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Come una biografia dell’anima



Giovanni Faccenda




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Riceviamo e pubblichiamo:

"Gli uomini furono sempre i miei bersagli preferiti
e fino a quando non ho potuto dimostrare
la tragedia della loro presenza sulla terra
per mezzo di un pezzo di matita,
mi sono divertito a pigliarli a sassate".
Ottone Rosai

Così scrive Ottone Rosai in una delle sue ultime lettere, lapidario e preciso come se volesse proferire un’indicazione segreta: "La verità è nel disegno". Il suo, di disegno - istintivo, ruvido, talvolta persino irrazionale e comunque sempre colmo di una disperata, tragica inquietudine interiore -, non ha bisogno neppure della firma, che raramente, fra l’altro, ne accompagna gli esiti, rappresentando il codice genetico, unico e irripetibile, di un uomo e di un artista che occupa un posto tutto speciale nella storia dell’arte e nella cultura del Novecento.

Sull’importanza strategica e sul ruolo prioritario, in rapporto al complesso espressivo, che lo stesso Rosai ebbe ad assegnare all’atto grafico, Alessandro Parronchi ha fornito anni addietro utili indicazioni: "Egli era molto geloso di questa parte della sua produzione. Considerava infatti un disegno quasi una matrice per la sua ispirazione. In anni successivi, l’ho visto più volte prendere un disegno, appuntarlo su un piano di legno verticale e mettersi a riportarne la composizione sulla tela. Questo aveva fatto anche in precedenza, da sempre, da quando, almeno, il disegno, dal vero o appena rielaborato, era stato il testimone di un suo intervento sulla realtà. I disegni erano la somma di queste scelte.

Li teneva in un grande inserto, che ne risultava gonfio e sformato, dove, a contrasto, l’uno con l’altro, finivano per macchiarsi e consumarsi. Nei più vecchi aveva cercato di porre rimedio all’usura con un fissativo, di cui rimanevano ai margini dei fogli vistose sbavature, che andavano a confondersi con le macchie del caffè, di cui qua e là si era servito per dosare le ombre, sui fogli che appunto al caffè erano stati disegnati, e che erano la maggior parte. Di questi disegni era gelosissimo, e non li vendeva, e a pochissimi li faceva vedere. Che ne regalasse uno a qualche amico, in occasioni più che rare, era da considerarsi un vero privilegio".

Resta un mistero, dunque, come a questo spaccato fondamentale della creatività di Rosai non sia stato ancora attribuito per intero l’interesse che merita, nonostante esso accolga in sé e riveli, probabilmente anche meglio della pittura, la complicata radice endogena di un autore consumato fra ansie, tormenti, solitudine, odio e amore per i suoi simili. Così struggente, l’amore, da far pensare a una malinconica confessione di uno dei personaggi di Bernanos: "Quando sarò morto dite agli altri che io li ho amati più di quanto non abbia mai osato dire".

La comprensione di Rosai inizia da questo, imprescindibile punto. Da quella disposizione filantropica che arriva al cinismo soltanto quando è ferita, da quell’indagine introspettiva tesa a portare in superficie il bello ed il brutto, il buono ed il cattivo, che è in ogni uomo.

Pochi, fra coloro che si sono manifestati in tutto il secolo appena trascorso, hanno mostrato un magistero grafico tanto eminente come Rosai. E un esito autonomo capace di distinguersi in quanto tale. Di fatto, la natura sorgiva di un’espressione basata su un’osservazione analitica e sentimentale di uomini e cose, paesaggi e strade, che si realizza attraverso una singolare perizia del gesto manuale, ha nella scarnificazione del bianco e nero, in un esclusivo impianto chiaroscurale, insieme ai presupposti della pittura e a certi suoi umori, quei dati essenziali che conservano, misteriosi, un significato proprio, e non possono pertanto essere ricollegati al ruolo specifico che, in Rosai, ogni volta assume il colore.

E’ pur vero - e un buon numero di schizzi a tema paesistico ce lo rivelano - che di alcune gradazioni cromatiche egli teneva volentieri conto, annotandole direttamente sugli elaborati, allo scopo, più che altro, di soddisfare quella sua esigenza realistica che si ritrova in vari dipinti. Mentre è invece discutibile la convinzione di certuni che intenderebbero accomunare la supposta involuzione qualitativa, sul finire degli anni Trenta, di disegno e pittura.

