La luce è la luce è la luce 
             
             
             
            Maurizio Fagiolo dell’Arco 
             
             
             
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            del Vallo 
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            La luce è la luce è la
            luce
             
            PRIMAVERA 2002 
             
            Ritorno al paese avito 
            Alla ricerca della pittura, una domenica mattina. Lo studio di
            Giuseppe Modica è in via dei SS. Quattro. Il taxi mi lascia vicino
            a quel Moby Dick colossale che è il Colosseo (ci sono voluti secoli
            per scarnificare la grande balena, ma ancora resiste), sorpasso la
            Hostaria al Gladiatore e l’ufficio delle tasse, costeggio posti
            nuovissimi (locali alternativi, la danza del ventre), entro nella
            chiesa di San Clemente a rivedere la più incredibile pinacoteca di
            pittura settecentesca romana (è chiusa la cripta, dove si trova il
            primo documento di lingua volgare italiana), vedo da lontano la
            chiesa dei Santi Quattro Coronati dove si cela uno dei dipinti più
            sensualmente berniniani del Baciccio (le monache di clausura non mi
            fanno entrare). E sono al numero 31, dove al secondo piano mi
            aspetta il vecchio amico Beppe. Mi saluta dal ballatoio. 
             
            L’ho un po’ trascurato nel mio recente periodo barocco. Ha
            dipinto molto in questo ultimo tempo, e devo vedere tutti i quadri
            dai quali questa monografia deve partire. 
             
            Le stanzette in via dei SS. Quattro sono piccole, lo studio non è
            diverso da quando in quello spazio viveva una piccola famiglia. Ma
            lo spazio è rischiarato dai quadri. Tanto, il lavoro di tre anni,
            che ho visto in qualche fiera di Bologna o in sporadiche occasioni,
            ma che riesco a vedere oggi nella giusta sequenza. Una dozzina di
            quadri grandi e impegnati che nell’azzurro del cielo-mare
            ripropongono i problemi di sempre: la divina proporzione, la
            metafisica della luce, il fascino dell’assenza, lo spessore della
            memoria... 
             
            Vedo molti quadri, e alla fine ne scelgo nove, per introdurre il
            lettore nella pittura recente del mio campione: nove come le muse,
            un numero perfetto. Non ci sono sobbalzi di qualità nella pittura
            recente di Modica, perché la precisione dell’immagine si unisce
            alla sicurezza della tecnica. E allora, ecco un flash su quei nove
            quadri che ho allineato nella mia ideale antologia. 
             
            Compenetrazione-visione (salina), 1999. Un quadro che vede affiorare
            il mare, con le saline, da una vecchia finestra decentrata. Mal
            verniciata quella finestra, vecchia e scrostata, che riflette l’interno
            sommato all’esterno, presentandosi come una soglia o meglio un
            diaframma; uno schermo che sa catturare l’assenza di diverse
            presenze. Un tema sperimentale risolto con geometrica severità,
            cangiando il vetro in specchio, modificando la piatta visione in uno
            sfaccettato cristallo. 
             
            Luci della notte (finestra), 1999. Qui la sorpresa è determinata
            dal formato dell’opera: molto allungata, quasi tre quadrati in
            altezza, si presenta come uno squarcio di cielo più che come un
            quadro. La rappresentazione è semplice: una porta-finestra che si
            apre sulle luci inquietanti di una notte mediterranea. La solita
            visione decentrata spinge l’occhio dello spettatore a cercare un
            centro, un asse che il pittore non ha voluto indicare. Il quadro
            sollecita, quindi, il suo spettatore a completare mentalmente il
            quadro, e allargarlo sulla sinistra o immaginarlo più esteso verso
            l’alto. Un gioco che ferma l’attimo in un frammento di universo. 
             
            Compenetrazione-visione, 2000. Questa è una tavola, e la pittura
            diventa precisa come in un maestro pierfrancescano. La
            porta-finestra, stavolta, si apre su un interno, con le ceramiche
            sbreccate di Caltagirone, ma riflette nel suo corpo il miraggio
            della pianura e dell’acropoli. Un quadro cattura antiche
            suggestioni (la finestra di Balla), il confronto con il tempio (dechirichiano)
            e la dannazione moderna della città. Nei due quadrati verticali, si
            rispecchia l’icona dello spazio e del tempo. 
             
            Luci della notte (immersione ed emersione dello sguardo), 2000. L’aveva
            detto Leonardo Sciascia quindici anni fa che nello stesso quadro
            Modica sembra far muovere la luce, cambiare l’ora e la stagione. E
            qui l’esperimento si può controllare a colpo d’occhio: il
            régard di Modica diventa filmico e non più soltanto pittorico: il
            quadro è la pellicola impressionata da un lunghissimo
            piano-sequenza alla Godard che viene inchiodato nel tempo fermo
            della tavola di superficie. Mistero di una visione ottenuta per
            somma di visioni, ma anche per sottrazione di memoria. 
             
            Quasi lo “Spasimo”, 2000-2001. Qui l’interno nell’esterno
            (ricordate il metafisico?) diventa leggenda. L’antica chiesa
            siciliana (lo Spasimo) si dissolve nella chiesa senese (San
            Galgano), tanto per dire che Isola e Continente slittano come slides
            intelligenti. L’albero si somma all’architettura, il pavimento a
            mattonelle si rispecchia nel blu del cielo. Quadri come questi danno
            il senso di un lungo viaggio che non è mai avvenuto o meglio si è
            verificato tutto nella stanza della memoria. Viene alla mente l’eroe
            di de Chirico che rema sulla sua barchetta, nel mare increspato che
            si colloca sul parquet della sua stanza borghese. Ha scritto un
            giorno Modica: “La realtà che viaggia dal qui presente alla sua
            rifrazione speculare per poi ritornare a noi acquista il fascino del
            viaggio e del percorso (la realtà ci viene restituita attraverso l’avventura
            del tempo e lo spiazzamento della rifrazione)...”. 
             
            Sole, 2001. Il solito quadro verticale, composto di due quadrati:
            una striscia di cielo. E stavolta c’è il sole sul sale. Pellizza
            da Volpedo rischiara il balcone del suo amico Balla. Sono i
            protettori della pittura d’un divisionista del Duemila, l’operazione
            colorata e netta del movimento del tempo fermo. L’enigma dell’ora
            svaria nella malinconia d’una bella giornata. 
             
            L’albero nella cava, 2001. L’avrà dipinta venti volte Modica,
            questa cava, che somiglia a una visione lontana di Manhattan. L’albero
            si sovrappone al paesaggio moderno in una visione sovrumana, troppo
            disumana. 
             
            Lo sguardo di Medusa, 2001. Quell’occhio in primo piano (ricordate
            il metafisico? “Bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa”)
            vigila lo sfondo del mare e la stereometria delle saline, ritrovando
            l’enigma del faro e del sole. Il riflesso di un riflesso di un
            riflesso. 
             
            Luci della notte (inseguire la pittura), 1999-2000. E questo è un
            punto d’arrivo. Un quadro quasi quadrato, di formato monumentale,
            che inquadra una porta finestra divisa in dodici riquadri: le ore
            del giorno o i mesi dell’anno si riflettono sulla tela luminosa.
            Nei vetri (appannati o scheggiati) si riflettono tutte le qualità
            della luce: la luna, la lampadina che si rispecchia dall’interno,
            il tramonto, un fuoco enigmatico, la luna, le lampare, le luci sul
            molo. Ancora una casistica di riflessi e di tecnica. Per Modica si
            tratta di un punto d’arrivo, ma anche di un nuovo punto di
            partenza: complesso e misterioso. 
             
            Non è facile definire il valore che la luce assume in Modica. Forse
            si può comprendere soltanto con la sua tautologia. Ricordate
            Gertrude Stein? “Una rosa è una rosa è una rosa”. Allo stesso
            modo, si potrebbe dire per il lavoro degli ultimi dieci anni di
            questo pittore mediterraneo: la luce è la luce è la luce. 
             
            AUTUNNO 1972 
            Preistoria di un pittore 
            Sono apparsi in questi trent’anni, a proposito della pittura di
            Modica, decine di cataloghi, più o meno lussuosi, qualche libro,
            plaquettes raffinate. Molti, moltissimi si sono accorti di questo
            pittore che grida il suo silenzio. Critici e letterati ci hanno
            condotto pazientemente nel suo labirinto, con fili d’Arianna
            efficaci e sofisticati. Eppure, sono ancora avvolti nelle brume gli
            inizi di Modica. Sembra incredibile, ma alcuni vengono qui svelati
            per la prima volta: forse perché Modica è riservato almeno quanto
            è cocciutamente silenzioso! 
              
