sicilia è doppiamente importante. Isola significa “isolarsi”, e allora, “Sicilia”,può anche diventare il doppio della ricerca, la metafora della riflessione e del pensiero. È stato Leonardo Sciascia a parlare di “sicilitudine” nel bel libro dedicato agli scrittori e cose della Sicilia intitolato La corda pazza. E anche un pittore attivo nel 1991, può rifarsi a quel vero continente percorso da tutti i popoli della terra, “sequestrato” per alcuni, europeo per altri.

Emergono nei quadri di questa mostra l’orizzonte incerto di cielo e mare, l’azzurro e il sabbioso, la spartizione della salina e il vaso di coccio di Caltagirone, il blocco terreo della cava di tufo. (“Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, scrisse l’esule Ibn Hamdis, citato da Sciascia). Ma attenzione, non sono soltanto frammenti d’una propria vita vissuta, sono la parafrasi di quello che sempre è stata la pittura.

Una volta hanno chiesto a Giorgio de Chirico se i suoi cavalli o i suoi archeologi fossero un discorso classico, e de Chirico rispose che no, che erano frammenti della sua Grecia e quindi semplicemente della sua vita. Tutta qui la “sicilitudine” di Modica: quei luoghi e quegli oggetti accuratamente esibiti sulla tela sono nient’altro che l’esca della sua memoria, le spie del piccolo mondo conosciuto al quale si aggrappa, sono il passato del suo presente.


La luce il giorno dopo -1999
cm. 160x120, olio su tavola

SPECCHIO Guardo La stanza dell’inquietudine dipinto nel 1989. Su una parete, che è un mezzo fondale, è poggiato un tavolo con uno specchio. In quello specchio si raddoppia il nostro spazio: rispecchia un altro pavimento, uno stipite e il mare all’orizzonte. Sulla destra, si prolunga la veranda verso un mare: che è uno specchio. L’azzurro diffuso si placa come in uno specchio, oscuramente. Il pittore ricava abilmente un quadro nel quadro: un’altra rappresentazione che raddoppia il doppio.

E il quadro è tutto lì. In quella slittante presenza di una assenza. Nell’enigma del non detto (ma rappresentato due volte). In quei frammenti di mondo che, ritrovandosi, si perdono per sempre.

TECNICA Mi accosto a un quadro, Colosseo II, notando la liquidità del fondo e la trasparenza dell’insieme. Modica mi chiarisce: “Volevo accentuare il senso del pulviscolo atmosferico, quasi l’idea della polvere sul lastricato, e quindi l’olio (essendo denso e corposo) non si prestava. Allora ho cercato una materia diluita con l’acqua trasparente che, raggrumandosi in una maniera irregolare (anche a caso) potesse duplicare l’evento. Poi ho congelato questa materia con un medium a base di cera, resina e trementina. Poi ho portato il lavoro a compimento con successive velature”.

Non sembra di tornare indietro di settant’anni, e di trovarsi nella bottega del Metafisico? Labor-oratorium.

ANNI NOVANTA
dieci anni di solitudine
La pittura di Modica si è conquistata in questo decennio un suo circoscritto ma preciso luogo nella cultura pittorica italiana: un pittore, come si dice con orribile termine del quale non conosco l’etimo, “di nicchia”. Un decennio spietato, che ha visto la distruzione meditata del più grande ente artistico italiano (la Biennale di Venezia) e la sterilizzazione dell’altro ente (la Quadriennale di Roma). Ormai lo Straniero governa i nostri enti e musei: anche nel Rinascimento, quando c’erano occasioni di contesa tra stati vicini si invocava, tanto per non sbagliare, un intervento estero...

Un decennio di post, trans, neo, ultra; un decennio di exploit e performances, dove giustamente (Lui ha vinto) gli artisti più à la page sono quelli che si occupano di media televisivi. Eppure ancora una volta (come “l’amor mio”) la pittura non muore: si nasconde in un convento o si concentra un lager, si ritira in una cripta o si cela in un bunker, ma prima o poi è destinata a riesplodere. È dolcissima, la pittura, ma non bisogna dimenticare che è anche un bubbone implacabile e vendicativo, insopprimibile.