L’errore è grossolano e manifesto in entrambi i versanti: infatti, se i successivi soggetti a tema religioso e la serie dei "nudi" allargano ben oltre il secondo dopoguerra la parte più nobile della sua produzione pittorica (che conserva, comunque, esiti di particolare rilevanza anche nel cosiddetto "periodo bianco"), i numerosi fogli ricollegabili al medesimo contesto cronologico confermano che non c’è nessuna stasi creativa, rafforzando, anzi, l’idea di un’indagine quotidiana in grado di mantenersi tonica in quelle che sono le sue maggiori convinzioni.

Ecco, dunque, la necessità di sottolineare, se ancora ce ne fosse il bisogno, la straordinaria importanza, di contenuti e di significati, che il disegno continua ad assumere nella storia di quest’artista fino al giorno della morte: la drammatica partecipazione emotiva degli anni Quaranta, l’impressionante solidità emersa nell’ultimo periodo, quando "le cose" cominciano ad andargli meglio, ma è ancora lontano quello che lui sente come un concreto appagamento.

I paesaggi, gli interni, i suggestivi scorci degli amati vicoli, dopo essere stati, all’inizio, ribalta sentimentale di un’umanità "vinta", diventano ora luoghi simbolici, dove si manifesta, con grande intensità, la sua partecipazione sempre più accorata. Il segno rimane istintivo, e la sostanza lirica nella rappresentazione certo non diminuisce. Ma è soprattutto nelle figure e nei ritratti che, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, egli si dimostra una volta di più il disegnatore compiuto e assolutamente unico che intendiamo indicare: lì, per davvero, affonda la matita come se fosse una luce chiamata a rischiarare le tenebre, il passe-partout migliore per arrivare all’inconscio, il doloroso coltello con il quale, negli autoritratti, decide di frugarsi dentro, senza pietà e anzi con violenza. Fino a dare di sé un’immagine terribilmente assorta e desolata, da imputato senza possibilità di scampo nel grande tribunale della vita, che riflette i suoi patimenti quotidiani, le continue amarezze, la fatica di vivere e di essere, uomo e artista, in quel modo.

In questi disegni, pieni di angoscioso pessimismo e persino di noia, che certo sarebbero piaciuti a Kierkegaard e Schopenhauer, Rosai indica definitivamente quello che rimarrà fino all’ultimo il suo interesse principale: indagare dentro e intorno all’uomo.

Lo farà avvalendosi di strumenti a lui congeniali come la matita e il pennello, comunque prigioniero dell’ansia di chi sente dentro di sé di non avere molti giorni da spendere e, allo stesso tempo, invece, ancora molte cose da dire, molti soggetti da ritrarre, molti uomini a cui "tirare fuori le budella", il marcio che ne occulta e ne svilisce la dignità spesso calpestata.

A rifletterci bene, se a Giuseppe Berto si deve la realtà del male oscuro, in un racconto suggestivo e di grande intensità letteraria, a questo genio sregolato come Cellini e divorato da mille, indomabili inquietudini occorre senz’altro assegnare il medesimo primato per quanto ha voluto e saputo trasferirci attraverso il disegno e la pittura, con una visione profetica dell’uomo moderno e della sua condizione che ci lascia ancora oggi sbalorditi e sconcertati.

E’ dunque certo, a questo punto, che la cruda attualità realistica di Rosai continuerà a non conoscere tempo e a consolidarsi, anzi, alla maniera di un testamento epocale, perché se anche muteranno gli scenari dei suoi paesaggi e delle sue strade, i personaggi soli o radunati in silenzio intorno ai tavoli delle sue osterie, la verità che continueremo a leggere nei volti dei nostri simili ogni mattina resterà identica a quella che, con un piglio analitico impareggiabile, ebbe a cogliere e manifestarci, in modo così indelebile, soltanto lui.