            Lo sguardo circolare - la  città in orizzontale
            -1999 
            olio su tela, cm. 100x180 
             
            Ha trovato però qualcuno più cocciuto di lui, in
            questo particolare settore.Quali sono gli inizi di un artista? quali
            orizzonti ha conosciuto? quale è stata la sua infanzia? E già,
            oggi sembra facile affermare che questo metodo appartiene allo
            psicanalista; da parte mia ho imparato a praticarlo sul corpo della
            pittura metafisica, accorgendomi che, senza approfondire la “tragedia
            dell’infanzia”, non avrei mai capito Savinio, senza comprendere
            l’“infanzia tenebrosa” non avrei mai stanato de Chirico, senza
            afferrare il senso degli studi dechirichiani al Politecnico, non
            avrei mai compreso l’enigma della Metafisica. 
             
            E allora, ecco il risultato di quelle inchieste condotte in
            occasione di questo libro. Modica ha lasciato Mazara del Vallo per
            trasferirsi a Palermo: a 19 anni, è una matricola della facoltà di
            architettura. Un anno dopo, un gruppo di amici decide di trasferirsi
            nel Continente (non sembra un racconto pirandelliano?) e Modica
            decide di seguirli, tanto più che vanno a Firenze. E lui non cerca
            altra verità che quella dei musei, altra vita che quella delle
            architetture e dei quadri. Ecco che cosa significa per un ventenne
            con gli occhi pieni di luce la scelta di una città (Firenze); e poi
            di un’altra, definitiva (Roma). 
             
            A Firenze, Modica si iscrive alla facoltà di Architettura dove
            studia tre anni: non sono pochi gli esami e non sono senza
            significato le materie scelte: tutti esami che hanno a che fare non
            con la parte tecnica ma con il versante più storico (artistico)
            dell’architettura; e sono ben venti. Abbiamo ritrovato in fondo
            all’ultimo cassetto dello studio una interessante tesina, sul
            problema spaziale, etnico, topologico del fico d’India: il
            sottotitolo della tesina potrebbe essere utilizzato anche per i
            quadri dipinti oggi (“Riduzione analitica tra presenza e assenza”). 
             
            Poi arriva la decisione forse maturata a lungo: l’iscrizione all’Accademia
            di Belle Arti, a Firenze, là dove le file di giapponesi assediano
            il marciapiede per consumare con gli occhi il David di Michelangelo. 
             
            Segue regolarmente i corsi di pittura fino al diploma che arriva nel
            1978, a venticinque anni. Il docente che Modica ricorda ancora con
            affetto e rispetto è il suo professore di pittura, Gustavo
            Giulietti, di origine siciliana: gli comunica soprattutto l’amore
            per le tecniche e la perizia esecutiva della pittura. 
             
            Intanto è iniziata la vicenda pubblica della pittura. La prima
            mostra è in un locale del Comune di Mazara del Vallo nel gennaio
            1973; la seconda nel giugno dello stesso anno, nel “Club Famiglia
            Trapanese” di Palermo. Modica sta per compiere vent’anni. A
            Firenze, la prima mostra personale arriva soltanto nella primavera
            1976, ed è nella Galleria La Stufa in via Cavour. La pittura di
            questi anni è orientata (stavo per dire disorientata) tra
            oggettività, astrattismo, new dada, concettualismo, iperrealismo.
            “Presentare un giovane (scrive Elvio Natali nella presentazione
            della mostra del 1976) ancora sprovvisto di una documentazione
            critica di rilievo ha il sapore dell’avventura”. Ma il critico
            parlava già di “metafisica” e di “personaggi (ovviamente
            pirandelliani). La luce mette a fuoco l’oggetto in questi quadri
            che vedono comporsi le varie presenze in Situazioni (questi sono i
            titoli seguiti da un numero che il pittore assegna ai quadri
            esposti). 
             
            M.F.d’A. Ma come facevi a sopravvivere, un mazarese a Firenze? 
             
            G.M. All’inizio, vivevo con piccoli aiuti della mia famiglia, che
            ho cessato di chiedere quando ho completato gli studi all’Accademia.
            Ero però molto fortunato. Un gallerista di Firenze, Raffaello
            Banchelli, mi acquistava un quadro al mese per 250.000 lire, e poi
            venne negli anni seguenti un gallerista di Colonia (Herbert Reich
            che ancora mi segue) che mi acquistava una tela 50x70 ogni mese per
            500.000 lire. 
             
            M.F.d’A. E quali sono i pittori che amavi o frequentavi? 
             
            G.M. Ricordo la pittura di Silvio Loffredo e Piero Vignozzi (ricordo
            anche la pittura del decennio precedente di Fernando Farulli). E,
            tra gli astratti fiorentini, seguivo Gualtiero Nativi e Vinicio
            Berti. E poi c’era Adriana Pincherle, molto più anziana di me che
            era una nostra buona amica. Mi ricordo che le tenni piccoli corsi di
            incisione, una tecnica che praticavo anche per sopravvivere. Insomma
            non me la cavavo troppo male. 
             
            In una mostra collettiva che si tiene a Pistoia, L’altra
            realtà (1982), Pier Carlo Santini scrive una paginetta profetica su
            questa pittura (caro Pier Carlo, un pancione e un sigaro al primo
            sguardo, un cervello instancabile dopo il primo scambio di idee). 
             
            Il più giovane del gruppo, Giuseppe Modica, esce dall’Accademia
            di Firenze appena tre anni fa, con una vocazione però manifestatasi
            assai precocemente. Le opere degli ultimi due anni, pur tesorizzando
            le esperienze anteriori, si discostano da quelle tensioni che
            caratterizzano i grandi quadri precedenti con scene incombenti
            traversate da strutture contrapposte che proiettano ombre cupe,
            drammatiche. C’è qui il senso di desolazione che ci prende di
            fronte alla città lacerata, ridotta a un cantiere; e questo
            abbandonato, deserto. Anche Modica compone e ordina le sue “allegorie
            del tempo”, come lui stesso le chiama, per pochi elementi
            immediatamente percepibili, chiaramente connessi, isolati. 
             
            Questa riduzione, ovviamente, accresce ed esalta il valore degli
            episodi, indipendentemente dalla loro consistenza dimensionale.
            Anziché cercare l’evidenza illusiva delle forme, per renderle
            più pregnanti e aggressive, Modica le semplifica, le spoglia di
            fisicità, le depura. Le sue fonti, tra cui, ancora, è da
            considerare la fotografia, possono trovarsi nella miriade delle
            immagini che incontriamo un po’ dovunque, su cui poi l’artista
            compirà le sue scelte e il suo giudizio. 
             
            Nello stesso anno, la Galleria La Soffitta (Casa del Popolo,
            Colonnata a Sesto Fiorentino) ospita una mostra personale presentata
            da Renzo Federici, un curioso della pittura, che scrive altri
            spiccioli di profezia. Modica ha quasi trent’anni. 
             
            Si direbbe, il suo, un mondo di desolazione urbana, di angoli
            oscuri e dissestati, nei quali la vita intera sembra sintonizzata
            sulla cadenza lentissima e spietata dei tarli, sul passo felpato e
            cieco delle talpe o delle muffe. Dove nulla può più muoversi se
            non secondo un disegno larvale e tardo, ma che certamente si
            compirà. Qualcosa come una contaminazione tra vecchio film parigino
            e crudele fotogramma di fotografo realista americano. 
             
            Già la luce in questi quadri è sempre notturna, o meglio di quel
            crepuscolo o tardo pomeriggio che negli anfratti della città arriva
            presto e dura lunghissimo, scolorito e immoto, come una privazione o
            una condanna. E non ha riverberi o sussulti: è quieto e opaco,
            calando come un bagno sordido, un fall-out da cui non ci si salva, e
            installandosi perpetuo. Anziché esaltare le cose, o almeno i loro
            contorni estremi, e certe loro materie umbratili, scivola su di
            esse, le avvolge di una mucillagine tremolante, fino ad intaccarne l’oggettiva
            consistenza, il positivo vigore. E se certe apparenze s’allentano
            entro a questo vischio, altre ne risultano come risecchite e
            volatilizzate in un arido polverìo. 
             
            Poi gli orizzonti si allargano per Modica. Lo troviamo più di
            frequente, nel quartiere popolare del Celio, a un tiro di schioppo
            dal Colosseo: lo accoglie una modesta pensione in via dei Santi
            Quattro, insieme alla compagna Carla che ha conosciuto nella mostra
            presso la Galleria La Stufa. Modica continua a nutrirsi di pittura
            nei musei, e ora anche nelle mostre d’arte: ma ogni estate, per
            lunghi mesi, ritorna nel suo paese natale a fare il pieno di luce. 
              