I critici continuano ad accompagnare con intelligenza l’opera di Modica che si precisa in senso sempre più “astratto” (profeta, Marcello Venturoli), sulla base concreta della memoria. La lontananza delle saline di Marsala e degli orizzonti di Mazara del Vallo, l’assenza dei paesaggi mare-cielo, diventa più incombente e implacabile per chi ha scelto, per la sua centrale creativa, la distanza.

Mi piace iniziare la rassegna del decennio con una felice congiunzione: all’inizio degli anni Novanta Modica incontra Antonio Tabucchi. Uno dei più grandi favoleggiatori del nostro tempo scrive per Modica un racconto (vogliamo chiamarlo così?) pubblicato in una deliziosa plaquette da Franco Sciardelli (Milano 1993). La sua pagina racconta Le vacanze di Bernardo Soares, con l’eco del mare, la coscienza del vuoto, il sapore della lontananza.

Nel 1991, ricordo una pagina di Dario Micacchi (nel catalogo della mostra al Museo Pepoli di Trapani), onesta come era Dario, un innamorato della pittura che per doveri d’ufficio doveva anche occuparsi di cose sgradite. Conferma che Modica appartiene alla razza di quei pittori che non guardano il paesaggio che hanno davanti, ma continuano a ruminare quello che hanno dentro. È il suo enigma.

Si tiene nel dicembre 1995 un seminario curato da “Cosa Freudiana”, il gruppo psicanalitico lacaniano. Intelligentemente, Giuseppe Modica pittore, viene chiamato a tenere una relazione accanto a psicanalisti e specialisti di vari settori dell’antropologia. E dice cose nette come un cristallo.

Che cosa è per me la pittura? La pittura è il linguaggio della riflessione che dà forma-corpo alla memoria e all’immaginazione. Non mi diverte dipingere effettuando una presa diretta sulle cose. Lavoro bensì sulle tracce e sulle impronte del sensibile che hanno impressionato la mia coscienza e la mia memoria. La mia è una sorta di memoria mediata dalla riflessione ed è proprio attraverso tale meditazione che le varie immagini-tracce del mio inventario si cristallizzano e strutturano in corpi, ognuno con relativi ed opportuni pesi specifici e le relative “distanze psichiche”. Abbiamo un corpo delle cose, un corpo della figura umana: ma anche l’aria e la polvere hanno un loro corpo.

Come con l’avanguardia storica anche il tempo ha acquisito il suo. Questa riflessione sui dati della memoria ha bisogno di tempi lunghi prima di svilupparsi e trasformarsi in qualcosa di permanente e convincente che mi induca ad avventurarmi nell’impresa pittorica.

Un anno dopo Marco di Capua insiste sul tema dello specchio, nella presentazione di una mostra nella Galleria Appiani (Milano maggio-giugno 1996). Alfredo Paglione ha cominciato a interessarsi del suo lavoro già dopo la mostra di Aosta (1991). L’esordio del critico è fulminante: c’è ancora posto per la contemplazione in questa epoca che si divide equamente tra televisore e computer, in un tempo nella quale le trame del Brutto sembrano (ma sembrano soltanto) aver vinto.

Solitamente gli artisti, da un’iniziale ricerca di difficoltà, di complessità, finiscono con l’orientarsi verso non so quale naturalezza, una sorta di semplicità che placidamente li risolva annullando fatiche, rovelli, sforzi. Modica sta capovolgendo, per ciò che lo riguarda, questo atteggiamento. Non lo contenta più quell'assurda, fantastica razionalizzazione di spazi luminosi che prima legiferava sui quadri. Tanto che, per esempio, la vocazione intellettuale, concettuale della sua pittura pare perfino torcersi verso il proprio contrario, convertendo al rigore, all’ordine tutto ciò che prima gli sfuggiva. Giuseppe è così arretrato nelle stanze: l’aperto ora lo vede come di straforo. Desidera l’ombra degli interni. Accetta il provvisorio, l’intrusione di elementi spurii, macchie, aloni, segni indecifrati. Ora il tema della corruzione, di quest’opaca gloria del tempo che sopraffà lo splendore delle materie, non è più solo presentita come una minaccia o un destino solo potenziale, ma è fisicamente espresso, otticamente evidente, preponderante.