Segni di umanità in qualcosa di personale

Fa un certo effetto, oggi, pensare che la maggior parte dei disegni raccolti in questa mostra Rosai li abbia conservati con tanta premura per tutta la vita. E’ forse utile e giusto domandarsi perché e quale segreta importanza questi fogli abbiano rivestito, in un così lungo arco di tempo, nella specifica considerazione del loro autore. Forse un arcano significato li accompagna, magari una scrittura cifrata sfuggita sinora a ogni tentativo di soluzione, in grado, chissà, di aggiungere ancora qualcosa di importante a un’antologia critica già assai solida nelle sue affermazioni.

Certo è che sono disegni così potenti, questi, nella loro esemplare nudità e primitiva gestazione, da stupire chiunque ne goda l’essenziale apparenza anche senza approfondirne il carattere curioso, perché forte, in ogni caso, è la proliferazione di elementi idiomatici che essi offrono nel rapporto, nient’affatto occasionale, con alcuni celebri motivi di pittura.

Fra quelli rimasti, per una gradita casualità, sino a oggi inediti, ve ne sono taluni che contengono l’idea originale di qualche famoso soggetto che Rosai ebbe a sviluppare in tempi successivi, ripetendo in varie occasioni, anche attraverso ulteriori disegni, la scena inizialmente osservata e appuntata, magari, nel retro di una lettera rimastagli nel taschino. Una ragione in più, quindi, per ritenere questi, che sono tutt’altro che semplici "schizzi" secretati ai più e persino a molti suoi amici, preziosi allo stesso modo in cui erano stati considerati da lui, che li aveva custoditi con cura, durante tutta la sua tormentata esistenza, e ripresi in mano più volte per servirsene nell’esecuzione di alcuni dipinti.

E’ noto, fra l’altro, come Rosai fosse attaccato in modo sviscerato ai suoi disegni, e non dubitiamo che a queste carte possa anche esserlo stato di più. Di fatto, ogni volta che si accingeva a prendere la matita in mano, era come se in lui stesse per sbocciare un fiore, uno stupendo fiore bianco, solitario, nel terreno incolto di un’umanità afflitta e diseredata.

Del ruolo autonomo, prima, durante e dopo la pittura, che il disegno subito assunse nell’arte di questo protagonista, è il caso a questo punto di sottolineare le parole che ebbe a scrivere, fra gli altri, Mario Sironi, in una considerazione acuta e assai circostanziata: "I disegni di Rosai fanno vedere il fondo più schietto della sua tecnica pittorica. Sono violenti, affondati in un segno denso, energico che rivela a meraviglia quale aspra e ruvida violenza costruttiva, che non elide il più fine senso pittorico, viva e palpiti sotto le apparenze ingenue e popolaresche della tecnica pittorica di Rosai e, come in un primitivo del Duecento, sia la profonda e nobile ragione della sua arte e delle sue creazioni".

Ne accogliamo l’evidente riscontro mentre, ad uno ad uno, passiamo in lenta rassegna questi fogli che sembrano essere stati occultati da Rosai come delle segrete reliquie. I primi, in ordine cronologico, appartengono a un quaderno con scritti e figurazioni iniziato nel 1915 e usato per tutto il periodo della guerra. Il carattere decisamente popolano di Chitarrista all’osteria e quello persino goliardico di Son sempre vivo - entrambi verosimilmente realizzati nel ’15 - lascia di lì a poco spazio alla sofferta riflessione intorno al dramma della guerra, ed ecco, allora, che una Sintesi di volto dell’anno successivo (dove l’accenno di un berretto e soprattutto gli occhi spiritati possono essere messi in relazione con la figura posta a destra in Les Apaches del 1913) arriva già a esprimere, attraverso un taglio simbolicamente verticale, la sensazione di qualcosa sul punto di travolgere il precario destino della collettività in genere e di quei Soldati, che, in piedi o su una sedia, a conversazione o solitari, paiono in verità distinguersi come pedissequi burattini.