            Lo sguardo circolare. Agrigento -1999 
            olio su tela, cm. 100x200 
             
             
            ESTATE 1983 
            La luce ritrovata 
            Tra il 1983 e il 1990, la pittura di Modica sboccia alla luce.
            Affiorano i motivi che sono ancora oggi presenti nei suoi quadri, lo
            affiancano alcuni critici e scrittori che ancora oggi lo amano,
            viene anche qualche modesto successo dal quale però il prudente
            pittore riesce a difendersi. In una mostra che si tiene nell’estate
            1984 nella Pinacoteca Comunale di Saponara (un paese vicino a
            Messina) appaiono, nella trama dell’iperrealismo, le visioni di un
            nuovo Modica. Alcuni motivi come la vetrina con il riflesso solido
            del mare, oppure le onde che si riflettono nel cielo, presenti in
            alcuni quadri del 1983, li ritroveremo nel lavoro di vent’anni. 
             
            In catalogo si leggono alcuni Appunti di lavoro firmati dal pittore.
            Le parole sembrano bilanciare il peso delle immagini: Savinio e la
            memoria, la metafisica e il mito. Un nuovo start, per un pittore
            trentenne. 
             
            Scoprire e rivelare non è solamente compito dell’archeologo, che
            spesso analizza ed entra scientificamente nella storia per trovare i
            precisi connotati dell’epoca e del tempo [...] 
             
            Così ora individua il presente e il plumbeo trascorerre del
            quotidiano e contemporaneamente il mito, la proiezione fantastica
            che ad esso (il quotidiano) sono legati in chiave dialettica. [...] 
             
            Dal profondo del tempo, ovvero dello “spazio del tempo” emerge
            la memoria. [...] 
             
            Le immagini vengono messe a fuoco dalla ragione la quale
            contribuisce a rendere trasparente e chiaro, a portare in superficie
            (concetto caro a Savinio), alla luce questi elementi nascosti e
            dispersi nelle acque torbide della nostra memoria. 
             
            Un pittore siciliano lo appoggia proprio mentre Modica sta per
            affrontare il “salto vitale” a Roma. Bruno Caruso presenta la
            nuova pittura di Modica in una mostra a Roma (Galleria Incontro d’Arte
            1985) replicata a Palermo (Galleria La Tavolozza 1986). Parla di un
            mondo sul quale avverte l’incombere di una catastrofe: riesce a
            leggere nella pace quotidiana della veduta l’incubo della visione. 
             
            I luoghi eletti di quest’artista singolare, apparentemente
            sfolgoranti di luce pareva fossero stati improvvisamente oscurati da
            un’eclisse parziale che ne aveva sfocati i contorni, così che le
            due situazioni di luce e di ombra finivano per coesistere nella
            visione totale dei suoi quadri: con la debita conseguenza di
            provocare un’atmosfera irreale ed inquietante carica di quell’elettricità
            che abitualmente precede i cataclismi. [...] Ma guardando con
            attenzione quei luoghi ci si accorge che altri non sono che i luoghi
            della nostra vita quotidiana, forse troppo crudelmente spogliati e
            mascherati dei camuffamenti delle convenienze e delle illusioni. E
            velati da una nebbiolina che nella realtà potrebbe apparire persino
            irreale (e che potremmo chiamare foschia, caligine o riverbero), ma
            che nella metafora ci appare densa di avvertimenti. 
             
            È indispensabile citare a questo punto un breve articolo apparso
            sul “Corriere della Sera” a firma Leonardo Sciascia (26 febbraio
            1986). “Pittore per letterati”, Modica inizia con la conquista
            proprio del più grande; il simbolo quasi di quella Sicilia
            orgogliosa e gattopardesca che non si ritiene inferiore a nessuno.
            Si legge in questa pagina illuminata, una felice intuizione sulla
            mutazione della luce all’interno dello stesso quadro: è
            certamente una metafora letteraria, ma è anche una nuova verità
            per l’analisi inquieta di Giuseppe Modica. 
             
            Nelle fantasie di Modica, enormi pietre squadrate emergono dal mare
            di Mazara a formare fantasmagoriche cale, rifugi non rassicuranti:
            tutte non si sa se disegnate dalla corrosione dell’acqua o se dall’acqua
            cancellate - e ne resta qualche traccia - dei rilievi, delle figure
            e decorazioni che in tempi immemorabili recavano. Alcune sono
            sovrastate dalle cupole rosse di San Giovanni degli Eremiti, altre
            da presentimenti di giardini, di agrumeti. I tempi slittano, si
            intersecano, trovano rispondenze, trasparenze, fusioni. In uno
            stesso quadro, la luce dà l’illusione di mutare, di star mutando:
            e che ne ricevano la vicenda i colori, le forme. Grande
            sensibilità, grande perizia. 
             
            L’anno dopo, la pittura geologica di Modica, il suo enigma marino,
            conquista un vecchio innamorato della pittura, il mio amico Marcello
            Venturoli (Galleria Incontro d’arte, maggio 1987). Già il titolo
            della presentazione rivela un destino: “Dipingere il tempo”. E
            poi Venturoli coglie alla perfezione i suoi punti di riferimento nel
            “realismo magico” e nella “metafisica”; e infine riesce a
            avvertire nel futuro del pittore una intenzione “più ‘astratta’
            e pura”. 
             
            Non è pittore limitato e limitante, se la sua area di elaborazione
            è volta verso gli esempi che ho detto, incombe sulla sua pittura la
            nobile aura del Museo, quel far classico, che ha sovente esercitato
            nei pittori di ieri una pressione negativa, e in quelli di oggi
            quasi uno sgomento, specie quando questi non si piegano agli
            svolazzi e ai chiaroscuri, alle calligrafie e alle simmetrie degli
            “anacronisti”. [...] Si tratta di una pittura minuta eppure
            trasparente, fuori dalle larghezze di imbastitura di chi si è
            formato sugli impressionisti, eppure armoniosa nel tono, solitamente
            fra gli ocra e gli azzurri come se il quadro fosse stato vissuto dal
            principio alla fine non sub specie grafica ma cromatica. 
             
            Ancora un anno, ed è destinato ad arrivare il paladino di ogni
            metafisica: Vittorio Sgarbi, ferrarese (tutti i ferraresi sono matti
            o geniali, certificò Giorgio de Chirico). Presenta la mostra
            organizzata dalla Galleria La Tavolozza (Palermo febbraio 1989) con
            un titolo, L’ammodicazione del sogno, matto o geniale come lui. 
             
            È difficile sottrarsi al fascino dei suoi quadri azzurri e
            infiniti, perché lui insiste su diversi luoghi comuni della nostra
            psicologia e della nostra cultura: il risultato mantiene un
            carattere di profonda originalità. Certo noi vediamo ciò che
            sappiamo, ma la forza dell’arte è la conservazione dello stupore
            del quotidiano, della capacità di meraviglia, principio maturato
            nell’estetica barocca: “è del poeta il fin la meraviglia”.
            Noi restiamo stupiti di fronte ai risultati di Modica. Anche se la
            meraviglia non è nell’eccesso, nella mostruosità, nelle
            deformazioni. Dunque Modica passa indenne attraverso il mito del
            sogno, della luce mediterranea, della metafisica, del surrealismo.
            Guardiamo e troviamo un mondo che in qualche modo ci appartiene:
            anche la classicità della Sicilia, la tradizione della Magna
            Grecia, i templi, il mare, e poi perfino gli ammiccamenti alle mode
            letterarie incrociati con il fascino delle proprie antiche radici.
            In un dipinto come la Terrazza di Pessoa vediamo un balcone sul mare
            con le piastrelle sbrecciate come sarebbe, come è, in un palazzo di
            Palermo, in una gattopardesca dimora. Ciò che preme a Modica è
            evocare, alludere a un intero mondo con limpidi frammenti di
            visione, smuovere stratificazioni di pensieri, ed emozioni sepolte,
            o forse mai a noi appartenute, ma che egli ci fa credere nostre. 
             
            Lo vogliamo dire? Ormai les jeux sont fait. Un pittore ha
            conquistato un suo microcosmo e soprattutto ha intuito come
            dipingerlo; d’altra parte (difficile che le due cose vadano
            insieme), un pittore ha trovato qualcuno che lo capisce, e anzi una
            critica molto ricettiva e autorevole. Dal 1985 lo seguo anch’io,
            ma i tempi non sono maturi perché parli del suo lavoro. 
             