E poi ci sono questi specchi che moltiplicano angoli, scorci, traiettorie (per Modica la pittura pare essere diventata uno strumento di puntamento, di mira) ma anche questo senso di abbandono, di vuoto, di disfacimento lussuoso. Non era in un gioco di specchi che il Principe di Salina, durante il ballo in casa Ponteleone, intravedeva la fine di un mondo e la propria?

Subito dopo, un intellettuale eccentrico (lo amo molto) come Giorgio Soavi, scrive una meditata paginetta, su “Il Giornale” (28 maggio 1996; aveva già scritto su questa pittura nel 1989). Oggi rileggo quella paginetta liquida e mediterranea che somiglia a uno di quei personaggi acquorei che si manifestano nei quadri di Savinio e si identificano con il “Signor Mare”. Chi ha amato la pittura dei Dioscuri sembra il più adatto anche per comprendere la pittura di questo siculo ingenuo e allo stesso tempo testardo. Sono costretto a ripresentare quella paginetta senza tagli, tanto è perfetta.

L’unico mare che mi è entrato in casa, proprio fisicamente entrato in casa, è quello dipinto da Giuseppe Modica, siciliano di Mazara del Vallo. Dove sono stato, un po’ di corsa, quando ero in Sicilia per scrivere e fare fotografie per un libro su Renato Guttuso. C’erano tante barche da pesca, tantissime cassette per il pesce appoggiate ai muri delle case intorno al porto: e dei pescatori ai quali, sono certo, l’acqua del mare non sarebbe certamente entrata in casa perché avevano ben altro da fare che guardare quadri.

Questi dipinti da Modica negli ultimi anni che sono quelli di adesso mi sembrano ancora più dentro casa di quelli che avevo amato una decina di anni fa. Perché in quelli il mare era visto da lontano, da uno che sta affacciato alla finestra, o si cuoce al sole quando sta in terrazza e laggiù c’è il mare. Scrissi che, nella lontananza delle architetture che si ergevano come contrafforti, per sorgere dal mare come muraglioni di una difesa dal nemico, avevo visto una fortezza Bastiani, quella del Deserto dei Tartari di Buzzati. Sul mare.

Adesso Modica si è tirato dentro casa per far arrivare le rifrazioni che gli specchi possono dare di quella doppia vita che sta fuori, laggiù dove si vede sempre l’acqua azzurra del mare e l’azzurro dei pavimenti, delle mattonelle, e dei riflessi che la luce del giorno dà, infilandosi come una lama, nel costato di chi guarda. Che bei corpi vedo, oltre alla forma delle stanze che gli fanno da supporto: corpi femminili ben disegnati, e ben dipinti. Cosa non più facile visto che la pittura, l’arte della pittura, sta trascurando, come si fosse pentita di aver tanto guardato, come è fatto un corpo di donna, e non ha più la cognizione di quello che si lascia guardare per lasciarci di stucco. Io, lo confesso, sono ancora attratto da come è fatto il corpo di una donna anche nei quadri; da come sta disteso, sempre nei quadri, il mare, quando la sua acqua è ferma immobile come se nessuno stesse remando laggiù in fondo: ma se una finestra, o uno specchio, mi riflettono la vita di una stanza, mi sento ancora meglio. Bei quadri, belle somme di architetture, bei ricordi che stanno nella testa di Giuseppe Modica il quale, per nostra fortuna, quando ha dei ricordi netti, li dipinge per farci stare in casa. Davanti all’acqua. Quella che, silenziosamente, mette i piedi nelle nostre case.


Salina  a Mozia con  riflesso - 1998
olio su tela, cm.80x100

Il 1997 segna una tappa importante per il nostro pittore. Un libro grande e molto curato, edito da Marsilio a cura di Marco Goldin, presenta i suoi quadri più belli accompagnati da alcuni amici come Guido Giuffrè e Claudio Strinati, in occasione di una mostra antologica presso la Casa dei Carraresi a Treviso. Il pittore di miraggi e del desiderio mi sembra che abbia trovato una sistemazione quasi definitiva. Scrive Guido Giuffrè:

Lo specchio che appare nella stanza del 1989, e da allora innumerevoli volte, non altera la realtà ma ne prolunga, oltre l’aspetto, un modo d’essere segreto, quasi una seconda natura: più che rispecchiare il mondo, esso gli trasferisce le sue coinvolgenti malie. Si diceva che l’immagine riflessa non altera quella reale: ma un’alterazione, sottile e determinante, è intanto l’assenza del pittore dall’immagine speculare, che pure è quasi sempre disposta frontalmente. Più che dato fisico immotivato e inspiegabile quell’assenza è sostanza poetica. Là dove dovrebbe apparire l’autore, campeggia, aleggia appunto la sua assenza, e il mistero ne ridonda a tutto lo spazio; di più, l'assenza - non soltanto del pittore - diventa caratteristica primaria, segnatamente nella pittura dell’ultimo decennio, la sua più alta. Persino quando nel diafano riflesso sembra primeggiare un nudo di donna, non più pietrificato ma pudicamente sensuale, anche allora l’assenza coagula nello spazio che lo circonda: il deserto lunare di una volta, freddo e inaccostabile, ora al contrario è invitante, assolato, ma pervaso di invincibile solitudine, incolmabile, quietamente, dolcemente disperante.

Dall’alto del suo osservatorio antico, uno storico dell’arte, Claudio Strinati, vede cose che altri non hanno notato. Soprattutto, una particolare situazione che il pittore moderno si è scelto: la costrizione a un limitato luogo di creazione e a una tematica sempre più ristretta. L’artista barocco si misurava con il cosmo, il pittore moderno si restringe al microcosmo, dove pure tutto torna ogni giorno a accadere. In una sorta di prigione, sa riscoprire la luce della verità.

Modica sta dentro la sua stanza e da lì osserva. Nel suo lavoro c’è una logica analoga a quella della Finestra sul cortile di Hitchcock: per quanto ci si possa sporgere, sforzandosi di guardare oltre il limite consentito dalla finestra della nostra camera, non sarà possibile allargare il campo visivo nemmeno di un millimetro. Cosi è, e cosi resta.

Certo si potrebbe cambiare luogo di osservazione ma non in un’idea estetica. L’arte può ben essere una costrizione e, anzi, spesso e volentieri lo è.
Del resto non è strano. Se si crede alle possibilità dell’arte, si deve credere anche alla necessità dell'arte stessa e l’idea della necessità confina quasi con quella di costrizione, senza nessun contrasto con il principio, certo irrinunciabile, della libertà delle idee, perché queste costrizioni sono creazioni, appunto necessarie, dell’artista e non c’è migliore libertà di quella che ci siamo imposta.

Non è certo monotona la serie serratissima dei dipinti che Modica è venuto costruendo negli anni, ma è evidentissimo come, tutti insieme, questi dipinti rendano l’idea di un diario visivo, dove i temi si accumulano, si confrontano, si integrano.

Segnalo anche un dialoghetto di tono leopardiano che il mio vecchio amico Janus ha premesso a una mostra torinese (Manini Arte, novembre 1998). Dietro lo scherzo letterario, si cela una rilettura molto approfondita di un mondo letterario e pittorico allo stesso tempo, una pittura ormai solida come un cristallo ovvero coagulata come quei trapanesi coralli che aggregano complesse biologie.

Visitatore - Quali sono i risultati di questa operazione?

Critico - La trasfigurazione alchemica della materia, prima di tutto. Il quadro ha una funzione magica; è un gioco di specchi, di luci, di emozioni, di rifrazioni. L’immagine è racchiusa dentro una specie di bacheca di cristallo che la protegge da ogni contaminazione, Lei vede stanze, aperture, porte, finestre, frammenti di architetture, spazi che si aprono e si chiudono, sipari, pavimenti colorati, corridoi: c’é in ogni quadro una piccola parte dei mondo invisibile.
Visitatore - Il suo pittore non vorrà per caso spaventarmi?