Un sentimento di pietà non è tuttavia estraneo a questi uomini, che conoscono lo sberleffo e il cinismo di Rosai in ogni dove (in Omino e cavallo del ’18, il tipo raffigurato fra i due alberi mostra addirittura grossolane sembianze di pollo), ma è il dazio, inevitabile, da pagare quando si arriva a ridere di niente piuttosto che guardare in faccia la tragedia. Allora ogni occasione è buona per spingersi oltre una realtà che dolorosamente appartiene all’uomo come una punizione ingiusta e lo lascia libero solo nel ricordo e nell’immaginazione: impulsi che accompagnano ancora Rosai nel 1918, in una delle ultime pagine del suo eterogeneo album di guerra, mentre esegue uno studio, probabilmente dal vero e sino ad oggi sconosciuto, per Follie estive, apprezzabilissimo esercizio, informato al cubofuturismo d’impronta sofficiana, che amplifica subito il proprio intrinseco interesse per alcune aggiunte didascaliche poi risparmiate alla definitiva esecuzione pittorica, capaci di testimoniare la varietà delle soluzioni pazientemente soppesate dall’artista come i suoi legittimi ripensamenti.

E’, questo, forse il vero epilogo di un quaderno iniziato con la becera baldanza del giovane partorito e fortificato dalla strada e concluso con la maturità dell’uomo che ha rafforzato il proprio temperamento d’artista di fronte alla terribile tragedia della guerra. Dalla quale tornerà, eroe pluridecorato, con alcune urgenze interiori capaci di mutare radicalmente gli orizzonti della sua ricerca. Scriverà lui stesso in seguito: "Chiuso il periodo avanguardistico della giovinezza, chiusi i mondi del popolaresco del teppismo e nei quali mi portava coscienza ed esperienza d’artista, avvertivo chiaramente che l’artista aveva ormai da riordinare i frutti della esperienza e della partecipazione umana alla vita per maturarli nella trasfigurazione amorevole e razionale dell’arte. Ripresi contatto con ansia, con sforzo e con timore dei lapis e della tavolozza e soprattutto cercai di ritrovare in me quell’amore che sempre avevo portato per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita".

Fu di nuovo al caffè che tornò ad incontrarle, quelle creature. Infatti, un congruo numero di disegni provenienti dalle sue carte, fra il 1920 ed il 1925 (analogamente a quelli raccolti in mostra), nacque proprio lì, mentre "sedeva in disparte, immobile e serio, con lo sguardo fisso alla piazza, del tutto assente da ciò che dicevano i suoi amici, appena salutando con un gesto della mano chi se ne andava o chi giungeva ad occupare una sedia vicina". Ricorda ancora Romano Bilenchi: "A un tratto voltava la testa verso una delle porte: uno, due, tre, quattro uomini stavano entrando. Rosai, con gli occhi subito accesi, li fissava, li seguiva osservando il loro modo di camminare finché non si erano seduti, li scrutava ancora a lungo, poi, tirato fuori di tasca un blocco di appunti, si metteva a ritrarre uno di essi che beveva il caffè o leggeva il giornale, o due uomini che, accanto, o l’uno dinanzi all’altro, ragionavano calmi.

Anche Rosai era tranquillo, quasi più immobile di prima, dava rapidissime occhiate verso il tavolo dei suoi soggetti, poi disegnava a lungo, ripetendo spesso il disegno su tre, quattro fogli. Infine deponeva il lapis sul tavolino, si rovesciava all’indietro dando un’ultima occhiata, un’occhiata spesso di sfida, a coloro che aveva ritratto, a tutto il caffè. Poteva darsi che nel frattempo i suoi uomini se ne fossero andati senza che Rosai lo avesse notato. Allora rideva, accavallava una gamba sull’altra ed esclamava soddisfatto e quasi stupito di trovarsi lì fra amici: "Oh, che bellezza!"

Intanto un’umanità ideale, autentica e disperata, come segnata da una condizione esistenziale fatalmente tragica, prendeva corpo e anima e cresceva in un’arte percorsa in ogni suo anfratto da una sotterranea poesia dal respiro purissimo. E quei disegni, segretamente nati al caffè, come nelle strade di una città a tratti amica a tratti ostile, erano già pittura, nella violenta, talvolta addirittura feroce, esaltazione metamorfica del nero sul bianco della carta da lettere o da appunti. Si veda una Testa d’uomo del 1922: la gelida fissità in cui insistono gli occhi sembra richiamare, cupa, il volto di un cadavere. Può darsi che sia anche questo un ritratto dal vero, rapido, drammatico, essenziale, che conferma come Rosai non si sia mai sottratto dinanzi al manifestarsi fisico e spirituale del dolore. Certo è che, in qualunque caso, in lui continuano al solito ad affrontarsi e convivere due diversi sentimenti: l’ansia di indovinare quanto di più oscuro c’è all’interno degli uomini e il tormento di vederne il risultato nei propri dipinti e nei disegni.