            AUTUNNO 1991: INTERMEZZO 
            Le stanze inquiete 
            Il testo che segue accompagnava una mostra antologica che si è
            tenuta a Aosta, Giuseppe Modica. Le stanze inquiete, Tour Fromage,
            12 ottobre 1991-12 gennaio 1992. L’ha voluta Janus, ed era
            accompagnata da un ermetico repertorio di simboli costruito da
            Modica sulla falsariga del mio dizionarietto. 
            Un pittore che dipinge pittoricamente. Una tela trasparente e
            luminosa che cattura alcuni luoghi e alcuni oggetti della memoria o
            della cultura. Una operazione di pura pittura che si appoggia a uno
            spazio particolare (la Sicilia) e a un tempo particolare (la
            memoria). Una pittura che ha qualche parente (de Chirico e Savinio)
            e qualche avo (Piero della Francesca, Seurat). Un uomo paziente, che
            sa ridare al tempo il suo giusto significato (orientale, islamico) e
            allo spazio il suo giusto luogo (quell’isola come inconscio
            privato e collettivo). 
            Ho conosciuto Modica attraverso Bruno Caruso. Era nel 1985: quel
            pittore di spazi prospettici deformati, di accentuazione coloristica
            e formale mi sembrava ancora alla ricerca d’una sua sigla. Ho
            accettato di scrivere per la sua pittura nell’estate scorsa. E
            nello spazio di pochi mesi ho visto chiarirsi la sua pittura fino
            alla perfezione attuale. Un ricercatore, quindi, di idee e di
            accostamenti giusti, divenuto pittore di pittura. 
             
            Quelle forme e quegli oggetti esibiti sulla tela, quei luoghi e
            quegli spazi si sono rifusi nel lavoro pittorico. E mi dànno oggi
            lo spunto per un dizionarietto pittorico. Nove lemmi, tanto per non
            chiudere il discorso, ma per lasciare i problemi quello che sono:
            problemi. Come tanti altri nel passato e pochi nel presente, Modica
            continua a domandarsi il perché delle cose finché queste ci
            saranno; e continua a fare pittura proprio perché continua a
            domandarsi il perché delle cose... 
             
            ARTIFICIALE Arte fatta ad arte, e quindi artificio. Un microcosmo
            coniugato al passato. Il quadro di oggi si rispecchia nella tela di
            Savinio e de Chirico, ma anche nel muro di Piero o nella tavola del
            Giambellino. Tutto è vero, ma tutto diventa finto, coniugato al
            passato o proiettato sul futuro. L'obiettivo dell’arte rimane, con
            tutti i suoi codici misteriosi, l’arte stessa. 
             
            In una serie di quadri, una donna è una statua o ricalca l’orizzonte
            di un’isola lontana. In un’altra serie, una cava sicula si
            rispecchia in un baratro, o si identifica con un bagno misterioso.
            Accanto al paesaggio (antico), c'è sempre un oggetto (di oggi) che
            raggruma l'immenso in un attimo di forma. 
             
            GEOMETRIA Ha avuto un periodo iper-realista, Modica; e ne ha avuto
            un altro astratto-geometrico. Anche a non saperlo, risulterebbe
            chiaro davanti a un gruppo di quadri 1991. Chiaro e distinto,
            scompartito e ripartito. Il cielo e il mare e la terra; ma anche le
            quinte e gli spaccati e il fondale. Precisione e geometria (araba,
            forse). L'edificio, che più volte appare nei quadri recenti,
            somiglia a quell'antico tempio palermitano in cui arrivano a
            coniugarsi il cubo con la sfera. Anche la geometria viene ritrovata
            nel tempo della memoria. 
             
            LUCE Luce diffusa, luce proiettata, luce fredda e calda, luce-colore
            e colore-luce. La luce affocata del deserto, e quella opaca della
            tempesta. Tramonto e alba, crepuscolo e mezza luce. Proiezione e
            luce allo specchio... Tutte le possibilità della sorgente luminosa,
            troviamo esplorate in un quadro di Modica. Luce fiamminga e luce
            olandese, luce di Antonello e luminosità di Piero della Francesca;
            luce tendente allo scuro di Stomer e luce tendente al chiaro di
            Vermeer. La luce della luce della luce ... 
             
            MEMORIA Avere una terra per memoria: idea lontana di Mazara del
            Vallo. Il frutto e il fiore: zagare e lumie, fichi d’india.
            Tornare a un luogo dove ritrovano un nome e cognome la dialettica
            eterna della vita (Luigi Pirandello) e la pittura plastica e
            chiaroscurata (Antonello da Messina, Caravaggio) la scultura
            virtuosistica (Serpotta)... Lo spirito arabo si accavalla a quello
            romano-imperiale. 1 dolci sono troppo dolci, i profumi troppo
            profumati, le passioni troppo appassionate, la pittura
            esageratamente pittorica. In quell’idea affocata (di Africa
            desiderata) perfino il Colosseo che è a tre passi dallo studio di
            Modica perde il connotato di romanità per diventare una ossessione
            mediterranea... 
             
            MOBILI (NELLA VALLE) Il mobile è uno dei primi appoggi mentali
            nella vicenda dell'infanzia: è un personaggio e un teatrino allo
            stesso tempo. Chissà che anche nell’inconscio di Modica non ci
            sia un terremoto come in quello del Metafisico? L’idea che un
            frammento normale trasportato fuori del suo contesto arrivi a
            diventare soggetto e non più oggetto. Il comò o il tavolino di
            Modica si compongono negli specchi (rappresentati o mentali) come
            modesta presenza vitale a confronto con la eternità della natura. E
            con la sua cattiveria. 
            Il mobile accanto alle lastre dismesse del pavimento a ceramiche di
            Caltagirone è povero, umano troppo umano. Ma è pur sempre a
            confronto col cielo più azzurro e con la terra più ocra, col mare
            più indaco e con gli intonaci affocati dal sole o dorati... Il
            mobile rappresenta, a dire la verità, tutto l’ottocento che si
            nasconde dietro a quel duemila che il pittore vorrebbe affrontare
            sulla sua tela. E un personaggio che ha trovato il suo autore:
            pirandellianamente. 
             
            NATURA MORTA Ovvero “vita silente” come volle chiamarla più di
            mezzo secolo fa Giorgio de Chirico (come in inglese o in tedesco).
            Le cose non sono morte ma quanto mai vitali: sono un rappel alla
            memoria. Un segnale della deperibilità (vanitas vanitatum), ma
            anche un brandello di eterno... 
            E il pittore si mette davanti a un frutto o una cosa, ambientandola
            in un paesaggio, come nel primo mattino del mondo, ponendosi in
            quell’enigmatico atteggiamento che si chiama creazione. Dipingere
            un frutto nel suo corpo sensuale, designare l’ora attraverso l’ombra,
            collocarlo nell’effimero quasi eterno del paesaggio: ecco lo scavo
            a vista che si intravede in un quadro di Modica. 
            Oggetti che si somigliano, collocati in uno spazio che è quasi
            sempre lo stesso. Per dire che forse il viaggio non è mai accaduto,
            che è solo un surplace sulla memoria. Ha detto Mario Mafai mezzo
            secolo fa: “Scoprire la realtà, accettare la realtà, impegnarsi
            a non modificare la realtà. E nei confini della realtà trovare
            ancora da illudersi, da sognare”. 
             
            SICILITUDINE Il bello di avere un paese è che, almeno, puoi
            fuggirne via, aveva più o meno scritto Cesare Pavese. Dopo le orge
            di internazionalismi, si è capito che le radici sono un fattore
            positivo nella vita di un artista. Un paese è la scena dei primi
            ricordi, è il palcoscenico del Rimosso; quasi il telone bianco. sul
            quale si proietta la tragedia dell’infanzia. 
             
            Un paese come la Sicilia è doppiamente importante. Isola significa
            “isolarsi”, e allora, “Sicilia”,può anche diventare il
            doppio della ricerca, la metafora della riflessione e del pensiero.
            È stato Leonardo Sciascia a parlare di “sicilitudine” nel bel
            libro dedicato agli scrittori e cose della Sicilia intitolato La
            corda pazza. E anche un pittore attivo nel 1991, può rifarsi a quel
            vero continente percorso da tutti i popoli della terra, “sequestrato”
            per alcuni, europeo per altri. 
             
            Emergono nei quadri di questa mostra l’orizzonte incerto di cielo
            e mare, l’azzurro e il sabbioso, la spartizione della salina e il
            vaso di coccio di Caltagirone, il blocco terreo della cava di tufo.
            (“Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, scrisse
            l’esule Ibn Hamdis, citato da Sciascia). Ma attenzione, non sono
            soltanto frammenti d’una propria vita vissuta, sono la parafrasi
            di quello che sempre è stata la pittura. 
             
            Una volta hanno chiesto a Giorgio de Chirico se i suoi cavalli o i
            suoi archeologi fossero un discorso classico, e de Chirico rispose
            che no, che erano frammenti della sua Grecia e quindi semplicemente
            della sua vita. Tutta qui la “sicilitudine” di Modica: quei
            luoghi e quegli oggetti accuratamente esibiti sulla tela sono nient’altro
            che l’esca della sua memoria, le spie del piccolo mondo conosciuto
            al quale si aggrappa, sono il passato del suo presente. 
              