Critico - Vuole invece rassicurarLa. Ogni suo quadro è un’isola, ma a differenza delle isole reali, che normalmente stanno ferme in mezzo al mare, le isole di Modica viaggiano nello spazio. Sono isole volanti che si spostano da un punto all’altro dei nostro universo; sono, certo, isole mediterranee, ma possono anche essere nordiche. Sa, quella luce impalpabile, di cui Giuseppe Modica è un maestro, è una luce universale, può essere tropicale o crepuscolare, incandescente o glaciale, è una luce fatta anche di pensieri e di ricordi. Modica è un pittore che scava nella memoria. Anche se dipinge solo una piastrella su un pavimento o una parete o una pianta, in ogni sua forma Modica va sempre un po’ indietro nel tempo, rievoca sensazioni ed avvenimenti che si sono verificati secoli o millenni prima,.

Visitatore - Mi pare di capire che potrebbe essere un pittore un po’ esotico.

Critico - Questa faccenda dell’Oriente non è molto distante dai quadri di Modica. Vi è questa componente visionaria, e qui siamo arrivati nel cuore del problema: Modica è sicuramente un pittore dalla forza onirica, un pittore che starebbe bene sul lettino di Freud ed allora apparirebbe un po’ meno serafico di quanto non sia solitamente interpretato. Noi siamo d’altronde intrisi di Oriente. Tutta la nostra letteratura è piena di suggestioni orientali: basterebbe partire da Marco Polo, toccare la novellistica italiana dei Duecento e dei Trecento e secoli successivi, arrivare al Boiardo ed all’Ariosto, farci incantare dalle favole di Carlo Gozzi e perfino in parte dal Goldoni, arrivare al De Amicis e trascurare per ora D’Annunzio che è sicuramente lo scrittore più orientalista che noi possediamo.

Per tornare all’inizio di questo capitolo, preciserei che Modica ormai ha il privilegio di aver individuato diversi compagni di strada che hanno compreso la sua pittura per quello che è: concentrazione sulla memoria, e quindi (così parlò il Metafisico) sulla “solitudine dei segni”.

1999, PRIMAVERA
Elogio della bellezza
Il testo che segue è stato scritto per il catalogo della mostra De Metaphisica, che si è tenuta tra il 29 aprile e il 30 giugno 1999 nella Galleria Appiani di Milano, prima di una serie di mostre dedicate alla Bellezza. L’opera di Modica figurava accanto a quelle di Guarienti e Ferroni, Paolini e Mariani, Bonichi e Luino, Iudice e Cardi.

Quando un amico mercante (‘illuminato’ mercante) mi ha esposto il suo progetto di dedicare un anno di mostre alla Bellezza, ho accettato con entusiasmo pensando che era giunto il momento di esporre una mia idea trentennale: che la bellezza è metafisica o non sarà. Il passo dimenticato di un eccentrico illuminista ha rafforzato le mie idee sulla perfezione e sulla vitalità della bellezza: sulla sua divinità.

“La bellezza è la perfezione della materia secondo il nostro concetto: mentre il solo Dio tiene l’attributo della perfezione per proprietà, così la bellezza è qualità divina. A misura che una cosa contien più bellezza ella sarà più spiritosa: la bellezza è l’anima della materia come l’anima dell’uomo è la causa del suo essere; così è ancora per così dire la bellezza l’anima e cagion dell’essere delle forme, e tutto quello che è senza bellezza è morto per noi. La bellezza chiama ognuno a sé, perché è della natura della nostra anima; quello che si volta verso lei la trova, e la vede, perché ella è il vero lume di tutte le materie, e il simbolo di Dio stesso”.

Così parlò Giacomo Casanova.
Il secolo XX si è aperto con l’intuizione psicologica e relativista di un pittore. Giorgio de Chirico forse inconsciamente, ripropone le fresche teorie di Freud e Einstein. Vedere la realtà ma andare al di là della realtà; studiare il corpo fisico del mondo, ma individuarne la metafisica. Non avrà torto André Breton, inventore del Surréalisme, a sceglierlo come padre.

Giorgio de Chirico ha avuto immediatamente imitatori e seguaci. Cambiando stile, quella sua prima intuizione muta volto ma resta sostanzialmente intatta: la critica lo biasima ma molti pittori lo capiscono. E oggi? Credo di individuare nell’opera di pittori più o meno giovani il germe di quella rivelazione: ancora inoculato e attivo. Il secolo XXI si apre (opinione di M. F. d’A.) con Giorgio de Chirico e l’idea metafisica. Il fantasma della Bellezza torna a percorrere l’Europa.