Qualcosa, nella sua più incisiva ritrattistica, comincia tuttavia a mutare sul finire degli anni Venti, allorché il celebre Giocatori di toppa del ’28 sembra indicargli la via di una grandiosità monumentale che si ritrova in alcuni ritratti di contadini, eseguiti fra il 1931 e l’agosto del ’33 (ma la serie prosegue almeno fino al ’38, quando è già da cinque anni in via di San Leonardo), nel nuovo studiolo di via di Villamagna. Come racchiusi in se stessi e vinti dalla disperazione gli erano apparsi i personaggi che aveva inseguito internamente e in modo febbrile al caffè, ricreandoli, infine, in una dimensione catartica e persino religiosa, così schiacciati dalla vita e vittime di un disagio inestinguibile si mostrano, ora, gli uomini che ritrae scegliendoli fra gli abitanti del luogo.

A fargli da modelli, in quello che rimarrà un assiduo esercizio evocativo fin’oltre il ’38 (con esiti robustissimi, in pittura, raggiunti con La famiglia e L’osteria), sono soprattutto Pietro ed Eliseo, due poveri del posto a lungo indagati nell’umbratile anatomia dell’anima prima di arrivare a scolpirne l’esemplare e palpitante maschera fisionomica e del corpo. Anche Dino Caponi, il fanciullo che diverrà poi il suo allievo prediletto, un giorno d’ottobre del 1932 gli posa per un ritratto. Rosai indugia, consuma più fogli, alla fine ne conclude uno che è fra i più belli e sorprendenti di quegli anni: il bambino, infatti, è descritto con fattezze di uomo maturo e ha l’occhio acceso e furbo di chi è abituato a guardarsi intorno e vedere più avanti degli altri. Giusto il basco, lasciato in testa, gli conferisce una lontana aria fanciullesca, dissimulata, peraltro, nelle pieghe di un tormento interiorizzato che arriva a scavargli in profondità il volto severo e come irrigidito.

Insieme a questo Ritratto di Dino, fra i disegni più toccanti ed incisivi del periodo, ve n’è uno, intitolato Mina, che Rosai realizza nella primavera del 1933, poco tempo prima di trasferirsi da via di Villamagna a via di San Leonardo. Ne è protagonista una donna semplice, probabilmente una contadina, ordinata nella capigliatura e distinta nei lineamenti, che appare ugualmente fiera, pur mostrando uno sguardo colmo di malinconia e spento, nella rassegnata accettazione del proprio vivere ai margini, in un’ombra oscura ed inspiegabile che invade e condiziona sempre più il suo anonimo essere. E’ la stessa ombra che ritroviamo in forma subliminale in un Omino seduto del ’35, piccolo appunto inedito eseguito senz’altro dal vero, che resterà per sempre all’origine di un’opera di altissima qualità pittorica come Il giardiniere.

Mutano, dunque, gli scenari, ma l’interesse principale di Rosai continua a rimanere il solito: la torbida tragedia dell’esistenza, ciò che non si vede e appartiene all’uomo. Il suo chiodo fisso: "Guardava con intensa meraviglia gli uomini che disegnava come a confrontarli con immagini che avesse nella memoria, ma subito quella meraviglia si tramutava in ansia, in tensione. E si capiva che quest’ansia, questa tensione erano fatte di un’immensa certezza, mentre dai suoi disegni nascevano uomini irresoluti o schiacciati dalla vita, rassegnati, dolorosi, pieni di squallore fisico; uomini visti di schiena, di fianco, di fronte, con le braccia che riposavano sul tavolino o inutilmente abbandonate lungo il corpo, con il cappellaccio in testa".