            La luce il giorno dopo -1999 
            cm. 160x120, olio su tavola 
             
            SPECCHIO Guardo La stanza dell’inquietudine
            dipinto nel 1989. Su una parete, che è un mezzo fondale, è
            poggiato un tavolo con uno specchio. In quello specchio si raddoppia
            il nostro spazio: rispecchia un altro pavimento, uno stipite e il
            mare all’orizzonte. Sulla destra, si prolunga la veranda verso un
            mare: che è uno specchio. L’azzurro diffuso si placa come in uno
            specchio, oscuramente. Il pittore ricava abilmente un quadro nel
            quadro: un’altra rappresentazione che raddoppia il doppio. 
             
            E il quadro è tutto lì. In quella slittante presenza di una
            assenza. Nell’enigma del non detto (ma rappresentato due volte).
            In quei frammenti di mondo che, ritrovandosi, si perdono per sempre. 
             
            TECNICA Mi accosto a un quadro, Colosseo II, notando la liquidità
            del fondo e la trasparenza dell’insieme. Modica mi chiarisce: “Volevo
            accentuare il senso del pulviscolo atmosferico, quasi l’idea della
            polvere sul lastricato, e quindi l’olio (essendo denso e corposo)
            non si prestava. Allora ho cercato una materia diluita con l’acqua
            trasparente che, raggrumandosi in una maniera irregolare (anche a
            caso) potesse duplicare l’evento. Poi ho congelato questa materia
            con un medium a base di cera, resina e trementina. Poi ho portato il
            lavoro a compimento con successive velature”. 
             
            Non sembra di tornare indietro di settant’anni, e di trovarsi
            nella bottega del Metafisico? Labor-oratorium. 
             
            ANNI NOVANTA 
            dieci anni di solitudine 
            La pittura di Modica si è conquistata in questo decennio un suo
            circoscritto ma preciso luogo nella cultura pittorica italiana: un
            pittore, come si dice con orribile termine del quale non conosco l’etimo,
            “di nicchia”. Un decennio spietato, che ha visto la distruzione
            meditata del più grande ente artistico italiano (la Biennale di
            Venezia) e la sterilizzazione dell’altro ente (la Quadriennale di
            Roma). Ormai lo Straniero governa i nostri enti e musei: anche nel
            Rinascimento, quando c’erano occasioni di contesa tra stati vicini
            si invocava, tanto per non sbagliare, un intervento estero... 
             
            Un decennio di post, trans, neo, ultra; un decennio di exploit e
            performances, dove giustamente (Lui ha vinto) gli artisti più à la
            page sono quelli che si occupano di media televisivi. Eppure ancora
            una volta (come “l’amor mio”) la pittura non muore: si
            nasconde in un convento o si concentra un lager, si ritira in una
            cripta o si cela in un bunker, ma prima o poi è destinata a
            riesplodere. È dolcissima, la pittura, ma non bisogna dimenticare
            che è anche un bubbone implacabile e vendicativo, insopprimibile. 
             
            I critici continuano ad accompagnare con intelligenza l’opera di
            Modica che si precisa in senso sempre più “astratto” (profeta,
            Marcello Venturoli), sulla base concreta della memoria. La
            lontananza delle saline di Marsala e degli orizzonti di Mazara del
            Vallo, l’assenza dei paesaggi mare-cielo, diventa più incombente
            e implacabile per chi ha scelto, per la sua centrale creativa, la
            distanza. 
             
            Mi piace iniziare la rassegna del decennio con una felice
            congiunzione: all’inizio degli anni Novanta Modica incontra
            Antonio Tabucchi. Uno dei più grandi favoleggiatori del nostro
            tempo scrive per Modica un racconto (vogliamo chiamarlo così?)
            pubblicato in una deliziosa plaquette da Franco Sciardelli (Milano
            1993). La sua pagina racconta Le vacanze di Bernardo Soares, con l’eco
            del mare, la coscienza del vuoto, il sapore della lontananza. 
             
            Nel 1991, ricordo una pagina di Dario Micacchi (nel catalogo della
            mostra al Museo Pepoli di Trapani), onesta come era Dario, un
            innamorato della pittura che per doveri d’ufficio doveva anche
            occuparsi di cose sgradite. Conferma che Modica appartiene alla
            razza di quei pittori che non guardano il paesaggio che hanno
            davanti, ma continuano a ruminare quello che hanno dentro. È il suo
            enigma. 
             
            Si tiene nel dicembre 1995 un seminario curato da “Cosa Freudiana”,
            il gruppo psicanalitico lacaniano. Intelligentemente, Giuseppe
            Modica pittore, viene chiamato a tenere una relazione accanto a
            psicanalisti e specialisti di vari settori dell’antropologia. E
            dice cose nette come un cristallo. 
             
            Che cosa è per me la pittura? La pittura è il linguaggio della
            riflessione che dà forma-corpo alla memoria e all’immaginazione.
            Non mi diverte dipingere effettuando una presa diretta sulle cose.
            Lavoro bensì sulle tracce e sulle impronte del sensibile che hanno
            impressionato la mia coscienza e la mia memoria. La mia è una sorta
            di memoria mediata dalla riflessione ed è proprio attraverso tale
            meditazione che le varie immagini-tracce del mio inventario si
            cristallizzano e strutturano in corpi, ognuno con relativi ed
            opportuni pesi specifici e le relative “distanze psichiche”.
            Abbiamo un corpo delle cose, un corpo della figura umana: ma anche l’aria
            e la polvere hanno un loro corpo. 
             
            Come con l’avanguardia storica anche il tempo ha acquisito il suo.
            Questa riflessione sui dati della memoria ha bisogno di tempi lunghi
            prima di svilupparsi e trasformarsi in qualcosa di permanente e
            convincente che mi induca ad avventurarmi nell’impresa pittorica. 
             
            Un anno dopo Marco di Capua insiste sul tema dello specchio, nella
            presentazione di una mostra nella Galleria Appiani (Milano
            maggio-giugno 1996). Alfredo Paglione ha cominciato a interessarsi
            del suo lavoro già dopo la mostra di Aosta (1991). L’esordio del
            critico è fulminante: c’è ancora posto per la contemplazione in
            questa epoca che si divide equamente tra televisore e computer, in
            un tempo nella quale le trame del Brutto sembrano (ma sembrano
            soltanto) aver vinto. 
             
            Solitamente gli artisti, da un’iniziale ricerca di
            difficoltà, di complessità, finiscono con l’orientarsi verso non
            so quale naturalezza, una sorta di semplicità che placidamente li
            risolva annullando fatiche, rovelli, sforzi. Modica sta
            capovolgendo, per ciò che lo riguarda, questo atteggiamento. Non lo
            contenta più quell'assurda, fantastica razionalizzazione di spazi
            luminosi che prima legiferava sui quadri. Tanto che, per esempio, la
            vocazione intellettuale, concettuale della sua pittura pare perfino
            torcersi verso il proprio contrario, convertendo al rigore, all’ordine
            tutto ciò che prima gli sfuggiva. Giuseppe è così arretrato nelle
            stanze: l’aperto ora lo vede come di straforo. Desidera l’ombra
            degli interni. Accetta il provvisorio, l’intrusione di elementi
            spurii, macchie, aloni, segni indecifrati. Ora il tema della
            corruzione, di quest’opaca gloria del tempo che sopraffà lo
            splendore delle materie, non è più solo presentita come una
            minaccia o un destino solo potenziale, ma è fisicamente espresso,
            otticamente evidente, preponderante. 
             
            E poi ci sono questi specchi che moltiplicano angoli, scorci,
            traiettorie (per Modica la pittura pare essere diventata uno
            strumento di puntamento, di mira) ma anche questo senso di
            abbandono, di vuoto, di disfacimento lussuoso. Non era in un gioco
            di specchi che il Principe di Salina, durante il ballo in casa
            Ponteleone, intravedeva la fine di un mondo e la propria? 
             
            Subito dopo, un intellettuale eccentrico (lo amo molto) come Giorgio
            Soavi, scrive una meditata paginetta, su “Il Giornale” (28
            maggio 1996; aveva già scritto su questa pittura nel 1989). Oggi
            rileggo quella paginetta liquida e mediterranea che somiglia a uno
            di quei personaggi acquorei che si manifestano nei quadri di Savinio
            e si identificano con il “Signor Mare”. Chi ha amato la pittura
            dei Dioscuri sembra il più adatto anche per comprendere la pittura
            di questo siculo ingenuo e allo stesso tempo testardo. Sono
            costretto a ripresentare quella paginetta senza tagli, tanto è
            perfetta. 
             