E allora si è imposta la necessità di tramutare una idea radicata (ma labile) in una mostra. Un gruppo di pittori convinti che “arte” coincide con “artificio”, e che è indispensabile dipingere la realtà, a patto che sia irreale. È stata pensata da molti anni la mostra di oggi: un gruppo di pittori che si richiami alla metafisica e si imponga di continuarne la inquietante filosofia. O meglio, forse è vero esattamente il contrario: è proprio la conoscenza di questi artisti ad avermi spinto a comprendere meglio il loro vero padre, Giorgio de Chirico.

“Ogni buona idea è stata già pensata: bisogna soltanto cercare di pensarla un’altra volta”: è forse una citazione da Borges? No, sono parole di Goethe, un ermetico neoclassico che sapeva scoprire il romanticismo. Dipingere le cose per disseccarle alla ribalta e spremerne qualcosa che ne rappresenta forse l’anima. Vedere il veduto, pensare il pensato, immaginare l’immaginato: proprio nel senso del divino Borges. Trasformare l’immagine in mondo vero e il mondo vero in immagine, con l’antico trucco di chi sa bene che la radice di ‘arte’ è ‘artificio’, e che il compito sublime del pittore moderno (cioè futuro) è quello di comunicare la sua personale-intima idea come un dogma. Metamorfosare il Veduto in Visionario.

Quasi tutti i pittori presenti nella mostra di oggi dipingono soggetti naturali, ma solo in apparenza. Spesso si nasconde il mito, dietro queste figure in un interno spesso c’è un significato nascosto nella, apparentemente innocua, presenza della natura. Questo atteggiamento mentale viene ancora dal metafisico (aveva scritto in Hebdomeros: “Ebdòmero non poteva essere del parere di quegli scettici che trovavano tutto ciò una favola e pretendevano che i centauri non fossero mai esistiti, non più dei fauni, delle sirene e dei tritoni”). In pratica, il mito non è una idea letteraria ma una operante realtà.

È ridicolo inventare l’America per chi sa semplicemente scoprirla. E così è inutile rifare le esperienze già fatte, ma è essenziale proiettare sullo schermo dell’opera la complessità del proprio Profondo ma anche la profondità del tempo dell’arte. E così questi pittori ci parlano soltanto e assolutamente dello scavo del proprio io, ma lo fanno per interposto linguaggio. Così come, saggiamente, sanno che è sciocco rimuovere antichi complessi e problemi. L’enigma e la malinconia, la “sezione aurea”, la “grossezza dell’aria” la “divina prospettiva”, la metafisica...

Viaggi nel mondo cosmopolita delle mostre, viaggi nel tempo della storia dell’arte. Tutti questi pittori sanno che l’arte è già esistita (ce ne è stata anche troppa!) ma l’essenziale è poi la rivelazione, sul foglio o sulla tela, del proprio io e del proprio inconscio, del proprio super-io. Della propria esperienza totale che sceglie la pittura come effimero specchio.

Un giovanotto siciliano: silenzioso e modesto, ma in realtà sicurissimo del suo lavoro. Me lo ha segnalato Bruno Caruso, un’altro metafisico, durante i nostri discorsi svarianti tra i marmi antichi e la Vanitas, tra il disegno graffiante e i Dioscuri. Era, credo, il 1985. I quadri di Modica erano allora meno risolti del suo pensiero, ma subito dopo alcuni critici (ricordo Sgarbi, Soavi, Di Capua) cominciavano a decretargli un certo successo, mentre qualche letterato lo seguiva con passione (ricordo due grandi: Sciascia e Tabucchi).

Mi attrasse la tavolozza di Modica, la sua idea di catturare la luce, trovavo ancora poco motivata la sua iconografia (prospettive sulla vertigine, scambi interno-esterno, geologie dantesche). Poi, di colpo, compresi il suo lavoro, o forse il suo lavoro si precisò intorno a tematiche più semplici, o forse la sua pittura si ridusse all’essenza. Ricordo i tanti appuntamenti mancati, la mia distrazione, le mie continue inadempienze. Ma quando arrivò (secondo me) il momento, il testo su Modica prese corpo in pochi giorni d’estate. Era stato l’amico Janus (complice di incontri con Man Ray, un altro metafisico) a chiedermi un lavoro per il museo di Aosta. La mostra si intitolò “Le stanze inquiete” e si tenne nell’inverno 1991. Anche in quella occasione scrivevo un dizionarietto per Modica, cercando di caratterizzare (senza sforzarlo) il suo lavoro. Frasi e temi che oggi rileggo e sottoscrivo.