Abbiamo già scritto, nella parte iniziale di questo saggio, come a nostro avviso rimanga inalterata la robustezza che contraddistingue l’esercizio grafico di Rosai in quello che risulterà poi essere, purtroppo, il suo ultimo periodo Vero è che, diversamente dagli anni in cui egli si affrettava a rincorrere come un segugio le sue "prede" al caffè, nelle osterie, per le strade anguste della città strangolate fra gli alti caseggiati, durante la fase bellica e soprattutto post-bellica del secondo conflitto mondiale egli appare come raggiunto, nei suoi tormenti quotidiani, da una sorta di inattesa pace che, sebbene non arrivi ad inficiare l’abituale, indomita aspettativa interiore, di fatto sembra caratterizzare la disposizione dell’uomo verso i suoi simili e dell’artista verso i suoi soggetti preferiti.

I ritratti, sempre più spesso eseguiti allo studio di via di San Leonardo piuttosto che al vicino "Caffè Fontana", risultanza di modelli occasionali incontrati per strada e "da povero a povero" ricompensati, appaiono in questo senso segnati, già in superficie, da una latente rassegnazione, che può essere intesa come un misto di aspettative disilluse, sogni infranti, cocenti delusioni. Forse l’età, non più giovane, invita Rosai alle prime senili riflessioni e ad un bilancio, sia pure provvisorio, che fatica, comunque, a tornare. Lo affermano, sottovoce, i numerosi Autoritratti raccolti nell’ultimo periodo: quasi una confessione testamentaria sui mille itinerari percorsi prima di arrivare a destino. E’ anche stanco (si veda, ad esempio, la posa in cui si mostra in un disegno del ’47 appartenuto allo scrittore Luigi Berti di Firenze), come, del resto, può esserlo chi ha cercato in tutti i suoi giorni la verità sulla tragedia umana. Ma non si dà per "vinto", e insiste quotidianamente ad indagare su qualcosa che sembra sfuggirgli come la vita stessa.

In ogni pezzo di carta che gli capita a portata di mano continua intanto a trovare quello che gli suggerisce la matita: la sofferta realtà della sua anima riflessa in quella degli altri. Ecco, allora, che in molti dei numerosi ritratti che egli realizzerà, intimamente ispirato, fino a pochi giorni prima della morte (superbo, fra gli altri, quello di Giuseppe Raimondi del ’53), ci piace indovinare, anche involontari, alcuni tratti somatici del suo volto, questo per ribadire che, dinanzi all’impietosa prospettiva di un giudizio, Rosai non sta e non è mai stato dalla parte di chi giudica ma sempre da quella di chi è giudicato.

E allora quali parole, fra le molte dette o scritte da chi ebbe a comprenderlo meglio e a comprendere più in profondità la sua esclusiva poesia prima di tanti critici, se non quelle di un poeta e di un amico come Mario Luzi possono concludere questo modesto omaggio ad un artista tanto straordinario con la stessa efficace esattezza di queste? Furono scritte ventisei anni dopo quella triste alba di Ivrea, continuano ad offrire molte ragioni condivisibili per tornare a rileggerle anche oggi. Affermano: "La tormentata umanità di Rosai ha salvato questi relitti di un’epoca oppressiva, violenta, numeraria, nullificante dal diventare manichini, robot, numeri; ha potuto non profanare la loro creaturale individualità, ha lasciato ciascuno al suo misero o grande dramma.

E questo fa sì che a queste vive e talora potenti immagini ci aggrappiamo quasi a reliquie salutari e propiziatorie. Sembra infatti vogliano significarci che per quanto abbietto e reietto l’uomo non può essere derubato della sua umanità. Del resto nella sua tribolazione e nella sua angoscia, attraversate da folate di fanciullesca e quasi insolente, quasi provocatoria allegria, a Ottone non pareva incredibile che proprio lì il divino si manifestasse. L’incarnazione rosaiana non cerca altri titoli, non conosce altri blasoni; ma con quale altro Cristo di autore moderno potremmo confidarci meglio che con il suo?"

Non sappiamo, ma è un’altra delle tante domande che ancora rimangono in sospeso, mentre intorno a Rosai e alla sua umanità ideale continua ad approfondirsi, ogni giorno di più, il complesso scavo critico.


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