            L’unico mare che mi è entrato in casa, proprio fisicamente
            entrato in casa, è quello dipinto da Giuseppe Modica, siciliano di
            Mazara del Vallo. Dove sono stato, un po’ di corsa, quando ero in
            Sicilia per scrivere e fare fotografie per un libro su Renato
            Guttuso. C’erano tante barche da pesca, tantissime cassette per il
            pesce appoggiate ai muri delle case intorno al porto: e dei
            pescatori ai quali, sono certo, l’acqua del mare non sarebbe
            certamente entrata in casa perché avevano ben altro da fare che
            guardare quadri. 
             
            Questi dipinti da Modica negli ultimi anni che sono quelli di adesso
            mi sembrano ancora più dentro casa di quelli che avevo amato una
            decina di anni fa. Perché in quelli il mare era visto da lontano,
            da uno che sta affacciato alla finestra, o si cuoce al sole quando
            sta in terrazza e laggiù c’è il mare. Scrissi che, nella
            lontananza delle architetture che si ergevano come contrafforti, per
            sorgere dal mare come muraglioni di una difesa dal nemico, avevo
            visto una fortezza Bastiani, quella del Deserto dei Tartari di
            Buzzati. Sul mare. 
             
            Adesso Modica si è tirato dentro casa per far arrivare le
            rifrazioni che gli specchi possono dare di quella doppia vita che
            sta fuori, laggiù dove si vede sempre l’acqua azzurra del mare e
            l’azzurro dei pavimenti, delle mattonelle, e dei riflessi che la
            luce del giorno dà, infilandosi come una lama, nel costato di chi
            guarda. Che bei corpi vedo, oltre alla forma delle stanze che gli
            fanno da supporto: corpi femminili ben disegnati, e ben dipinti.
            Cosa non più facile visto che la pittura, l’arte della pittura,
            sta trascurando, come si fosse pentita di aver tanto guardato, come
            è fatto un corpo di donna, e non ha più la cognizione di quello
            che si lascia guardare per lasciarci di stucco. Io, lo confesso,
            sono ancora attratto da come è fatto il corpo di una donna anche
            nei quadri; da come sta disteso, sempre nei quadri, il mare, quando
            la sua acqua è ferma immobile come se nessuno stesse remando
            laggiù in fondo: ma se una finestra, o uno specchio, mi riflettono
            la vita di una stanza, mi sento ancora meglio. Bei quadri, belle
            somme di architetture, bei ricordi che stanno nella testa di
            Giuseppe Modica il quale, per nostra fortuna, quando ha dei ricordi
            netti, li dipinge per farci stare in casa. Davanti all’acqua.
            Quella che, silenziosamente, mette i piedi nelle nostre case. 
              
            Salina  a Mozia con  riflesso - 1998 
            olio su tela, cm.80x100 
             
            Il 1997 segna una tappa importante per il nostro
            pittore. Un libro grande e molto curato, edito da Marsilio a cura di
            Marco Goldin, presenta i suoi quadri più belli accompagnati da
            alcuni amici come Guido Giuffrè e Claudio Strinati, in occasione di
            una mostra antologica presso la Casa dei Carraresi a Treviso. Il
            pittore di miraggi e del desiderio mi sembra che abbia trovato una
            sistemazione quasi definitiva. Scrive Guido Giuffrè: 
             
            Lo specchio che appare nella stanza del 1989, e da allora
            innumerevoli volte, non altera la realtà ma ne prolunga, oltre l’aspetto,
            un modo d’essere segreto, quasi una seconda natura: più che
            rispecchiare il mondo, esso gli trasferisce le sue coinvolgenti
            malie. Si diceva che l’immagine riflessa non altera quella reale:
            ma un’alterazione, sottile e determinante, è intanto l’assenza
            del pittore dall’immagine speculare, che pure è quasi sempre
            disposta frontalmente. Più che dato fisico immotivato e
            inspiegabile quell’assenza è sostanza poetica. Là dove dovrebbe
            apparire l’autore, campeggia, aleggia appunto la sua assenza, e il
            mistero ne ridonda a tutto lo spazio; di più, l'assenza - non
            soltanto del pittore - diventa caratteristica primaria, segnatamente
            nella pittura dell’ultimo decennio, la sua più alta. Persino
            quando nel diafano riflesso sembra primeggiare un nudo di donna, non
            più pietrificato ma pudicamente sensuale, anche allora l’assenza
            coagula nello spazio che lo circonda: il deserto lunare di una
            volta, freddo e inaccostabile, ora al contrario è invitante,
            assolato, ma pervaso di invincibile solitudine, incolmabile,
            quietamente, dolcemente disperante. 
             
            Dall’alto del suo osservatorio antico, uno storico dell’arte,
            Claudio Strinati, vede cose che altri non hanno notato. Soprattutto,
            una particolare situazione che il pittore moderno si è scelto: la
            costrizione a un limitato luogo di creazione e a una tematica sempre
            più ristretta. L’artista barocco si misurava con il cosmo, il
            pittore moderno si restringe al microcosmo, dove pure tutto torna
            ogni giorno a accadere. In una sorta di prigione, sa riscoprire la
            luce della verità. 
             
            Modica sta dentro la sua stanza e da lì osserva. Nel suo lavoro c’è
            una logica analoga a quella della Finestra sul cortile di Hitchcock:
            per quanto ci si possa sporgere, sforzandosi di guardare oltre il
            limite consentito dalla finestra della nostra camera, non sarà
            possibile allargare il campo visivo nemmeno di un millimetro. Cosi
            è, e cosi resta. 
             
            Certo si potrebbe cambiare luogo di osservazione ma non in un’idea
            estetica. L’arte può ben essere una costrizione e, anzi, spesso e
            volentieri lo è. 
            Del resto non è strano. Se si crede alle possibilità dell’arte,
            si deve credere anche alla necessità dell'arte stessa e l’idea
            della necessità confina quasi con quella di costrizione, senza
            nessun contrasto con il principio, certo irrinunciabile, della
            libertà delle idee, perché queste costrizioni sono creazioni,
            appunto necessarie, dell’artista e non c’è migliore libertà di
            quella che ci siamo imposta. 
             
            Non è certo monotona la serie serratissima dei dipinti che Modica
            è venuto costruendo negli anni, ma è evidentissimo come, tutti
            insieme, questi dipinti rendano l’idea di un diario visivo, dove i
            temi si accumulano, si confrontano, si integrano. 
             
            Segnalo anche un dialoghetto di tono leopardiano che il mio vecchio
            amico Janus ha premesso a una mostra torinese (Manini Arte, novembre
            1998). Dietro lo scherzo letterario, si cela una rilettura molto
            approfondita di un mondo letterario e pittorico allo stesso tempo,
            una pittura ormai solida come un cristallo ovvero coagulata come
            quei trapanesi coralli che aggregano complesse biologie. 
             
            Visitatore - Quali sono i risultati di questa operazione? 
             
            Critico - La trasfigurazione alchemica della materia, prima di
            tutto. Il quadro ha una funzione magica; è un gioco di specchi, di
            luci, di emozioni, di rifrazioni. L’immagine è racchiusa dentro
            una specie di bacheca di cristallo che la protegge da ogni
            contaminazione, Lei vede stanze, aperture, porte, finestre,
            frammenti di architetture, spazi che si aprono e si chiudono,
            sipari, pavimenti colorati, corridoi: c’é in ogni quadro una
            piccola parte dei mondo invisibile. 
            Visitatore - Il suo pittore non vorrà per caso spaventarmi? 
             
            Critico - Vuole invece rassicurarLa. Ogni suo quadro è un’isola,
            ma a differenza delle isole reali, che normalmente stanno ferme in
            mezzo al mare, le isole di Modica viaggiano nello spazio. Sono isole
            volanti che si spostano da un punto all’altro dei nostro universo;
            sono, certo, isole mediterranee, ma possono anche essere nordiche.
            Sa, quella luce impalpabile, di cui Giuseppe Modica è un maestro,
            è una luce universale, può essere tropicale o crepuscolare,
            incandescente o glaciale, è una luce fatta anche di pensieri e di
            ricordi. Modica è un pittore che scava nella memoria. Anche se
            dipinge solo una piastrella su un pavimento o una parete o una
            pianta, in ogni sua forma Modica va sempre un po’ indietro nel
            tempo, rievoca sensazioni ed avvenimenti che si sono verificati
            secoli o millenni prima,. 
             
            Visitatore - Mi pare di capire che potrebbe essere un pittore un po’
            esotico. 
             