Oggi Modica ha dipinto per questa mostra un dittico raffigurante Mazara e Agrigento: una immagine antica e una moderna con lo stesso taglio di veduta (visionaria). Ha dipinto l’eternità e il momento, la civiltà e la barbarie. Ha dipinto un doppio fotogramma di luce e di pensiero.

Una lettera di Modica.

Mazara del Vallo, 15 agosto 1998. […] Provo a scriverti qualcosa sulle due opere in mostra. Per la realizzazione di questi due quadri ho catturato certe precise immagini: una della città di Mazara e l’altra dell’acropoli di Agrigento.

La prima è una visione in orizzontale dell’aggiomerato urbano cresciuto dagli anni ‘60 in poi, dove spesso i palazzi nuovi si sostituiscono alle vecchie dimore cancellandone le tracce. Ne viene fuori una visione fantasmica, ambiguamente metropolitana, che si protende sul mare come una immane chiatta.

La seconda è una visione dell’acropoli di Agrigento vista dalla strada che da Palma di Montechiaro va verso occidente, nel tardo pomeriggio. Un’immagine prelevata (col teleobbiettivo) qualche anno addietro in uno dei miei frequenti giri estivi.

Ho usato il termine catturato proprio perché queste immagini sono state letteralmente prelevate con un teleobiettivo. Andare al cuore delle cose, prelevarle e portarsele via, per poi guardarle con attenzione e rimeditarle (anche) a distanza di tempo. Anzi credo che il tempo sia necessario per farle decantare, per depurarle dall’accidentalità naturalistica, per poi poterle strutturare in forma pura. Colore - luce - struttura.

E nell’interno dell’atelier avviene questo processo-avventura della ricostruzione e della riorganizzazione del dato di memoria. Una ricostruzione sperimentata e verificata attraverso diverse prove e varianti che tendono a una messa a punto, a una sospensione che dopo lungo lavoro si rivelerà inequivocabilmente definita e permanente. È come se cercassi qualcosa che abbia una certezza definitiva capace di durare nel tempo e di rivelarne una verità interna e segreta. Qualcosa (una visione) che non si esaurisce nello sguardo, che non si smonti, sbricioli all’azione di esso; ma che abbia la forza e la tensione interna che continua a vivere malgrado l’implacabile azione devastante e destrutturante dello sguardo.

Ciò è pittura, qualità poetica di un linguaggio. Questa vita e verità interna dell’opera è la sua bellezza, la sua imponderabile enigmaticità metafisica. Questa tensione magnetica che sta nel dipinto è misteriosamente segreta e indecifrabile. Non c’è una ricetta o una regola fissa; ogni opera è un organismo a sé stante con i suoi codici e i suoi meccanismi (segreti) che variano di volta in volta. De Chirico diceva: bisogna trovare l’occhio nelle cose, il demone...

Poi vorrei dirti qualcosa sulla memoria. Non si tratta di un recupero nostalgico del passato, e se c’è una nota apparentemente nostalgica che essa non tragga in inganno. Più che di nostalgia penso che si tratti di dolente malinconia e inquietudine nei confronti di un presente che ci rivela le impronte, le tracce consuete di un passato che essendo irrecuperabile esiste solo come imprescindibile fantasma della memoria. Come traccia originaria di un percorso nel tempo (che ci appartiene). E poi è sulla tela, sulla superfice del presente che questa memoria si reinventa per interrogarsi e proiettarsi nel futuro.