            Critico - Questa faccenda dell’Oriente non è molto distante dai
            quadri di Modica. Vi è questa componente visionaria, e qui siamo
            arrivati nel cuore del problema: Modica è sicuramente un pittore
            dalla forza onirica, un pittore che starebbe bene sul lettino di
            Freud ed allora apparirebbe un po’ meno serafico di quanto non sia
            solitamente interpretato. Noi siamo d’altronde intrisi di Oriente.
            Tutta la nostra letteratura è piena di suggestioni orientali:
            basterebbe partire da Marco Polo, toccare la novellistica italiana
            dei Duecento e dei Trecento e secoli successivi, arrivare al Boiardo
            ed all’Ariosto, farci incantare dalle favole di Carlo Gozzi e
            perfino in parte dal Goldoni, arrivare al De Amicis e trascurare per
            ora D’Annunzio che è sicuramente lo scrittore più orientalista
            che noi possediamo. 
             
            Per tornare all’inizio di questo capitolo, preciserei che Modica
            ormai ha il privilegio di aver individuato diversi compagni di
            strada che hanno compreso la sua pittura per quello che è:
            concentrazione sulla memoria, e quindi (così parlò il Metafisico)
            sulla “solitudine dei segni”. 
             
            1999, PRIMAVERA 
            Elogio della bellezza 
            Il testo che segue è stato scritto per il catalogo della mostra De
            Metaphisica, che si è tenuta tra il 29 aprile e il 30 giugno 1999
            nella Galleria Appiani di Milano, prima di una serie di mostre
            dedicate alla Bellezza. L’opera di Modica figurava accanto a
            quelle di Guarienti e Ferroni, Paolini e Mariani, Bonichi e Luino,
            Iudice e Cardi. 
             
            Quando un amico mercante (‘illuminato’ mercante) mi ha esposto
            il suo progetto di dedicare un anno di mostre alla Bellezza, ho
            accettato con entusiasmo pensando che era giunto il momento di
            esporre una mia idea trentennale: che la bellezza è metafisica o
            non sarà. Il passo dimenticato di un eccentrico illuminista ha
            rafforzato le mie idee sulla perfezione e sulla vitalità della
            bellezza: sulla sua divinità. 
             
            “La bellezza è la perfezione della materia secondo il nostro
            concetto: mentre il solo Dio tiene l’attributo della perfezione
            per proprietà, così la bellezza è qualità divina. A misura che
            una cosa contien più bellezza ella sarà più spiritosa: la
            bellezza è l’anima della materia come l’anima dell’uomo è la
            causa del suo essere; così è ancora per così dire la bellezza l’anima
            e cagion dell’essere delle forme, e tutto quello che è senza
            bellezza è morto per noi. La bellezza chiama ognuno a sé, perché
            è della natura della nostra anima; quello che si volta verso lei la
            trova, e la vede, perché ella è il vero lume di tutte le materie,
            e il simbolo di Dio stesso”. 
             
            Così parlò Giacomo Casanova. 
            Il secolo XX si è aperto con l’intuizione psicologica e
            relativista di un pittore. Giorgio de Chirico forse inconsciamente,
            ripropone le fresche teorie di Freud e Einstein. Vedere la realtà
            ma andare al di là della realtà; studiare il corpo fisico del
            mondo, ma individuarne la metafisica. Non avrà torto André Breton,
            inventore del Surréalisme, a sceglierlo come padre. 
             
            Giorgio de Chirico ha avuto immediatamente imitatori e seguaci.
            Cambiando stile, quella sua prima intuizione muta volto ma resta
            sostanzialmente intatta: la critica lo biasima ma molti pittori lo
            capiscono. E oggi? Credo di individuare nell’opera di pittori più
            o meno giovani il germe di quella rivelazione: ancora inoculato e
            attivo. Il secolo XXI si apre (opinione di M. F. d’A.) con Giorgio
            de Chirico e l’idea metafisica. Il fantasma della Bellezza torna a
            percorrere l’Europa. 
             
            E allora si è imposta la necessità di tramutare una idea radicata
            (ma labile) in una mostra. Un gruppo di pittori convinti che “arte”
            coincide con “artificio”, e che è indispensabile dipingere la
            realtà, a patto che sia irreale. È stata pensata da molti anni la
            mostra di oggi: un gruppo di pittori che si richiami alla metafisica
            e si imponga di continuarne la inquietante filosofia. O meglio,
            forse è vero esattamente il contrario: è proprio la conoscenza di
            questi artisti ad avermi spinto a comprendere meglio il loro vero
            padre, Giorgio de Chirico. 
             
            “Ogni buona idea è stata già pensata: bisogna soltanto cercare
            di pensarla un’altra volta”: è forse una citazione da Borges?
            No, sono parole di Goethe, un ermetico neoclassico che sapeva
            scoprire il romanticismo. Dipingere le cose per disseccarle alla
            ribalta e spremerne qualcosa che ne rappresenta forse l’anima.
            Vedere il veduto, pensare il pensato, immaginare l’immaginato:
            proprio nel senso del divino Borges. Trasformare l’immagine in
            mondo vero e il mondo vero in immagine, con l’antico trucco di chi
            sa bene che la radice di ‘arte’ è ‘artificio’, e che il
            compito sublime del pittore moderno (cioè futuro) è quello di
            comunicare la sua personale-intima idea come un dogma. Metamorfosare
            il Veduto in Visionario. 
             
            Quasi tutti i pittori presenti nella mostra di oggi dipingono
            soggetti naturali, ma solo in apparenza. Spesso si nasconde il mito,
            dietro queste figure in un interno spesso c’è un significato
            nascosto nella, apparentemente innocua, presenza della natura.
            Questo atteggiamento mentale viene ancora dal metafisico (aveva
            scritto in Hebdomeros: “Ebdòmero non poteva essere del parere di
            quegli scettici che trovavano tutto ciò una favola e pretendevano
            che i centauri non fossero mai esistiti, non più dei fauni, delle
            sirene e dei tritoni”). In pratica, il mito non è una idea
            letteraria ma una operante realtà. 
             
            È ridicolo inventare l’America per chi sa semplicemente
            scoprirla. E così è inutile rifare le esperienze già fatte, ma è
            essenziale proiettare sullo schermo dell’opera la complessità del
            proprio Profondo ma anche la profondità del tempo dell’arte. E
            così questi pittori ci parlano soltanto e assolutamente dello scavo
            del proprio io, ma lo fanno per interposto linguaggio. Così come,
            saggiamente, sanno che è sciocco rimuovere antichi complessi e
            problemi. L’enigma e la malinconia, la “sezione aurea”, la “grossezza
            dell’aria” la “divina prospettiva”, la metafisica... 
             
            Viaggi nel mondo cosmopolita delle mostre, viaggi nel tempo della
            storia dell’arte. Tutti questi pittori sanno che l’arte è già
            esistita (ce ne è stata anche troppa!) ma l’essenziale è poi la
            rivelazione, sul foglio o sulla tela, del proprio io e del proprio
            inconscio, del proprio super-io. Della propria esperienza totale che
            sceglie la pittura come effimero specchio. 
             
            Un giovanotto siciliano: silenzioso e modesto, ma in realtà
            sicurissimo del suo lavoro. Me lo ha segnalato Bruno Caruso, un’altro
            metafisico, durante i nostri discorsi svarianti tra i marmi antichi
            e la Vanitas, tra il disegno graffiante e i Dioscuri. Era, credo, il
            1985. I quadri di Modica erano allora meno risolti del suo pensiero,
            ma subito dopo alcuni critici (ricordo Sgarbi, Soavi, Di Capua)
            cominciavano a decretargli un certo successo, mentre qualche
            letterato lo seguiva con passione (ricordo due grandi: Sciascia e
            Tabucchi). 
             
            Mi attrasse la tavolozza di Modica, la sua idea di catturare la
            luce, trovavo ancora poco motivata la sua iconografia (prospettive
            sulla vertigine, scambi interno-esterno, geologie dantesche). Poi,
            di colpo, compresi il suo lavoro, o forse il suo lavoro si precisò
            intorno a tematiche più semplici, o forse la sua pittura si ridusse
            all’essenza. Ricordo i tanti appuntamenti mancati, la mia
            distrazione, le mie continue inadempienze. Ma quando arrivò
            (secondo me) il momento, il testo su Modica prese corpo in pochi
            giorni d’estate. Era stato l’amico Janus (complice di incontri
            con Man Ray, un altro metafisico) a chiedermi un lavoro per il museo
            di Aosta. La mostra si intitolò “Le stanze inquiete” e si tenne
            nell’inverno 1991. Anche in quella occasione scrivevo un
            dizionarietto per Modica, cercando di caratterizzare (senza
            sforzarlo) il suo lavoro. Frasi e temi che oggi rileggo e
            sottoscrivo. 
             
            Oggi Modica ha dipinto per questa mostra un dittico raffigurante
            Mazara e Agrigento: una immagine antica e una moderna con lo stesso
            taglio di veduta (visionaria). Ha dipinto l’eternità e il
            momento, la civiltà e la barbarie. Ha dipinto un doppio fotogramma
            di luce e di pensiero. 
             
            Una lettera di Modica. 
             
            Mazara del Vallo, 15 agosto 1998. […] Provo a scriverti qualcosa
            sulle due opere in mostra. Per la realizzazione di questi due quadri
            ho catturato certe precise immagini: una della città di Mazara e l’altra
            dell’acropoli di Agrigento. 
             
            La prima è una visione in orizzontale dell’aggiomerato urbano
            cresciuto dagli anni ‘60 in poi, dove spesso i palazzi nuovi si
            sostituiscono alle vecchie dimore cancellandone le tracce. Ne viene
            fuori una visione fantasmica, ambiguamente metropolitana, che si
            protende sul mare come una immane chiatta. 
             
            La seconda è una visione dell’acropoli di Agrigento vista dalla
            strada che da Palma di Montechiaro va verso occidente, nel tardo
            pomeriggio. Un’immagine prelevata (col teleobbiettivo) qualche
            anno addietro in uno dei miei frequenti giri estivi. 
             
            Ho usato il termine catturato proprio perché queste immagini sono
            state letteralmente prelevate con un teleobiettivo. Andare al cuore
            delle cose, prelevarle e portarsele via, per poi guardarle con
            attenzione e rimeditarle (anche) a distanza di tempo. Anzi credo che
            il tempo sia necessario per farle decantare, per depurarle dall’accidentalità
            naturalistica, per poi poterle strutturare in forma pura. Colore -
            luce - struttura. 
             
            E nell’interno dell’atelier avviene questo processo-avventura
            della ricostruzione e della riorganizzazione del dato di memoria.
            Una ricostruzione sperimentata e verificata attraverso diverse prove
            e varianti che tendono a una messa a punto, a una sospensione che
            dopo lungo lavoro si rivelerà inequivocabilmente definita e
            permanente. È come se cercassi qualcosa che abbia una certezza
            definitiva capace di durare nel tempo e di rivelarne una verità
            interna e segreta. Qualcosa (una visione) che non si esaurisce nello
            sguardo, che non si smonti, sbricioli all’azione di esso; ma che
            abbia la forza e la tensione interna che continua a vivere malgrado
            l’implacabile azione devastante e destrutturante dello sguardo. 
             
            Ciò è pittura, qualità poetica di un linguaggio. Questa vita e
            verità interna dell’opera è la sua bellezza, la sua
            imponderabile enigmaticità metafisica. Questa tensione magnetica
            che sta nel dipinto è misteriosamente segreta e indecifrabile. Non
            c’è una ricetta o una regola fissa; ogni opera è un organismo a
            sé stante con i suoi codici e i suoi meccanismi (segreti) che
            variano di volta in volta. De Chirico diceva: bisogna trovare l’occhio
            nelle cose, il demone... 
             
            Poi vorrei dirti qualcosa sulla memoria. Non si tratta di un
            recupero nostalgico del passato, e se c’è una nota apparentemente
            nostalgica che essa non tragga in inganno. Più che di nostalgia
            penso che si tratti di dolente malinconia e inquietudine nei
            confronti di un presente che ci rivela le impronte, le tracce
            consuete di un passato che essendo irrecuperabile esiste solo come
            imprescindibile fantasma della memoria. Come traccia originaria di
            un percorso nel tempo (che ci appartiene). E poi è sulla tela,
            sulla superfice del presente che questa memoria si reinventa per
            interrogarsi e proiettarsi nel futuro. 
             
            Per quanto riguarda la bellezza, ritengo che un’opera sia bella
            quando presenti una corrispondenza tra valore formale e valore
            morale. Quando l’invenzione è pienamente incarnata con l’esistenza,
            la rivela. E l’opera, in questi casi, si presenta a noi come una
            sorta di ‘miracolo visivo’, una apparizione insostituibile e
            necessaria. Penso che la bellezza sia riscontrabile nel binomio
            metafisico invenzione - verità. […] 
             
            PRIMAVERA 2002 
            La pittura continua… 
            E sono di nuovo in via dei SS.Quattro. Devo far leggere il testo al
            vecchio amico Beppe (chissà se apprezzerà la mia incursione nel
            “privato”, in questo testo sulla pittura?). È sempre primavera:
            soltanto che oggi sembra estate, mentre un mese fa era inverno. Lui
            legge, e io mi guardo intorno. 
            Vedo su un tavolo le fotografie scattate dal pittore nei paesi suoi
            l’estate scorsa, accanto ad alcune foto di un trapanese dell’Ottocento:
            somigliano ai quadri appoggiati alle pareti; bisognerà pubblicarle.
            Non so chi ha detto che il mondo è quello che vediamo ma che è
            anche necessario imparare a vederlo. E come si fa a imparare?
            Proprio allontanandosi da quel mondo, sforzandosi di mettere tra i
            luoghi dell’infanzia e il presente un tempo e uno spazio infiniti. 
             
            Rivedo quel mar Tirreno che si riflette nei quadri di Modica; eterno
            come il mar Egeo nei quadri dei Dioscuri. Ricordo che i luoghi di
            Modica sono proprio come le “città invisibili” di Calvino, un
            insieme di mondi che (mi disse così quando lo aiutai a illustrare
            con quadri dechirichiani un testo per la rivista di Franco Maria
            Ricci) quelle città esistono soltanto quando pensiamo dietro le
            nostre palpebre abbassate. Penso che i luoghi di Modica coincidono
            con la biblioteca di Babele: un mondo dove ogni copia è l’immagine
            autentica (e viceversa). 
             
            Modica riflette, e riflette ancora, e dipinge quella sua replicata
            riflessione. Leggo in una sua pagina poggiata sul tavolo, che un
            giorno ha scritto in una rivista per studiosi dell’anima: “Lo
            specchio è un diaframma che rileva e rivela la memoria. Lo specchio
            cristallizza sulla superficie del presente le immagini che vengono
            dal lontano passato”. È proprio vero: i pittori hanno detto anche
            con le parole quello che si ostinano a dimostrare con i quadri… 
             
            E continuo ad aggirarmi nell’atelier. Scopro che le saline
            somigliano (enigmaticamente) a Piramidi egizie, che il suo mosaico
            di luci somiglia al mistero di Piazza Armerina, rifletto che le
            incisioni non sono altro che la trama di una rete che vuole
            catturare la luce. Bello, aggirarsi nell’atelier di un pittore:
            proprio in questi giorni sto preparando il piano di una mostra che
            metterà in scena il pittore nel suo studio: lo spazio della sua
            vita, del sogno e della memoria, la scena dei complessi e il
            teatrino della volontà creativa . 
             
            Vedo su una poltroncina un libro di Leonardo Sciascia, e penso a
            quando veniva a trovare negli anni Cinquanta un poeta romano (Mario
            dell’Arco, mio padre) con una ventiquattrore che conteneva una
            bottiglia di Amaro Averna e due volumi di Mickey Spillane (“Questo
            è per la signora; questi per il viaggio di andata e il viaggio di
            ritorno”). Ricordo una foto molto tarda del suo studio: c’era un
            quadro di Modica dietro la sua scrivania… 
             
            Il pittore ha letto quasi tutto il testo, e lo ha anche chiosato,
            insieme a Carla. Non mi pare che gli dispiaccia… 
             
            Torno a guardare quel grande quadro dal quale sono partito, che reca
            nel titolo un programma ambizioso quanto scettico: “inseguire la
            pittura”. E ricordo una frase del grande Borges che ho letto da
            poco: “Mi pongo in una situazione passiva e aspetto. Aspetto e la
            mia unica preoccupazione è di mettere tutto in bellezza… Ho la
            sensazione di ricevere un dono non so bene se dalla mia stessa
            memoria o qualcosa altrui. E cerco di non intervenire troppo”. E
            torno al grande quadro. Si inseguono le luci (vere e finte, calde e
            fredde, verosimili e false), in questo quadro che sembra una
            finestra, ed è invece una descrizione del tempo e anche una
            parabola sul fare pittura. 
             
            Ma certo, la pittura devi inseguirla sempre, anche se finisce sempre
            per somigliare alla bella Dafne: quando credi di averla finalmente
            raggiunta, si trasforma sotto le tue mani in qualche altra cosa. E
            allora l’inseguimento deve continuare… 
             
              
            Articoli collegati: 
            Giuseppe Modica a Mazara
            del Vallo 
            Chi è Giuseppe Modica 
            La luce è la luce è la
            luce 
              
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