Per quanto riguarda la bellezza, ritengo che un’opera sia bella quando presenti una corrispondenza tra valore formale e valore morale. Quando l’invenzione è pienamente incarnata con l’esistenza, la rivela. E l’opera, in questi casi, si presenta a noi come una sorta di ‘miracolo visivo’, una apparizione insostituibile e necessaria. Penso che la bellezza sia riscontrabile nel binomio metafisico invenzione - verità. […]

PRIMAVERA 2002
La pittura continua…
E sono di nuovo in via dei SS.Quattro. Devo far leggere il testo al vecchio amico Beppe (chissà se apprezzerà la mia incursione nel “privato”, in questo testo sulla pittura?). È sempre primavera: soltanto che oggi sembra estate, mentre un mese fa era inverno. Lui legge, e io mi guardo intorno.
Vedo su un tavolo le fotografie scattate dal pittore nei paesi suoi l’estate scorsa, accanto ad alcune foto di un trapanese dell’Ottocento: somigliano ai quadri appoggiati alle pareti; bisognerà pubblicarle. Non so chi ha detto che il mondo è quello che vediamo ma che è anche necessario imparare a vederlo. E come si fa a imparare? Proprio allontanandosi da quel mondo, sforzandosi di mettere tra i luoghi dell’infanzia e il presente un tempo e uno spazio infiniti.

Rivedo quel mar Tirreno che si riflette nei quadri di Modica; eterno come il mar Egeo nei quadri dei Dioscuri. Ricordo che i luoghi di Modica sono proprio come le “città invisibili” di Calvino, un insieme di mondi che (mi disse così quando lo aiutai a illustrare con quadri dechirichiani un testo per la rivista di Franco Maria Ricci) quelle città esistono soltanto quando pensiamo dietro le nostre palpebre abbassate. Penso che i luoghi di Modica coincidono con la biblioteca di Babele: un mondo dove ogni copia è l’immagine autentica (e viceversa).

Modica riflette, e riflette ancora, e dipinge quella sua replicata riflessione. Leggo in una sua pagina poggiata sul tavolo, che un giorno ha scritto in una rivista per studiosi dell’anima: “Lo specchio è un diaframma che rileva e rivela la memoria. Lo specchio cristallizza sulla superficie del presente le immagini che vengono dal lontano passato”. È proprio vero: i pittori hanno detto anche con le parole quello che si ostinano a dimostrare con i quadri…

E continuo ad aggirarmi nell’atelier. Scopro che le saline somigliano (enigmaticamente) a Piramidi egizie, che il suo mosaico di luci somiglia al mistero di Piazza Armerina, rifletto che le incisioni non sono altro che la trama di una rete che vuole catturare la luce. Bello, aggirarsi nell’atelier di un pittore: proprio in questi giorni sto preparando il piano di una mostra che metterà in scena il pittore nel suo studio: lo spazio della sua vita, del sogno e della memoria, la scena dei complessi e il teatrino della volontà creativa .

Vedo su una poltroncina un libro di Leonardo Sciascia, e penso a quando veniva a trovare negli anni Cinquanta un poeta romano (Mario dell’Arco, mio padre) con una ventiquattrore che conteneva una bottiglia di Amaro Averna e due volumi di Mickey Spillane (“Questo è per la signora; questi per il viaggio di andata e il viaggio di ritorno”). Ricordo una foto molto tarda del suo studio: c’era un quadro di Modica dietro la sua scrivania…

Il pittore ha letto quasi tutto il testo, e lo ha anche chiosato, insieme a Carla. Non mi pare che gli dispiaccia…

Torno a guardare quel grande quadro dal quale sono partito, che reca nel titolo un programma ambizioso quanto scettico: “inseguire la pittura”. E ricordo una frase del grande Borges che ho letto da poco: “Mi pongo in una situazione passiva e aspetto. Aspetto e la mia unica preoccupazione è di mettere tutto in bellezza… Ho la sensazione di ricevere un dono non so bene se dalla mia stessa memoria o qualcosa altrui. E cerco di non intervenire troppo”. E torno al grande quadro. Si inseguono le luci (vere e finte, calde e fredde, verosimili e false), in questo quadro che sembra una finestra, ed è invece una descrizione del tempo e anche una parabola sul fare pittura.

Ma certo, la pittura devi inseguirla sempre, anche se finisce sempre per somigliare alla bella Dafne: quando credi di averla finalmente raggiunta, si trasforma sotto le tue mani in qualche altra cosa. E allora l’inseguimento deve continuare…

 

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